Quando cominciai a scrivere?
Presto, molto presto. Conservo una
poesia scritta forse a sei anni o poco più, dedicata al vecchio mulino
diroccato che si trova presso Piobbico, lo stesso dove, molti ma molti anni più
tardi, ho ambientato la scena dei vizi capitali nel mio “Fausto di Marlowe”,
una breve poesia con tentazioni onomatopeiche: “il rumore dell’acqua / che
sciacqua e che risciacqua / i grandi e parvi passi”…
La prosa venne dopo, come del
resto è accaduto anche nella storia dell’umanità: la poesia precede la prosa,
lo stupore precede la razionalità.
Durante le elementari scrivevo
poco e male: l’incubo dei pensierini, dei pensieri, dei temi… Poi improvvisamente,
a circa undici anni, nel corso della prima media, accadde il miracolo: da un
giorno all’altro…mi sbloccai da quella sorta di pertinace stitichezza
linguistica e presi a confessare con naturalezza alla carta quello che mi
girava in testa, senza falsi pudori, senza ritegni espressivi: scrivere era più
facile che parlare, che abbordare il prossimo, che vivere... E i miei temi
divennero esemplari, da leggersi in classe, da mostrare come piccoli prodigi. A
chi attribuire il miracolo? Alla mamma che mi aveva insufflato quel gusto di
scrivere poi esploso incontenibile? A Charles Dickens che mi aveva suggerito
come trasferire pensieri e sentimenti in parole?
Durante il mese della calura
estiva, quando la mamma mi proponeva o imponeva di fare un riposino pomeridiano
per riprendermi dopo la spossatezza di una mattinata al mare, mi alzavo dal
letto di soppiatto per raggiungere la scrivania e stilare le paginette di un
romanzo sentimentale che poi sarà finito in un vecchio mobile o coinvolto fra
le carte da distruggere: per imparare a foggiare in parole storie, sentimenti,
desideri e paure, per trovare sfogo alla fantasia. E più tardi ogni occasione di scrivere –
scolastica e no – divenne una gioia, un divertimento e insieme una scommessa.
Mio padre sostenne le mie
passioni regalandomi la Lettera 22, mitica macchina da scrivere Olivetti che
imparai a percorrere a velocità supersonica con un solo dito…
I miei temi “esemplari”
occuparono tutto l’arco delle tre Medie. Dopo l’esame di Terza un mio compagno,
di cui non ricordo il nome e appena la faccia, insistetti sino allo spasimo
perchè gli regalassi il quaderno “di bella” dove erano raccolte le mie
composizioni scolastiche. Resistetti a oltranza, sino a quando l’insistenza
divenne petulanza e alla fine gli mollai il tesoro. Scomparvero così “dalla
storia e dalla memoria” quei temi che in definitiva erano più poesie che prose,
con tanto di clausola finale che mi piaceva iterare, e vedevo che funzionava.
Con il Liceo doveva mutare
profondamente il mio orizzonte letterario. Il nuovo professore di Lettere – un
religioso “carissimo” che pretendeva di farci apprendere le fonti storiche, da
lui minuziosamente indagate, di tutti i personaggi manzoniani, col risultato di
farmi odiare in breve tempo gli immarcescibili “Promessi sposi” – ci impose
un nuovo metodo di lavoro: prima di
svolgere il tema assegnato dovevamo predisporre una scaletta degli argomenti
che avremmo poi sviluppato, insomma una sorta di ossatura razionale. Per me,
che scrivevo di getto due pagine di prosa poetica in meno di mezz’ora e
“consegnavo” precocemente, il nuovo metodo fu distruttivo. Per un po’ provai a
continuare a scrivere di getto il mio tema per poi tirarne fuori una scaletta
“a posteriori”: insomma l’itinerario esattamente contrario a quello che avrei
dovuto seguire. E dall’oggi al domani mi ritrovai retrocesso da scrittore
ufficiale a mediocre scribacchino. La fine!
Debbo dire che, a distanza di
tempo, debbo ringraziare quel meticoloso docente. Il metodo mi fu soprattutto
utile – tanto che lo seguo tuttora – nell’articolare in una scaletta e
organizzare la mia naturale capacità d’improvvisatore quando si tratta di
preparare comunicazioni, conferenze, lezioni e simili. In un ampio raccoglitore
raccolgo ancora i pezzi di carta, vecchie buste, biglietti di tram, scontrini,
fogli di calendario su cui ogni volta appunto la scaletta di un incontro, di
una comunicazione o lezione.
Negli anni del Liceo, dopo le
forche caudine della “scaletta obbligata”, mi liberai concedendo più
spazio-privato a scenette, sketck, piccole cose umoristiche, testi di riviste
ed altro. Per ritrovare il gusto e il piacere di scrivere…
Quel gusto di scrivere mi è
rimasto. Mi è servito professionalmente a più riprese, nei concorsi scolastici
e non, durante la mia pratica giornalistica giovanile, durante il mio lavoro su
testi e sceneggiature televisive. Ancor oggi se voglio divertirmi ricorro alla
pagina e alla tastiera del mio PC.
(Leandro Castellani)
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