domenica 13 novembre 2016

IO E TINO BUAZZELLI



TINO BUAZZELLI
(1922-1980)

Un grande del teatro, e non solo riguardo alla stazza. Imponente ma non ingombrante, dalla dizione perfetta, un timbro caldo e armonioso, poteva giocare con il corpo e con la voce. Agostino detto Tino, frascatano, spuntato nel 1946 dall’Accademia Silvio D’Amico, assieme a una covata di formidabili “compagni di scuola” (Paolo Panelli, Nino Manfredi, Bice Valori, Giancarlo Sbragia, Rossella Falk, Raoul Grassilli, Mario Scaccia, Elio Pandolfi…), da giovanissimo viene già adibito – stesso destino di Eduardo – a ruoli da anziano e da vecchio. Nel suo carnet teatrale Arthur Miller, O’Neill, Ibsen, Pirandello, Ugo Betti, senza dimenticare – e come si potrebbe? – William Shakespeare. Il cinema lo sfrutta pochissimo e malamente, solo per il suo fisico corpulento e il volto flaccido e infantile, talvolta facendone addirittura una “spalla” di ripiego per Totò e Rascel.
Di Bertold Brecht – spesso con la mediazione registica di  Giorgio Strehler - realizza tre memorabili interpretazioni: Vita di Galileo (1962), Schweyk nella seconda guerra mondiale, Puntila e il suo servo Matti (regia di Aldo Trionfo, 1971). Ma il  connubio con Giorgio Strehler e il Piccolo di Milano era destinato a non  durare, nonostante gli alti risultati: Tino non poteva essere ridotto, o meglio confinato, negli stilemi didascalici di Brecht-Strehler, doveva essere lasciato libero di spaziare in altri grandi ruoli, mettendo in campo tutte le sue potenzialità di attore. Ma attore severo, controllato, renitente a trasformarsi in mattatore.
Per il pubblico della tv era Nero Wolfe detective dilettante, amante dei rebus e del buon mangiare (dieci episodi, dal 1969 al ’71, diretti da Giuliana Berlinguer, mia compagna di corso).  
E al cibo Tino ci teneva davvero. Durante le riprese del nostro Faust, consumavamo i pasti in una trattoria vicina al set, famosa per i tartufi (eravamo nei pressi di Acqualagna, capitale di quel tubero prezioso). E Tino ne era goloso. Gli spiaceva veder partire dalla tavola la capace fiamminga della pastasciutta con un ultimo “residuo” abbondantemente condito e si sentiva in dovere di  “spazzare” tutto.
Quella di realizzare il Faust di Christopher Marlowe, per la tv ma con procedimento cinematografico, è una mia proposta. Del protagonista si discute a lungo. La mia prima scelta sarebbe  Alberto Lionello, con cui ho girato qualche anno prima l’Orfeo in paradiso. Ma Alberto è in crisi e rifiuta.
Tino non può dirsi certo un ripiego. La sua pronta adesione si deve a due circostanze: prima, quello di Faust è il suo ruolo ideale, atteso e concupito da molti anni; seconda, una disavventura di gioco –  suo imperdonabile “vizietto” - gli rende difficile, almeno per il momento, la ricostituzione della sua compagnia. Quindi “è mio”! E cominciamo la lettura. Gli metto accanto un Mefistofele piuttosto imprevedibile, per il quale ho dovuto battermi, rifiutando tutti gli attori smaccatamente e prevedibilmente mefistofelici che mi venivano proposti. Volevo Antonio Salines per quel suo aspetto di ambiguo folletto e quella voce in falsetto, moderna, un po’ afona. Un’accoppiata formidabile.
Mi colpì un episodio. Ad un certo punto del dramma di Marlowe appare di botto un personaggio imprevedibile, il fantomatico vegliardo che cerca di ricondurre sulla via della virtù un Faust ormai incamminato sul sentiero della perdizione. Perché non interpreti anche questo ruolo? proposi a Tino. In fondo questa figura potrebbe essere considerata come una voce interiore del personaggio Faust, una sorta di suo “doppio” di sapore psicanalitico. 
Ma tu ci credi in Dio?, mi interpella Tino. E senza darmi il tempo di rispondere aggiunge: io sì! E allora non è giusto ridurre il misterioso richiamo della Grazia a una sorta di segnale psicanalitico. Non trovi?
Non voglio dilungarmi, e ne sarei tentato, sulla cronaca della lavorazione e sulle tecniche di lavoro. Riprendevo ogni scena con due cineprese, variando ogni volta punti di vista e movimenti di macchina, ma senza spezzare l’azione in troppi frammenti, favorendo così la concentrazione dell’attore. Il risultato fu ottimo, Tino ne era addirittura entusiasta. Qualche anno dopo la sua morte, la moglie mi confessò che Tino, il quale odiava mettere in mostra le foto di scena, teneva nello studio una sola immagine: il bel pannello fotografico del Faust regalatogli da mia moglie Maria Grazia.
E Tino “impose” alla Rai che fossi io il regista del suo prossimo lavoro, una riduzione de Il balordo di Piero Chiara. Ma la cosa non andò a buon fine per il mio rifiuto, peraltro motivato. Un’altra storia? La racconto brevemente. Partecipo alla sceneggiatura, con il formidabile duo Bernardi-Benvenuti e Lucia Drudi Demby, ma chiedo alla Rai un impegno verbale: che al momento della realizzazione la mia “ditta” sia ammessa – a pari condizioni - alla gara per l’esecuzione del progetto. D’accordo. Illusione! Siamo già in piena era craxiana, Le piccole “produzioni”, economiche e indipendenti come la mia, debbono essere fatte fuori a favore di nuove compagini più agguerrite e fameliche: è la parola d’ordine. Si sta ancora  lavorando alla sceneggiatura quando il funzionario al programma mi annuncia, con la più bella faccia tosta del mondo, che la produzione esecutiva è già stata assegnata alla ditta tale. Per protesta abbandono l’impresa. No – mi rimprovera Tino - Che ti frega? Ti potevi far dare più soldi. Una battuta un po’ cinica, Tino è certamente il primo a non crederci. Lo dice perché mi vorrebbe ancora con lui. Restiamo buoni amici, amici un po’ alla romana, senza incontrarci quasi mai. Appena un anno dopo lo vedo dimagrito, decisamente troppo. Si è messo finalmente a dieta, penso Ma non è vero. E’ il male implacabile che lo porta alla morte. 
(Leandro Castellani)



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