lunedì 28 novembre 2016

IO E ANNA IDENTICI



ANNA IDENTICI

C’è un certo feeling fra me e la musica, non tanto quella seriosa, importante dei concerti, la cosiddetta musica sinfonica o classica, eccezion fatta per il melodramma, o meglio l’opera lirica, che è un amore nato nell’infanzia, non unico residuo della mia formazione fanese. Ma feeling con la musica cosiddetta leggera, o popolare, da ballo, fate voi. Più volte nel mio lavoro ho utilizzato, in qualità d’attori, cantanti di musica leggera. In fondo un cantante sa mettere a punto un suo stile nell’approcciare la gente, sa muoversi, esternare i suoi sentimenti.
Ho lavorato con cantanti e gruppi orchestrali nelle mie serate di liscio (Vai col liscio, 1974), ho amato far comporre le mie colonne da musicisti cosiddetti “leggeri”, ho avuto fra i miei interpreti Dallara, Svampa, Brivio e Patruno. E poi Claudio Baglioni, Patsy Kensit, Aldo Donati, Edoardo De Angelis e la Schola cantorum… Appartiene alla serie l’incontro con Anna Identici.
Volevo un volto diverso, non consumato dagli sceneggiati televisivi, per il personaggio di Gisella Floreanini, ministro dell’assistenza nella repubblica dell’Ossola, ardente partigiana dei miei Quaranta giorni di libertà (1974). Mi rivolsi per suggerimenti alla mia amica Ivanka Veltroni e lei mi parlò di Anna: “perché non vedi Anna, è una ragazza sensibile, brava”.
Di Anna Identici, già valletta televisiva di Mike Buongiorno, avevo nell’orecchio il ritornello della canzone di Sanremo ’68 (Quando m’innamoro…) e l’immagine, analoga a tante altre di quel periodo: capelli corti, a caschetto con frangetta, gonna a sfiorare il ginocchio, vezzi consueti nel muovere le mani. Ma da quel Sanremo il tempo era passato non invano. Attraverso una vita vissuta e combattuta Anna aveva abbracciato le canzoni civili, si era schierata politicamente a sinistra, si era sposata. Ci incontrammo e la presi in carico immediatamente. Con la Floreanini c’entrava poco, anzi niente. Quella era una donna forte, robusta, ben piazzata e Anna era uno scricciolo, ma uno scricciolo con un’ammirevole, conquistata forza interiore che sapeva anche far risalire in superficie.
Interpretò molto bene il suo personaggio, al quale lo legava una identità ideologica, e inoltre cantò la meravigliosa canzone di Bertero e Guarnieri che costituiva non la sigla – che era la celeberrima “Verde” dei fratelli De Angelis – ma la ballata posta al centro di ogni puntata, a illustrare lo spirito dello sceneggiato meglio di un’eventuale pleonastica scena di maniera. Dopodiché – ahimè - il cinema è come il famoso Grand’Hotel di Vicki Baum: “gente che va gente che viene”. La vita ci unisce e la vita ci divide. Ed è questo il bello del nostro lavoro. O la sua tristezza.
 

venerdì 25 novembre 2016

IO E RAOUL GRASSILLI



RAOUL GRASSILLI
(1924-2010)

Bolognese puro sangue e figlio di un ristoratore bolognese. Suo fratello eredita la tradizione familiare gestendo per molti anni un localino intimo, per raffinati buongustai. Lui no, si dà all’arte.
Attore teatrale di tutto rispetto, impegnato in compagnie con Ruggero Ruggeri, Gino Cervi, Giorgio Strehler, una lunga e articolata carriera. Ma è nella televisione che trova veramente pane per i suoi denti. Il suo volto pensoso, contrassegnato da quei due occhi grigioazzurri, intensissimi, “passa” - come si suol dire – “buca lo schermo”.
Condivideva questa predisposizione tutta televisiva - qualcosa che non si può ridurre a semplice fotogenia - con pochi altri, con Alberto Lupo per esempio, attore forse non eccelso ma convincente e popolarissimo grazie alla tv.
Così Raoul divenne l’eroe degli sceneggiati, anche di quelli più popolari che avevano come numi tutelari Anton Giulio Majano, Edmo Fenoglio,  Sandro Bolchi.  Io lo ereditai da loro, con un po’ di scetticismo iniziale che cadde ben presto di fronte alla professionalità di Raoul Grassilli e all’inequivocabile riscontro del suo “telecarisma”. Fu Carlo Cattaneo nelle mie Cinque giornate di Milano (1970) e poi un meraviglioso Don Minzoni (Delitto di regime, 1973), il presidente Tebaldi in Quaranta giorni di Libertà (1974). Conservava un vago impercettibile residuo di cadenza emiliana, non nella dizione ovviamente ma in certe intonazioni.  
Si stabilì fra noi un cordiale rapporto di stima. Raoul era persona affabile ma poco incline alle confidenze. Aveva fama di essere piuttosto duro e arcigno nei suoi rapporti di lavoro, fama che fui ben presto in grado di smentire. Con me aveva rinunciato a chiedere in anticipo assicurazioni sull’entità e lo spessore del suo ruolo, come faceva con altri miei colleghi. Riponeva in me la massima fiducia.
Indimenticabile nel ruolo di don Minzoni. Unica richiesta: mi invitò ad accelerare la scena del prete assassinato disteso sul letto di morte. Si sentiva a disagio mentre la lunga emozionante processione dei paesani sfilava benedicendo, secondo l’usanza locale, il cadavere, cioè lui. E fu l’unica volta.
Lavorai di nuovo con Raoul alla Radio per il dramma di Vladimiro Cajoli, Lettera a un cardinale (1976), di cui curavo la regia, e poi lo rividi molti molti anni più tardi a Santarcangelo di Romagna per gli ottanta anni di Flavio Nicolini, comune amico e collaboratore. Fu felice di riabbracciarmi, rievocò con me il suo indimenticabile Cattaneo, e ne parlò in una successiva intervista sulla stampa: “bei tempi”, soggiungendo malinconico “altri tempi”.
Si era ritirato dalle scene negli anni Ottanta, abbandonando una televisione che giudicava disinibita, commerciale, volgare. Un uomo schivo, dolce e severo insieme. Anche lui vero autentico amico. 
(Leandro Castellani)





