LUCIANO EMMER
(1918-2009)
Maestro
di fantasia, di estrosità, di leggerezza, Emmer era stato uno degli autori più
promettenti degli anni Cinquanta e oltre, regista di commedie dove
l’osservazione acuta, talvolta un po’ amara, non rinunciava mai a una sana
spolverata di umorismo. In seguito, in parte travolto da peripezie sentimentali
un po’ arruffate nonchè da un certo aristocratico distacco verso il mestiere,
era stato completamente fagocitato dalla macchina pubblicitaria. Un veloce e
imprevedibile creatore di “caroselli” e spot assortiti. La tv lo aveva
cooptato, quasi suo malgrado, per alcune inchieste.
Quando
lo conobbi lavoravo al “secondo canale Rai” come programmista. Avevo l’incarico
di redigere i soggetti per il settore inchieste, fra cui Noi e l’automobile, una ricognizione sull’auto come oggetto di
consumo ma anche di culto, status symbol eccetera, inchiesta affidata poi, per
la realizzazione, a un giornalista, Franco Bandini, e ad un regista, Luciano
Emmer. In fase di montaggio (1962) fui incaricato di scrivere il commento parlato
e collaborare alla messa a punto finale. Prima di accettare i miei testi-prova
e ricorrere al mio aiuto, Emmer aveva sbrigativamente “scartato” una serie di
firme ben più blasonate della mia. Motivo personale di orgoglio.
Così
conobbi l’estroso, talvolta collerico, irruente, difficile Luciano Emmer di cui
ammiravo l’opera cinematografica, dai documentari d’arte degli anni Cinquanta –
memorabile quello su Picasso - alle commedie, tutte all’insegna di un bonario
cosiddetto neorealismo che non disdegnava il bozzetto (Domenica d’agosto 1950, Parigi
è sempre Parigi 1951, Le ragazze di
Piazza di Spagna 1952), sino all’intenso quanto sottovalutato La ragazza in vetrina, 1960.
Essendomi
già assuefatto alle presenze alquanto prevedibili dei registi televisivi, Emmer
mi sconcertò per la sua libertà creativa. L’uso spericolato e disinvolto della
macchina da presa, la ricchezza degli spunti e delle invenzioni, in breve la
sua fantasia. Incontentabile, disincantato e perfezionista, tiranneggiava la
sua docile montatrice abituale, avvezza a quegli scatti repentini, perché
tagliasse, tagliasse, tagliasse. Vidi cadere sotto la mannaia della “pressa
Catozzo” spunti e sequenze che a me sembravano magnifiche. Ma Luciano era
incontentabile. Arrivava in moviola a notte inoltrata e tagliava, tagliava,
tagliava. Anche i pezzi semiumoristici che avevo scritto per gli interventi “in
campo” di Franco Bandini – interventi che dirigevo personalmente - subirono
spesso la stessa sorta e vennero ridimensionati al massimo. Un lavoro
difficile, ma utilissimo per me, giovane apprendista, in certo senso
autodidatta.
A
quell’epoca Emmer non dirigeva più film ma era il massimo inventore-regista di
“caroselli” – ne realizzò ben 2750 - nei quali aveva coinvolto Totò, Mina,
Walter Chiari, Dapporto, Fabrizi, Panelli e tanti altri, nonchè di comunicati
commerciali di varia stazza. Lui, uomo dalle decisioni creative a tempi
serrati, giudicava con intelligente ironia la cocciuta presunzione e la
spocchia artistica di alcuni ex-colleghi di studi e di lavoro. Definiva un
certo regista nordico di mediocre statura “la piccola vendetta lombarda” o
anche, facendo il verso al romanzo di Luciano Zuccoli e riferendosi all’attrice
procace divenuta sua consorte, “le cosce più grandi di lui”.
Mi
volle accanto per un nuovo singolarissimo documentario-inchiesta sul palio di
Siena (Bianco rosso celeste,1963),
lavoro che svolsi nottetempo, non remunerato, sottraendomi agli altri impegni
ufficiali, solo per il piacere di apprendere standogli vicino e di assorbire da
una personalità così dirompente trucchi e segreti. Successivamente rimanemmo in
sporadici ma buoni rapporti: gli piacquero molto le sequenze iniziali del mio Delitto di regime, con quegli
squadristi che – come commentò lui - sembravano veri tanto erano inconsapevolmente
“ridicoli”.
Lo
incontrai per l’ultima volta nel 2003, nei mitici studi ex-De Paolis, dove
giravo Incantesimo mentre lui stava provinando
Sabina Ferilli per il suo ultimo rientro nel cinema, L’acqua…il fuoco. Un Emmer che mi aveva rivisto e salutato con la
solita scherzosa affabilità, molto emaciato e invecchiato, ma sempre giovane e
disponibile a rimettersi in gioco e ricominciare da capo. Gli dissi - presenti
alcuni suoi e miei collaboratori - che lo consideravo il mio maestro e lui si
schernì con una battuta umoristica.
(Leandro Castellani)
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