RAOUL GRASSILLI
(1924-2010)
Bolognese
puro sangue e figlio di un ristoratore bolognese. Suo fratello eredita la
tradizione familiare gestendo per molti anni un localino intimo, per raffinati
buongustai. Lui no, si dà all’arte.
Attore
teatrale di tutto rispetto, impegnato in compagnie con Ruggero Ruggeri, Gino
Cervi, Giorgio Strehler, una lunga e articolata carriera. Ma è nella
televisione che trova veramente pane per i suoi denti. Il suo volto pensoso,
contrassegnato da quei due occhi grigioazzurri, intensissimi, “passa” - come si
suol dire – “buca lo schermo”.
Condivideva
questa predisposizione tutta televisiva - qualcosa che non si può ridurre a
semplice fotogenia - con pochi altri, con Alberto Lupo per esempio, attore forse
non eccelso ma convincente e popolarissimo grazie alla tv.
Così
Raoul divenne l’eroe degli sceneggiati, anche di quelli più popolari che
avevano come numi tutelari Anton Giulio Majano, Edmo Fenoglio, Sandro Bolchi. Io lo ereditai da loro, con un po’ di
scetticismo iniziale che cadde ben presto di fronte alla professionalità di Raoul
Grassilli e all’inequivocabile riscontro del suo “telecarisma”. Fu Carlo
Cattaneo nelle mie Cinque giornate di
Milano (1970) e poi un meraviglioso Don Minzoni (Delitto di regime, 1973), il presidente Tebaldi in Quaranta giorni di Libertà (1974). Conservava
un vago impercettibile residuo di cadenza emiliana, non nella dizione
ovviamente ma in certe intonazioni.
Si
stabilì fra noi un cordiale rapporto di stima. Raoul era persona affabile ma
poco incline alle confidenze. Aveva fama di essere piuttosto duro e arcigno nei
suoi rapporti di lavoro, fama che fui ben presto in grado di smentire. Con me
aveva rinunciato a chiedere in anticipo assicurazioni sull’entità e lo spessore
del suo ruolo, come faceva con altri miei colleghi. Riponeva in me la massima
fiducia.
Indimenticabile
nel ruolo di don Minzoni. Unica richiesta: mi invitò ad accelerare la scena del
prete assassinato disteso sul letto di morte. Si sentiva a disagio mentre la
lunga emozionante processione dei paesani sfilava benedicendo, secondo l’usanza
locale, il cadavere, cioè lui. E fu l’unica volta.
Lavorai
di nuovo con Raoul alla Radio per il dramma di Vladimiro Cajoli, Lettera a un cardinale (1976), di cui
curavo la regia, e poi lo rividi molti molti anni più tardi a Santarcangelo di
Romagna per gli ottanta anni di Flavio Nicolini, comune amico e collaboratore.
Fu felice di riabbracciarmi, rievocò con me il suo indimenticabile Cattaneo, e
ne parlò in una successiva intervista sulla stampa: “bei tempi”, soggiungendo
malinconico “altri tempi”.
Si
era ritirato dalle scene negli anni Ottanta, abbandonando una televisione che
giudicava disinibita, commerciale, volgare. Un uomo schivo, dolce e severo
insieme. Anche lui vero autentico amico.
(Leandro Castellani)
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