mercoledì 23 novembre 2016

IO E LILIANA COSI



Innamorato della musica e della danza (da quella dei miei idoli Fred Astaire e Gene Kelly a quella dei romagnoli “alla Casadei”), non avevo mai coltivato rapporti stretti con la cosiddetta “danza classica” o “balletto” sino a quando, nel lontano 1981, mi proposero una serie di quattro programmi su una figura di danzatrice del tutto originale, divisa fra esibizioni e insegnamento, Liliana Cosi.
Naturalmente fui costretto a prepararmi a ritmi forzati studiando il metodo Cecchetti e le regole che presiedono a questa forma d’arte: figure e posizioni di base. E poi Petipa, Diaghilev,  Balanchine… Ma anche questo è il bello del mio lavoro ed ecco perchè forse non ho mai voluto racchiudermi nelle strettoie di un solo “genere”, fiction, documentario e così via…
Il nome di Liliana Cosi non mi era certamente sconosciuto. La sua biografia parla da sé: migliore allieva della Scuola di Ballo della Scala nel 1958, studia successivamente al Teatro Bolscioi di Mosca e in quella capitale, nel 1965, debutta al Palazzo del Cremino con il Lago dei Cigni, poi è a Parigi, poi ancora prima ballerina alla Scala nel 1968 (a 27 anni) e guest-artist con 130 spettacoli in tutte le capitali dell’URSS, tournée con Nureyev, esibizioni in ogni parte del mondo eccetera eccetera.
Successo, glorie, trionfi, onorificenze. Ma a questa eterea danzatrice tutto questo non basta più. Nel 1977,  al culmine della carriera, decide di dare un giro di boa alla sua vita e fonda nella sua città d’elezione, Reggio Emilia, l’Associazione Balletto Classico con finalità di arte e di cultura, per diffondere capillarmente, ad un pubblico più vasto, l’arte del balletto, e per dar vita a nuovi spettacoli per “saziare la sete di bellezza che il mondo sente”.
Mi presento a Reggio Emilia e faccio conoscenza con questa delicata artista tutta consacrata alla sua vocazione ed ai suoi allievi.
Ricordo che da ragazzo mi raccontarono l’aneddoto di quel circense che, convertito a Dio, era stato sorpreso in chiesa mentre faceva le sue acrobazie davanti all’altare. Ripreso dal sacerdote aveva risposto candidamente: è quello che so fare meglio, è il solo modo di pregare che conosco. Ecco, Liliana mi dette l’impressione che nella danza classica avesse trovato insieme l’ideale e anche il modo di esprimere la sua spiritualità, la sua profonda religiosità, vorrei dire la sua voglia d’infinito. Ed è anche per questo che prendeva così sul serio la sua arte, come una missione di bellezza “ad majorem Dei gloriam”. Mi sembrò una scopert: un’artista sublime e insieme un personaggio imprevedibile. Seguii la sua scuola, alla quale prodigava i suoi insegnamenti assieme al suo partner artistico Marinel Stefanescu ballerino e coreografo: anche della danza faceva un strumento di promozione umana dei ragazzi e delle loro famiglie.
Con Liliana Cosi credo di essere rimasto in sintonia negli sporadici successivi incontri con le sue creazioni ed i suoi allievi. E con lo spirito che anima la sua arte e i suoi spettacoli.
(Leandro Castellani)



domenica 20 novembre 2016

IO E MARIO B.



Friulano, alto come un longobardo, inappuntabile nella sua divisa da portiere – giacca, pantaloni e cappello, il tutto di colore nero filettato in oro - Mario fu per molti anni il portiere del grande stabile di viale Mazzini a Roma, in cui abitai per alcuni anni e che ospitò ancor più a lungo la mia produzione. Aveva il portamento di un ex-carabiniere qual era stato, di estrema fiducia e affidabilità, il legittimo autorevole rappresentante di un bel palazzo Liberty. Sua moglie, piccola e di una cortesia un po’ ruvida, al bisogno faceva le iniezioni in giro per il condominio mentre suo figlio – nato a Roma, romanizzato e un po’ pigro – cresceva in attesa di sistemazione che suo padre, grazie alle benemerenze acquisite nel palazzo, sarebbe riuscito prima o poi a procurargli. Tutto iniziò così: dovevo girare una breve scena di un mio telefilm in cui una ragazza varcava il cancello di un’imponente residenza e chiedeva un certo recapito al portiere. Mi sembrò naturale girarlo sotto casa e che il portiere lo facesse lui. E Mario interpretò se stesso. Evidentemente ci prese gusto. Così anche per me divenne una specie di tradizione acquisita inserirlo nei miei film sotto varie specie. Se doveva dire brevi frasi gli facevo recitare alcuni numeri e poi provvedevo a doppiarlo. La cosa più singolare è che ci fu una sorta di incredibile “crescendo” nel prestigio dei ruoli che gli affidai, debbo dire con un gusto al limite del sadico, quasi una dimostrazione che anche l’abito può fare il monaco, sempre che chi lo veste abbia il fisico adatto. Vediamo se mi ricordo le principali prestazioni di Mario: fu il severo prefetto di Ferrara, poi un magnate olandese pronto a ricettare quadri rubati, e ancora un alto ufficiale nazista... E ogni volta, poco dopo le riprese, compariva in portineria la foto in cornice di Mario nella sua ultima prestazione artistica. Ma il regalo più grande che potevo fargli fu quanto feci interpretare a lui, ex-carabiniere ma neppure appuntato – almeno credo - , il ruolo di un colonnello dell’Arma. Fu una sorta di promozione ardita quanto impossibile che lo riempì d’orgoglio. Con Mario finì tutta una generazione di portiere friulani, arrivata a Roma negli anni Trenta o giù di lì: distinti e di tutta affidabilità quanto dignitosi, disponibili ma non servili. Oggi i portieri sono in buona parte scomparsi. Le regole e gli obblighi sindacali li hanno fatti diventare un dispendioso accessorio per ricchi e palazzi di lusso mentre i piccoli condomini – specie quelli di relativa entità – hanno deciso di farne a meno. I restanti sono extra-comunitari oppure rumeni e albanesi. Con Mario è scomparsa una tipologia irrepetibile. 
(Leandro Castellani)





venerdì 18 novembre 2016

IO E LUCIANO EMMER



LUCIANO EMMER
(1918-2009)

