(1900-1987)
Uno
degli autentici padri del cinema italiano, capace di gestire fastose
ricostruzioni da fiaba (La corona di
ferro, 1940), montare estrose commedie (Prima
comunione, 1950), modulare i sentieri del sentimento (Quattro passi fra le nuvole,
1942), lanciare nuovi talenti (in Peccato
che sia una canaglia, 1954, brevettò la coppia Loren-Mastroianni).
Ma
soprattutto creatore inesauribile di nuovi “generi”: è lui che inventa il film
a episodi (Altri tempi, 1952), lui
che inventa la cine-vetrina di attrazioni musicali (Europa di notte, 1953), sempre lui, il regista di Petrolini (Nerone, 1930), dei grandi film storici (Fabiola, 1949), delle fastose avventure
(Ettore Fieramosca, 1938). Lui che si
diverte a interpretare se stesso, in Bellissima
di Luchino Visconti (1951) e in Una vita
difficile di Dino Risi (1961). Lui che la pubblicistica vecchio stile aveva
definito “il regista con gli stivali”.
E
gli stivali li portava davvero, fiero dominatore del set, che presidiava armato
di megafono. Un regista italianissimo ma anche un po’ all’americana, disponibile
a passare disinvoltamente da un genere all’altro, dirigendo le grandi masse
come i duetti e gli assolo attorali.
Ho
la fortuna di incontrarlo e conoscerlo nel 1964 perché, per un certo periodo, lavora
nella moviola accanto alla mia. Mentre seguo il montaggio delle mie prime
inchieste televisive, Blasetti è alle prese con Gli italiani del cinema italiano, una sorta di antologia ragionata
del nostro cinema. Durante i periodici break ci incontriamo, assieme ai
rispettivi montatori - lui regista blasonato ed io giovanissimo alle prime armi
- nel breve corridoio delle moviole, terzo piano di via Teulada, per quattro
chiacchiere o per la sacrosanta pausa caffè. La sua voce stentorea la sento
arrivare da dieci metri di distanza. Il
“dottor Blasetti” - come lo chiamano le passafilm - è facondo e non ci risparmia aneddoti e
storielle, somministrate con il suo timbro caldo e reboante. Tiene banco, si
compiace nel vedersi ascoltato. Molto cordiale, estroflesso, ma anche molto
garbato, un “signore”.
Di
lui mi colpiscono due tratti. Primo: nel mondo dello spettacolo
e del pettegolezzo – leggasi maldicenza –
Blasetti si mostra non solo rispettoso ma addirittura innamorato di tutti i
suoi colleghi di lavoro e, senza eccezioni, ne dice un gran bene, di tutti:
“bravo, che bravo, è proprio bravo!” E non lo fa per finta! Secondo: il pudore,
quasi un rispettoso timore, con cui – lui, un grande - adopera il materiale di
altri registi, che gli sono inferiori di varie lunghezze: “scelgo le sequenze
che preferisco – dice - ma senza metterci le mani per rivedere o sfoltire il
montaggio. Sono cose che non si fanno. Rischierei di rovinare il loro lavoro.”
Virtù più uniche che rare in un mondo come il nostro di pressappochisti e
arruffoni. Così oltre all’ammirazione per l’artista c’è quella per l’uomo, straordinario
affabulatore, che si ostina a leggere anche il suo passato, per molti versi
compromesso da certe simpatie politiche (Vecchia
guardia del 1935 era una sorta di apologia della Marcia su Roma), in piena
coerenza con l’assunto umanitario e pacifista di cui si fa paladino, in
perfetta buona fede ma forse un po’ per autoconvincersi: il rispetto del
prossimo innanzi tutto, cioè la tolleranza. E lo sostiene con fermezza, senza
ipocrisie: “Adesso sto preparando il mio film-testamento contro l’intolleranza
e l’egoismo: la vita va vissuta in funzione degli altri. Lo chiamerò Io, io, io e gli altri”. Il film vedrà
la luce nel 1965 ma non avrà molta fortuna: la tolleranza è merce rara...
(Leandro Castellani)
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