mercoledì 9 novembre 2016

IO E ALESSANDRO BLASETTI



ALESSANDRO BLASETTI
(1900-1987)

Uno degli autentici padri del cinema italiano, capace di gestire fastose ricostruzioni da fiaba (La corona di ferro, 1940), montare estrose commedie (Prima comunione, 1950), modulare i sentieri del sentimento (Quattro  passi fra le nuvole, 1942), lanciare nuovi talenti (in Peccato che sia una canaglia, 1954, brevettò la coppia Loren-Mastroianni).
Ma soprattutto creatore inesauribile di nuovi “generi”: è lui che inventa il film a episodi (Altri tempi, 1952), lui che inventa la cine-vetrina di attrazioni musicali (Europa di notte, 1953), sempre lui, il regista di Petrolini (Nerone, 1930), dei grandi film storici (Fabiola, 1949), delle fastose avventure (Ettore Fieramosca, 1938). Lui che si diverte a interpretare se stesso, in Bellissima di Luchino Visconti (1951) e in Una vita difficile di Dino Risi (1961). Lui che la pubblicistica vecchio stile aveva definito “il regista con gli stivali”.
E gli stivali li portava davvero, fiero dominatore del set, che presidiava armato di megafono. Un regista italianissimo ma anche un po’ all’americana, disponibile a passare disinvoltamente da un genere all’altro, dirigendo le grandi masse come i duetti e gli assolo attorali.
Ho la fortuna di incontrarlo e conoscerlo nel 1964 perché, per un certo periodo, lavora nella moviola accanto alla mia. Mentre seguo il montaggio delle mie prime inchieste televisive, Blasetti è alle prese con Gli italiani del cinema italiano, una sorta di antologia ragionata del nostro cinema. Durante i periodici break ci incontriamo, assieme ai rispettivi montatori - lui regista blasonato ed io giovanissimo alle prime armi - nel breve corridoio delle moviole, terzo piano di via Teulada, per quattro chiacchiere o per la sacrosanta pausa caffè. La sua voce stentorea la sento arrivare da dieci metri di distanza.  Il “dottor Blasetti” - come lo chiamano le passafilm -  è facondo e non ci risparmia aneddoti e storielle, somministrate con il suo timbro caldo e reboante. Tiene banco, si compiace nel vedersi ascoltato. Molto cordiale, estroflesso, ma anche molto garbato, un “signore”.
Di lui mi colpiscono due tratti. Primo: nel mondo dello spettacolo
 e del pettegolezzo – leggasi maldicenza – Blasetti si mostra non solo rispettoso ma addirittura innamorato di tutti i suoi colleghi di lavoro e, senza eccezioni, ne dice un gran bene, di tutti: “bravo, che bravo, è proprio bravo!” E non lo fa per finta! Secondo: il pudore, quasi un rispettoso timore, con cui – lui, un grande - adopera il materiale di altri registi, che gli sono inferiori di varie lunghezze: “scelgo le sequenze che preferisco – dice - ma senza metterci le mani per rivedere o sfoltire il montaggio. Sono cose che non si fanno. Rischierei di rovinare il loro lavoro.” Virtù più uniche che rare in un mondo come il nostro di pressappochisti e arruffoni. Così oltre all’ammirazione per l’artista c’è quella per l’uomo, straordinario affabulatore, che si ostina a leggere anche il suo passato, per molti versi compromesso da certe simpatie politiche (Vecchia guardia del 1935 era una sorta di apologia della Marcia su Roma), in piena coerenza con l’assunto umanitario e pacifista di cui si fa paladino, in perfetta buona fede ma forse un po’ per autoconvincersi: il rispetto del prossimo innanzi tutto, cioè la tolleranza. E lo sostiene con fermezza, senza ipocrisie: “Adesso sto preparando il mio film-testamento contro l’intolleranza e l’egoismo: la vita va vissuta in funzione degli altri. Lo chiamerò Io, io, io e gli altri”. Il film vedrà la luce nel 1965 ma non avrà molta fortuna: la tolleranza è merce rara...

(Leandro Castellani)

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