Maestro di fantasia, di estrosità, di leggerezza, Emmer era stato uno degli autori più promettenti degli anni Cinquanta e oltre, regista di commedie dove l’osservazione acuta, talvolta un po’ amara, non rinunciava mai a una sana spolverata di umorismo. In seguito, in parte travolto da peripezie sentimentali un po’ arruffate nonchè da un certo aristocratico distacco verso il mestiere, era stato completamente fagocitato dalla macchina pubblicitaria. Un veloce e imprevedibile creatore di “caroselli” e spot assortiti. La tv lo aveva cooptato, quasi suo malgrado, per alcune inchieste.
Quando lo conobbi lavoravo al “secondo canale Rai” come programmista. Avevo l’incarico di redigere i soggetti per il settore inchieste, fra cui Noi e l’automobile, una ricognizione sull’auto come oggetto di consumo ma anche di culto, status symbol eccetera, inchiesta affidata poi, per la realizzazione, a un giornalista, Franco Bandini, e ad un regista, Luciano Emmer. In fase di montaggio (1962) fui incaricato di scrivere il commento parlato e collaborare alla messa a punto finale. Prima di accettare i miei testi-prova e ricorrere al mio aiuto, Emmer aveva sbrigativamente “scartato” una serie di firme ben più blasonate della mia. Motivo personale di orgoglio.    
Così conobbi l’estroso, talvolta collerico, irruente, difficile Luciano Emmer di cui ammiravo l’opera cinematografica, dai documentari d’arte degli anni Cinquanta – memorabile quello su Picasso - alle commedie, tutte all’insegna di un bonario cosiddetto neorealismo che non disdegnava il bozzetto (Domenica d’agosto 1950, Parigi è sempre Parigi 1951, Le ragazze di Piazza di Spagna 1952), sino all’intenso quanto sottovalutato La ragazza in vetrina, 1960.  
Essendomi già assuefatto alle presenze alquanto prevedibili dei registi televisivi, Emmer mi sconcertò per la sua libertà creativa. L’uso spericolato e disinvolto della macchina da presa, la ricchezza degli spunti e delle invenzioni, in breve la sua fantasia. Incontentabile, disincantato e perfezionista, tiranneggiava la sua docile montatrice abituale, avvezza a quegli scatti repentini, perché tagliasse, tagliasse, tagliasse. Vidi cadere sotto la mannaia della “pressa Catozzo” spunti e sequenze che a me sembravano magnifiche. Ma Luciano era incontentabile. Arrivava in moviola a notte inoltrata e tagliava, tagliava, tagliava. Anche i pezzi semiumoristici che avevo scritto per gli interventi “in campo” di Franco Bandini – interventi che dirigevo personalmente - subirono spesso la stessa sorta e vennero ridimensionati al massimo. Un lavoro difficile, ma utilissimo per me, giovane apprendista, in certo senso autodidatta.
A quell’epoca Emmer non dirigeva più film ma era il massimo inventore-regista di “caroselli” – ne realizzò ben 2750 - nei quali aveva coinvolto Totò, Mina, Walter Chiari, Dapporto, Fabrizi, Panelli e tanti altri, nonchè di comunicati commerciali di varia stazza. Lui, uomo dalle decisioni creative a tempi serrati, giudicava con intelligente ironia la cocciuta presunzione e la spocchia artistica di alcuni ex-colleghi di studi e di lavoro. Definiva un certo regista nordico di mediocre statura “la piccola vendetta lombarda” o anche, facendo il verso al romanzo di Luciano Zuccoli e riferendosi all’attrice procace divenuta sua consorte, “le cosce più grandi di lui”.
Mi volle accanto per un nuovo singolarissimo documentario-inchiesta sul palio di Siena (Bianco rosso celeste,1963), lavoro che svolsi nottetempo, non remunerato, sottraendomi agli altri impegni ufficiali, solo per il piacere di apprendere standogli vicino e di assorbire da una personalità così dirompente trucchi e segreti. Successivamente rimanemmo in sporadici ma buoni rapporti: gli piacquero molto le sequenze iniziali del mio Delitto di regime, con quegli squadristi che – come commentò lui - sembravano veri tanto erano inconsapevolmente “ridicoli”.
Lo incontrai per l’ultima volta nel 2003, nei mitici studi ex-De Paolis, dove giravo Incantesimo mentre lui stava provinando Sabina Ferilli per il suo ultimo rientro nel cinema, L’acqua…il fuoco. Un Emmer che mi aveva rivisto e salutato con la solita scherzosa affabilità, molto emaciato e invecchiato, ma sempre giovane e disponibile a rimettersi in gioco e ricominciare da capo. Gli dissi - presenti alcuni suoi e miei collaboratori - che lo consideravo il mio maestro e lui si schernì con una battuta umoristica. 
(Leandro Castellani)

martedì 15 novembre 2016

IO ED EDUARDO



EDUARDO
(1900-1984)

