venerdì 25 novembre 2016

IO E RAOUL GRASSILLI



RAOUL GRASSILLI
(1924-2010)

Bolognese puro sangue e figlio di un ristoratore bolognese. Suo fratello eredita la tradizione familiare gestendo per molti anni un localino intimo, per raffinati buongustai. Lui no, si dà all’arte.
Attore teatrale di tutto rispetto, impegnato in compagnie con Ruggero Ruggeri, Gino Cervi, Giorgio Strehler, una lunga e articolata carriera. Ma è nella televisione che trova veramente pane per i suoi denti. Il suo volto pensoso, contrassegnato da quei due occhi grigioazzurri, intensissimi, “passa” - come si suol dire – “buca lo schermo”.
Condivideva questa predisposizione tutta televisiva - qualcosa che non si può ridurre a semplice fotogenia - con pochi altri, con Alberto Lupo per esempio, attore forse non eccelso ma convincente e popolarissimo grazie alla tv.
Così Raoul divenne l’eroe degli sceneggiati, anche di quelli più popolari che avevano come numi tutelari Anton Giulio Majano, Edmo Fenoglio,  Sandro Bolchi.  Io lo ereditai da loro, con un po’ di scetticismo iniziale che cadde ben presto di fronte alla professionalità di Raoul Grassilli e all’inequivocabile riscontro del suo “telecarisma”. Fu Carlo Cattaneo nelle mie Cinque giornate di Milano (1970) e poi un meraviglioso Don Minzoni (Delitto di regime, 1973), il presidente Tebaldi in Quaranta giorni di Libertà (1974). Conservava un vago impercettibile residuo di cadenza emiliana, non nella dizione ovviamente ma in certe intonazioni.  
Si stabilì fra noi un cordiale rapporto di stima. Raoul era persona affabile ma poco incline alle confidenze. Aveva fama di essere piuttosto duro e arcigno nei suoi rapporti di lavoro, fama che fui ben presto in grado di smentire. Con me aveva rinunciato a chiedere in anticipo assicurazioni sull’entità e lo spessore del suo ruolo, come faceva con altri miei colleghi. Riponeva in me la massima fiducia.
Indimenticabile nel ruolo di don Minzoni. Unica richiesta: mi invitò ad accelerare la scena del prete assassinato disteso sul letto di morte. Si sentiva a disagio mentre la lunga emozionante processione dei paesani sfilava benedicendo, secondo l’usanza locale, il cadavere, cioè lui. E fu l’unica volta.
Lavorai di nuovo con Raoul alla Radio per il dramma di Vladimiro Cajoli, Lettera a un cardinale (1976), di cui curavo la regia, e poi lo rividi molti molti anni più tardi a Santarcangelo di Romagna per gli ottanta anni di Flavio Nicolini, comune amico e collaboratore. Fu felice di riabbracciarmi, rievocò con me il suo indimenticabile Cattaneo, e ne parlò in una successiva intervista sulla stampa: “bei tempi”, soggiungendo malinconico “altri tempi”.
Si era ritirato dalle scene negli anni Ottanta, abbandonando una televisione che giudicava disinibita, commerciale, volgare. Un uomo schivo, dolce e severo insieme. Anche lui vero autentico amico. 
(Leandro Castellani)





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