venerdì 4 novembre 2016

QUANDO COMINCIAI?



Quando cominciai a scrivere? Presto, molto presto. Conservo  una poesia scritta forse a sei anni o poco più, dedicata al vecchio mulino diroccato che si trova presso Piobbico, lo stesso dove, molti ma molti anni più tardi, ho ambientato la scena dei vizi capitali nel mio “Fausto di Marlowe”, una breve poesia con tentazioni onomatopeiche: “il rumore dell’acqua / che sciacqua e che risciacqua / i grandi e parvi passi”…
La prosa venne dopo, come del resto è accaduto anche nella storia dell’umanità: la poesia precede la prosa, lo stupore precede la razionalità.
Durante le elementari scrivevo poco e male: l’incubo dei pensierini, dei pensieri, dei temi… Poi improvvisamente, a circa undici anni, nel corso della prima media, accadde il miracolo: da un giorno all’altro…mi sbloccai da quella sorta di pertinace stitichezza linguistica e presi a confessare con naturalezza alla carta quello che mi girava in testa, senza falsi pudori, senza ritegni espressivi: scrivere era più facile che parlare, che abbordare il prossimo, che vivere... E i miei temi divennero esemplari, da leggersi in classe, da mostrare come piccoli prodigi. A chi attribuire il miracolo? Alla mamma che mi aveva insufflato quel gusto di scrivere poi esploso incontenibile? A Charles Dickens che mi aveva suggerito come trasferire pensieri e sentimenti in parole?
Durante il mese della calura estiva, quando la mamma mi proponeva o imponeva di fare un riposino pomeridiano per riprendermi dopo la spossatezza di una mattinata al mare, mi alzavo dal letto di soppiatto per raggiungere la scrivania e stilare le paginette di un romanzo sentimentale che poi sarà finito in un vecchio mobile o coinvolto fra le carte da distruggere: per imparare a foggiare in parole storie, sentimenti, desideri e paure, per trovare sfogo alla fantasia. E  più tardi ogni occasione di scrivere – scolastica e no – divenne una gioia, un divertimento e insieme una scommessa.
Mio padre sostenne le mie passioni regalandomi la Lettera 22, mitica macchina da scrivere Olivetti che imparai a percorrere a velocità supersonica con un solo dito…
I miei temi “esemplari” occuparono tutto l’arco delle tre Medie. Dopo l’esame di Terza un mio compagno, di cui non ricordo il nome e appena la faccia, insistetti sino allo spasimo perchè gli regalassi il quaderno “di bella” dove erano raccolte le mie composizioni scolastiche. Resistetti a oltranza, sino a quando l’insistenza divenne petulanza e alla fine gli mollai il tesoro. Scomparvero così “dalla storia e dalla memoria” quei temi che in definitiva erano più poesie che prose, con tanto di clausola finale che mi piaceva iterare, e vedevo che funzionava.
Con il Liceo doveva mutare profondamente il mio orizzonte letterario. Il nuovo professore di Lettere – un religioso “carissimo” che pretendeva di farci apprendere le fonti storiche, da lui minuziosamente indagate, di tutti i personaggi manzoniani, col risultato di farmi odiare in breve tempo gli immarcescibili “Promessi sposi” – ci impose un  nuovo metodo di lavoro: prima di svolgere il tema assegnato dovevamo predisporre una scaletta degli argomenti che avremmo poi sviluppato, insomma una sorta di ossatura razionale. Per me, che scrivevo di getto due pagine di prosa poetica in meno di mezz’ora e “consegnavo” precocemente, il nuovo metodo fu distruttivo. Per un po’ provai a continuare a scrivere di getto il mio tema per poi tirarne fuori una scaletta “a posteriori”: insomma l’itinerario esattamente contrario a quello che avrei dovuto seguire. E dall’oggi al domani mi ritrovai retrocesso da scrittore ufficiale a mediocre scribacchino. La fine!
Debbo dire che, a distanza di tempo, debbo ringraziare quel meticoloso docente. Il metodo mi fu soprattutto utile – tanto che lo seguo tuttora – nell’articolare in una scaletta e organizzare la mia naturale capacità d’improvvisatore quando si tratta di preparare comunicazioni, conferenze, lezioni e simili. In un ampio raccoglitore raccolgo ancora i pezzi di carta, vecchie buste, biglietti di tram, scontrini, fogli di calendario su cui ogni volta appunto la scaletta di un incontro, di una  comunicazione o lezione.
Negli anni del Liceo, dopo le forche caudine della “scaletta obbligata”, mi liberai concedendo più spazio-privato a scenette, sketck, piccole cose umoristiche, testi di riviste ed altro. Per ritrovare il gusto e il piacere di scrivere…
Quel gusto di scrivere mi è rimasto. Mi è servito professionalmente a più riprese, nei concorsi scolastici e non, durante la mia pratica giornalistica giovanile, durante il mio lavoro su testi e sceneggiature televisive. Ancor oggi se voglio divertirmi ricorro alla pagina e alla tastiera del mio PC. 
(Leandro Castellani)

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