Filmai quella che sarebbe stata la sua ultima intervista. Con Claudio Donat Cattin, coautore, ci eravamo recati alla villetta di Velletri per registrare un breve intervento da inserire in un programma dedicato alla “terza età”: L’Italia dei capelli grigi (1984). Ma il previsto breve intervento divenne una lunga, lunghissima conversazione, che finì per fornire materia a un autonomo programma di circa un’ora: Eduardo, l’arte d’invecchiare,  in onda il 19 ottobre 1984.
Arte d’invecchiare. Perchè anche la vecchiaia di Eduardo, vivace e creativa, era diventata arte, già diviso fra Senato, lezioni universitarie e altre attività, come la registrazione audio della sua traduzione in “napoletano antico” de La tempesta di Shakespeare.
Incontrai un Eduardo ben diverso da quella di una consolidata “mitologia” che lo voleva burbero, astioso, arcigno, in una parola “antipatico”. Conobbi un Eduardo “simpatico”, disteso e sereno, lo sguardo nascosto dietro gli spessi occhiali abbrunati, che amava raccontare e raccontarsi, che anzi se la prendeva con quel tipo di vecchiaia stizzosa e insofferente da lui stigmatizzata molti anni prima nel poco conosciuto Uno coi capelli bianchi.
Ma poi, negli intervalli e soprattutto dopo il termine delle riprese, mi raccontò tanti episodi della sua vita. Del sodalizio con Totò. Del successo del film Napoli milionaria, che aveva fornito ad Antonio De Curtis i primi stentati riconoscimenti della critica “seria”, fragile contrappeso alla tristezza di vedersi così spesso svenduto, e “a cottimo”. In una fase in cui gli incassi dei troppo inflazionati film di Totò avevano cominciato a scendere, lo spregiudicato produttore che lo aveva sotto contratto in esclusiva, ritenne utile commissionare a Eduardo una sceneggiatura “nobile”, in grado di ripetere il miracolo di Napoli milionaria. Così Eduardo, per la gioia di Totò, aveva cominciato a lavorare a Le voci di dentro. Ma nel frattempo gli incassi dei “filmetti” del Principe De Curtis avevano ripreso a salire e il cinico produttore aveva ritenuto ormai superfluo impegnarlo in un’operazione “colta”. Con vivo dolore da parte di Totò. (Quella sceneggiatura diverrà, qualche anno più tardi, il film, diretto e interpretato da Eduardo, Spara più forte… non capisco).
Mi sconcertò questo insistente parlare di cinema da parte di qualcuno che aveva pronunciato incontestabili dichiarazioni di ostilità nei confronti della cosiddetta Settima arte. Ma Eduardo fu esplicito: dopo le prime prove di attore-regista il cinema lo aveva conquistato a tal punto da essere disposto a sacrificargli il teatro. E aveva pensato sul serio di abbandonare definitivamente il palcoscenico per la macchina da presa. Lo disamorò l’ambiente, la necessità dei compromessi, il venir continuamente a patti, il doversi districare fra megalomani, lestofanti e imbroglioncelli. A parte qualche sporadica e “disamorata” incursione, optò definitivamente per il teatro perché solo in teatro si sentiva padrone, gestore unico, responsabile totale delle scelte e dei risultati, da ogni punto di vista, creativo e produttivo… Rimase il rammarico.

Quell’incontro con Eduardo si protrasse a lungo, sotto lo sguardo amorevole di sua moglie Isabella. Mi mostrò, sul camino del soggiorno, un piccolo gruppetto in ceramica che gli era molto caro, raccattato anni prima in un mercatino: un trofeo di piccoli Pulcinella intrecciati fra loro a formare una sorta di  piramide. Mi scrisse una dedica lusinghiera sul suo libro O’ canisto.
Per me quell’incontro chiudeva un ciclo. Giovanissimo avevo visto per la prima volta Eduardo al teatro Rossini di Pesaro, veicolato dalla vicina Fano grazie alla scassata Cinquecento del mio amico Luciano Anselmi, compagno di “filodrammatica” e scrittore “in fieri”. Lo spettacolo era Bene mio core mio. Rimasi folgorato a tal punto, dal personaggio e dal mondo di Eduardo, che mi affrettai a reperire nella Biblioteca della mia città tutti i numeri della rivista “Il Dramma” che contenevano sue commedie. E su Eduardo e il personaggio scrissi un lungo saggio che pubblicai su una rivista studentesca e che, di fatto, mi valse la chiamata alla redazione romana. E a Roma non avrei mancato neppure uno dei suoi spettacoli, dalle diverse edizioni di Natale in casa Cuppiello alla contrastata “prima” di Eduardo senza Eduardo, De Pretore Vincenzo, con una giovane meravigliosa Valeria Moriconi, mia corregionale. Dunque quell’intervista filmata e la lunga chiacchierata che ne era seguita, per me chiudeva “in bellezza” un arco della vita, una  storia. 
 (Leandro Castellani)



domenica 13 novembre 2016

IO E TINO BUAZZELLI



TINO BUAZZELLI
(1922-1980)

Un grande del teatro, e non solo riguardo alla stazza. Imponente ma non ingombrante, dalla dizione perfetta, un timbro caldo e armonioso, poteva giocare con il corpo e con la voce. Agostino detto Tino, frascatano, spuntato nel 1946 dall’Accademia Silvio D’Amico, assieme a una covata di formidabili “compagni di scuola” (Paolo Panelli, Nino Manfredi, Bice Valori, Giancarlo Sbragia, Rossella Falk, Raoul Grassilli, Mario Scaccia, Elio Pandolfi…), da giovanissimo viene già adibito – stesso destino di Eduardo – a ruoli da anziano e da vecchio. Nel suo carnet teatrale Arthur Miller, O’Neill, Ibsen, Pirandello, Ugo Betti, senza dimenticare – e come si potrebbe? – William Shakespeare. Il cinema lo sfrutta pochissimo e malamente, solo per il suo fisico corpulento e il volto flaccido e infantile, talvolta facendone addirittura una “spalla” di ripiego per Totò e Rascel.
Di Bertold Brecht – spesso con la mediazione registica di  Giorgio Strehler - realizza tre memorabili interpretazioni: Vita di Galileo (1962), Schweyk nella seconda guerra mondiale, Puntila e il suo servo Matti (regia di Aldo Trionfo, 1971). Ma il  connubio con Giorgio Strehler e il Piccolo di Milano era destinato a non  durare, nonostante gli alti risultati: Tino non poteva essere ridotto, o meglio confinato, negli stilemi didascalici di Brecht-Strehler, doveva essere lasciato libero di spaziare in altri grandi ruoli, mettendo in campo tutte le sue potenzialità di attore. Ma attore severo, controllato, renitente a trasformarsi in mattatore.
Per il pubblico della tv era Nero Wolfe detective dilettante, amante dei rebus e del buon mangiare (dieci episodi, dal 1969 al ’71, diretti da Giuliana Berlinguer, mia compagna di corso).  
E al cibo Tino ci teneva davvero. Durante le riprese del nostro Faust, consumavamo i pasti in una trattoria vicina al set, famosa per i tartufi (eravamo nei pressi di Acqualagna, capitale di quel tubero prezioso). E Tino ne era goloso. Gli spiaceva veder partire dalla tavola la capace fiamminga della pastasciutta con un ultimo “residuo” abbondantemente condito e si sentiva in dovere di  “spazzare” tutto.
Quella di realizzare il Faust di Christopher Marlowe, per la tv ma con procedimento cinematografico, è una mia proposta. Del protagonista si discute a lungo. La mia prima scelta sarebbe  Alberto Lionello, con cui ho girato qualche anno prima l’Orfeo in paradiso. Ma Alberto è in crisi e rifiuta.
Tino non può dirsi certo un ripiego. La sua pronta adesione si deve a due circostanze: prima, quello di Faust è il suo ruolo ideale, atteso e concupito da molti anni; seconda, una disavventura di gioco –  suo imperdonabile “vizietto” - gli rende difficile, almeno per il momento, la ricostituzione della sua compagnia. Quindi “è mio”! E cominciamo la lettura. Gli metto accanto un Mefistofele piuttosto imprevedibile, per il quale ho dovuto battermi, rifiutando tutti gli attori smaccatamente e prevedibilmente mefistofelici che mi venivano proposti. Volevo Antonio Salines per quel suo aspetto di ambiguo folletto e quella voce in falsetto, moderna, un po’ afona. Un’accoppiata formidabile.
Mi colpì un episodio. Ad un certo punto del dramma di Marlowe appare di botto un personaggio imprevedibile, il fantomatico vegliardo che cerca di ricondurre sulla via della virtù un Faust ormai incamminato sul sentiero della perdizione. Perché non interpreti anche questo ruolo? proposi a Tino. In fondo questa figura potrebbe essere considerata come una voce interiore del personaggio Faust, una sorta di suo “doppio” di sapore psicanalitico. 
Ma tu ci credi in Dio?, mi interpella Tino. E senza darmi il tempo di rispondere aggiunge: io sì! E allora non è giusto ridurre il misterioso richiamo della Grazia a una sorta di segnale psicanalitico. Non trovi?
Non voglio dilungarmi, e ne sarei tentato, sulla cronaca della lavorazione e sulle tecniche di lavoro. Riprendevo ogni scena con due cineprese, variando ogni volta punti di vista e movimenti di macchina, ma senza spezzare l’azione in troppi frammenti, favorendo così la concentrazione dell’attore. Il risultato fu ottimo, Tino ne era addirittura entusiasta. Qualche anno dopo la sua morte, la moglie mi confessò che Tino, il quale odiava mettere in mostra le foto di scena, teneva nello studio una sola immagine: il bel pannello fotografico del Faust regalatogli da mia moglie Maria Grazia.
E Tino “impose” alla Rai che fossi io il regista del suo prossimo lavoro, una riduzione de Il balordo di Piero Chiara. Ma la cosa non andò a buon fine per il mio rifiuto, peraltro motivato. Un’altra storia? La racconto brevemente. Partecipo alla sceneggiatura, con il formidabile duo Bernardi-Benvenuti e Lucia Drudi Demby, ma chiedo alla Rai un impegno verbale: che al momento della realizzazione la mia “ditta” sia ammessa – a pari condizioni - alla gara per l’esecuzione del progetto. D’accordo. Illusione! Siamo già in piena era craxiana, Le piccole “produzioni”, economiche e indipendenti come la mia, debbono essere fatte fuori a favore di nuove compagini più agguerrite e fameliche: è la parola d’ordine. Si sta ancora  lavorando alla sceneggiatura quando il funzionario al programma mi annuncia, con la più bella faccia tosta del mondo, che la produzione esecutiva è già stata assegnata alla ditta tale. Per protesta abbandono l’impresa. No – mi rimprovera Tino - Che ti frega? Ti potevi far dare più soldi. Una battuta un po’ cinica, Tino è certamente il primo a non crederci. Lo dice perché mi vorrebbe ancora con lui. Restiamo buoni amici, amici un po’ alla romana, senza incontrarci quasi mai. Appena un anno dopo lo vedo dimagrito, decisamente troppo. Si è messo finalmente a dieta, penso Ma non è vero. E’ il male implacabile che lo porta alla morte. 
(Leandro Castellani)



IO E HUMPHREY BOGART

HUMPHREY BOGART
(1999-1957)
Un incontro a distanza, tramite una foto. Lui, aggrondato come e più del suo solito, con un giubbetto e le mani ai fianchi, lei, l’incantevole Lauren Bacall, piuttosto infreddolita. La coppia celebre – si sono sposati da poco – piazzata fra due militari in divisa, appena sbarcati da un aereo altrettanto militare. Alle loro spalle una baracca provvisoria e in primo piano due cani. Anno presumibile, 1945.
Ed io che c’entro? C’entro indirettamente perché la foto è stata scattata nell’aeroporto della mia città, Fano, durante una pausa forzata verso una meta che ignoro, per un atterraggio non previsto. Pausa forzata perchè durante il viaggio – da dove e per dove ? - l’aereo ebbe un vuoto d’aria e un brusco sbalzo di quota, Humphrey fu sbalzato contro qualcosa e ci rimise un ponte, cioè la protesi dentaria. Di qui la sosta mentre il suo dentista personale dagli USA provvedeva a recapitargli un nuovo ponte su misura. Tutto questo secondo le scarse notizie circolate all’epoca e mischiate alla leggenda che circondava e circonda l’improvvisa incursione nell’aeroporto fanese.
Humphrey. L’attore diventato idolo e icona almeno per paio di generazioni. Una carriera difficile da generico “vilain”, spesso poco più di una comparsa, un gangster cattivo – dodici volte sulla sedia elettrica e ottocento anni di prigione totalizzati nel corso di una manciata di film - poi coprotagonista e infine stella assoluta, l’eroe dal fascino oscuro, austero, introverso e romantico. Di lui hanno scritto a fiumi, Woody Allen gli ha pure dedicato una commedia, “Provaci ancora, Sam”. E poi c’è “Casablanca”, il “classico” del cinema per tutti i tempi, il film-mito per uomini e donne dai quaranta agli ottanta: Rick, eroe carismatico dal cuore spezzato, cavaliere senza macchia e senza paura, segnato dalla vita, non omologabile ad altri divi della sua stagione come Rock Hudson, Errol Flynn, James Stewart, Robert Taylor, Tyrone Power, Cary Grant…
E io cosa stavo facendo mentre Humphrey atterrava a due chilometri da casa mia, si faceva fotografare, anche se con poco entusiasmo, e ripartiva? A dieci, undici anni - ma cineasta precoce - certo non ignoravo quel divo ancora centellinato sui precari schermi dei cinema fanesi nell’immediato dopoguerra, i primi film americani recuperati dopo l’ostracismo fascista, fra periodiche e prolungate interruzioni di corrente…
(Leandro Castellani)

mercoledì 9 novembre 2016

IO E ALESSANDRO BLASETTI



ALESSANDRO BLASETTI
(1900-1987)

Uno degli autentici padri del cinema italiano, capace di gestire fastose ricostruzioni da fiaba (La corona di ferro, 1940), montare estrose commedie (Prima comunione, 1950), modulare i sentieri del sentimento (Quattro  passi fra le nuvole, 1942), lanciare nuovi talenti (in Peccato che sia una canaglia, 1954, brevettò la coppia Loren-Mastroianni).
Ma soprattutto creatore inesauribile di nuovi “generi”: è lui che inventa il film a episodi (Altri tempi, 1952), lui che inventa la cine-vetrina di attrazioni musicali (Europa di notte, 1953), sempre lui, il regista di Petrolini (Nerone, 1930), dei grandi film storici (Fabiola, 1949), delle fastose avventure (Ettore Fieramosca, 1938). Lui che si diverte a interpretare se stesso, in Bellissima di Luchino Visconti (1951) e in Una vita difficile di Dino Risi (1961). Lui che la pubblicistica vecchio stile aveva definito “il regista con gli stivali”.
E gli stivali li portava davvero, fiero dominatore del set, che presidiava armato di megafono. Un regista italianissimo ma anche un po’ all’americana, disponibile a passare disinvoltamente da un genere all’altro, dirigendo le grandi masse come i duetti e gli assolo attorali.
Ho la fortuna di incontrarlo e conoscerlo nel 1964 perché, per un certo periodo, lavora nella moviola accanto alla mia. Mentre seguo il montaggio delle mie prime inchieste televisive, Blasetti è alle prese con Gli italiani del cinema italiano, una sorta di antologia ragionata del nostro cinema. Durante i periodici break ci incontriamo, assieme ai rispettivi montatori - lui regista blasonato ed io giovanissimo alle prime armi - nel breve corridoio delle moviole, terzo piano di via Teulada, per quattro chiacchiere o per la sacrosanta pausa caffè. La sua voce stentorea la sento arrivare da dieci metri di distanza.  Il “dottor Blasetti” - come lo chiamano le passafilm -  è facondo e non ci risparmia aneddoti e storielle, somministrate con il suo timbro caldo e reboante. Tiene banco, si compiace nel vedersi ascoltato. Molto cordiale, estroflesso, ma anche molto garbato, un “signore”.
Di lui mi colpiscono due tratti. Primo: nel mondo dello spettacolo
 e del pettegolezzo – leggasi maldicenza – Blasetti si mostra non solo rispettoso ma addirittura innamorato di tutti i suoi colleghi di lavoro e, senza eccezioni, ne dice un gran bene, di tutti: “bravo, che bravo, è proprio bravo!” E non lo fa per finta! Secondo: il pudore, quasi un rispettoso timore, con cui – lui, un grande - adopera il materiale di altri registi, che gli sono inferiori di varie lunghezze: “scelgo le sequenze che preferisco – dice - ma senza metterci le mani per rivedere o sfoltire il montaggio. Sono cose che non si fanno. Rischierei di rovinare il loro lavoro.” Virtù più uniche che rare in un mondo come il nostro di pressappochisti e arruffoni. Così oltre all’ammirazione per l’artista c’è quella per l’uomo, straordinario affabulatore, che si ostina a leggere anche il suo passato, per molti versi compromesso da certe simpatie politiche (Vecchia guardia del 1935 era una sorta di apologia della Marcia su Roma), in piena coerenza con l’assunto umanitario e pacifista di cui si fa paladino, in perfetta buona fede ma forse un po’ per autoconvincersi: il rispetto del prossimo innanzi tutto, cioè la tolleranza. E lo sostiene con fermezza, senza ipocrisie: “Adesso sto preparando il mio film-testamento contro l’intolleranza e l’egoismo: la vita va vissuta in funzione degli altri. Lo chiamerò Io, io, io e gli altri”. Il film vedrà la luce nel 1965 ma non avrà molta fortuna: la tolleranza è merce rara...

(Leandro Castellani)

martedì 8 novembre 2016

IO E CLAUDIO BAGLIONI



Anni Settanta. Lo conosco, giovane dinoccolato “capellone”, negli studi della RCA sulla Tiburtina, all’uscita dal Grande Raccordo anulare di Roma. Studi di registrazione ma anche cenacolo di nuove esperienze, frequentato sia da musicisti e cantanti arrivati che da principianti, quelli della mitica covata RCA, ritenuti sicure promesse ma in attesa di un contratto per una “lacca”, un 45 giri, una tournée promozionale in qualche sperduta balera di qualche sperduto paese.
Avevo chiesto al responsabile del settore colonne musicali un “nome nuovo” che potesse cantarmi la sigla di coda - musica del M° Fabio Fabor e parole mie – per lo sceneggiato Orfeo in paradiso (1971). Il dottor Cantini mi propose Claudio, una sicura promessa, e mi passò il suo primo e unico long playing, con la  foto bianco e nero in copertina di un ragazzo occhialuto e grassoccio. E Claudio cantò Qualcuno con una voce volutamente roca, rasposa come una grattugia: era ancora alla ricerca di un suo stile e ci teneva a non essere banale, a distinguersi dalle cento voci “per benino”…
Passa un anno e ricorro ancora a Cantini per la sigla del primo film-tv prodotto da mia moglie Maria Grazia e da me, Ipotesi sulla scomparsa di un fisico atomico (1972), film che alterna due linee narrative: la storia di due giovani in puro clima sessantottino (da noi il sessantotto durò qualche anno di più: sempre ritardatari questi italiani!) e la ricerca di Ettore Majorana, scienziato scomparso in circostanze misteriose nel 1938. In neanche due anni Claudio è diventato magro e capelluto: oltre  a fargli comporre e cantare la sigla di coda lo impegno in una scena di giovani contestatori antinucleari. In onda con ottimi risultati, Ipotesi viene  replicato più volte  e dal 2014 è anche un DVD.
Poi ci fu il mio libro (Dossier Majorana, 1974) e più tardi ancora il plagio del medesimo – lusinghiero, ma sempre plagio - ad opera di Leonardo Sciascia. Proprio per pubblicizzare il libro dello scrittore siciliano il mio film ottenne l’onore dell’ennesima replica, ma - attenzione! - accorciato di quasi dieci minuti per esigenze di palinsesto… E saltò proprio la scena che immortalava la prestazione del Baglioni attore. Credo sia andata definitivamente perduta.
Rivedo Claudio nel 1975 durante la sua esibizione alla mitica Bussola di Viareggio: ha abbandonato la chitarra per il pianoforte. Mi trovo là perché sto registrando due concerti, con Gloria Gaynor e con la grande Sarah Vaughan.
Nuovo incontro più di dieci anni più tardi, in occasione del Don Bosco (1988) per il quale speravo che Claudio mi scrivesse la musica. L’idea lo allettava molto ma ormai doveva dividersi fra registrazioni e concerti in tutto il mondo, e non se ne fece nulla.
Nel 1991 allestisco il galà finale per il Prix Italia, al Teatro Rossini di Pesaro. Baglioni è fra i cantanti che partecipano allo spettacolo. Ma è in un momento di stanca, rischia di ripetersi, la gente si annoia un po’. Niente paura: ben presto ripartirà alla grande e oggi, con il volto scavato e i capelli candidi, è un mito, anche lui.  
Tutto qui. Una simpatica persona, un artista sensibile, intelligente, un po’ incontentabile e irrequieto, a cui dobbiamo la canzone italiana del secolo, Piccolo grande amore.
(Leandro Castellani)



domenica 6 novembre 2016

LETTURA LAICA E IMMAGINI SACRE



Per una lettura laica delle immagini sacre
Polemiche sciocche in Italia. Qualche professore, campione d’ignoranza – presuntuosa, come sempre è l’ignoranza - vuole cancellare simboli e segni religiosi ritenendoli sorpassati e lesivi di religioni differenti. E non si rendono conto che certi simboli, certe icone, riassumono il portato di civiltà millenarie, esprimendo valori condivisibili che con la religiosità hanno ormai poco a che vedere, o meglio, che ormai rappresentano e incarnano anche valori extrareligiosi. Vale per le religioni precristiane come per altre religioni, per quelle cosiddette pagane di cui a suo tempo il cristianesimo si sbarazzò tacciandole di idolatre e primitive, forse per tutte quelle che hanno rappresentato un momento imprescindibile della spiritualità umana. Chi se la sentirebbe di criticare i grossi Budda panciuti, i penati grecoromani, le immagini della Dea Fortuna o del sommo Giove, i totem e le simbologie maoiste o animiste? Venendo a noi. La Sacra famiglia, Giuseppe, la Madonna e il bambinello: era l’immagine immancabile nelle case rurali e borghesi almeno sino alla metà del secolo scorso, il “capoletto” dei nostri nonni, a rappresentare il simbolo di una famiglia povera ma autosufficiente, che viveva del proprio lavoro - l’ascia e il panchetto del falegname – la famiglia in seno a una comunità pacifica, fatta di brava gente. Talvolta sullo sfondo della sacra famiglia si scorgeva addirittura il dolce anacronismo di una chiesa con relativo campanile. L’immagine della sacra famiglia del presepe, un inno al mistero della natività, che è sempre un miracolo e un dono. Un’immagine universale che incarna duemila secoli di cristianesimo. Accanto all’altra, ancor più universale: il crocefisso. La croce, stilizzazione dell’uomo leonardesco, mille anni prima di Leonardo, e prima ancora dell’uomo vitruviano, un asse verticale – l’elevazione - e un asse orizzontale – la condivisione -. E poi il corpo ignudo del Cristo appeso, simbolo e ricordo della sofferenza umana che coinvolge tutto e tutti, l’invito a sublimare la nostra sofferenza e la nostra lotta, il trionfo del conculcato, del contestato, della vittima, del martire. Un simbolo universale, offensivo solo per chi non sa leggerne il significato. E poi i Santi cristiani e le loro statue, scolpite da grandi artisti o create da semplici artigiani, i santi come incarnazione dei penati, cioè delle madri e dei padri protettori della grande famiglia di cui siamo parte, a cui chiedere aiuto e protezione. Significati laici, residuo di una civiltà cristiana che vive – o è vissuta – da oltre duemila anni. Riuscissimo a capire altrettanto bene i simboli e le icone laiche delle altre civiltà con cui condividiamo il tempo! Povera quella religione – non faccio nomi – che non riesce a concepire e ad accettare la sacralità dell’immagine!
(Leandro Castellani)

venerdì 4 novembre 2016

QUANDO COMINCIAI?



Quando cominciai a scrivere? Presto, molto presto. Conservo  una poesia scritta forse a sei anni o poco più, dedicata al vecchio mulino diroccato che si trova presso Piobbico, lo stesso dove, molti ma molti anni più tardi, ho ambientato la scena dei vizi capitali nel mio “Fausto di Marlowe”, una breve poesia con tentazioni onomatopeiche: “il rumore dell’acqua / che sciacqua e che risciacqua / i grandi e parvi passi”…
La prosa venne dopo, come del resto è accaduto anche nella storia dell’umanità: la poesia precede la prosa, lo stupore precede la razionalità.
Durante le elementari scrivevo poco e male: l’incubo dei pensierini, dei pensieri, dei temi… Poi improvvisamente, a circa undici anni, nel corso della prima media, accadde il miracolo: da un giorno all’altro…mi sbloccai da quella sorta di pertinace stitichezza linguistica e presi a confessare con naturalezza alla carta quello che mi girava in testa, senza falsi pudori, senza ritegni espressivi: scrivere era più facile che parlare, che abbordare il prossimo, che vivere... E i miei temi divennero esemplari, da leggersi in classe, da mostrare come piccoli prodigi. A chi attribuire il miracolo? Alla mamma che mi aveva insufflato quel gusto di scrivere poi esploso incontenibile? A Charles Dickens che mi aveva suggerito come trasferire pensieri e sentimenti in parole?
Durante il mese della calura estiva, quando la mamma mi proponeva o imponeva di fare un riposino pomeridiano per riprendermi dopo la spossatezza di una mattinata al mare, mi alzavo dal letto di soppiatto per raggiungere la scrivania e stilare le paginette di un romanzo sentimentale che poi sarà finito in un vecchio mobile o coinvolto fra le carte da distruggere: per imparare a foggiare in parole storie, sentimenti, desideri e paure, per trovare sfogo alla fantasia. E  più tardi ogni occasione di scrivere – scolastica e no – divenne una gioia, un divertimento e insieme una scommessa.
Mio padre sostenne le mie passioni regalandomi la Lettera 22, mitica macchina da scrivere Olivetti che imparai a percorrere a velocità supersonica con un solo dito…
I miei temi “esemplari” occuparono tutto l’arco delle tre Medie. Dopo l’esame di Terza un mio compagno, di cui non ricordo il nome e appena la faccia, insistetti sino allo spasimo perchè gli regalassi il quaderno “di bella” dove erano raccolte le mie composizioni scolastiche. Resistetti a oltranza, sino a quando l’insistenza divenne petulanza e alla fine gli mollai il tesoro. Scomparvero così “dalla storia e dalla memoria” quei temi che in definitiva erano più poesie che prose, con tanto di clausola finale che mi piaceva iterare, e vedevo che funzionava.
Con il Liceo doveva mutare profondamente il mio orizzonte letterario. Il nuovo professore di Lettere – un religioso “carissimo” che pretendeva di farci apprendere le fonti storiche, da lui minuziosamente indagate, di tutti i personaggi manzoniani, col risultato di farmi odiare in breve tempo gli immarcescibili “Promessi sposi” – ci impose un  nuovo metodo di lavoro: prima di svolgere il tema assegnato dovevamo predisporre una scaletta degli argomenti che avremmo poi sviluppato, insomma una sorta di ossatura razionale. Per me, che scrivevo di getto due pagine di prosa poetica in meno di mezz’ora e “consegnavo” precocemente, il nuovo metodo fu distruttivo. Per un po’ provai a continuare a scrivere di getto il mio tema per poi tirarne fuori una scaletta “a posteriori”: insomma l’itinerario esattamente contrario a quello che avrei dovuto seguire. E dall’oggi al domani mi ritrovai retrocesso da scrittore ufficiale a mediocre scribacchino. La fine!
Debbo dire che, a distanza di tempo, debbo ringraziare quel meticoloso docente. Il metodo mi fu soprattutto utile – tanto che lo seguo tuttora – nell’articolare in una scaletta e organizzare la mia naturale capacità d’improvvisatore quando si tratta di preparare comunicazioni, conferenze, lezioni e simili. In un ampio raccoglitore raccolgo ancora i pezzi di carta, vecchie buste, biglietti di tram, scontrini, fogli di calendario su cui ogni volta appunto la scaletta di un incontro, di una  comunicazione o lezione.
Negli anni del Liceo, dopo le forche caudine della “scaletta obbligata”, mi liberai concedendo più spazio-privato a scenette, sketck, piccole cose umoristiche, testi di riviste ed altro. Per ritrovare il gusto e il piacere di scrivere…
Quel gusto di scrivere mi è rimasto. Mi è servito professionalmente a più riprese, nei concorsi scolastici e non, durante la mia pratica giornalistica giovanile, durante il mio lavoro su testi e sceneggiature televisive. Ancor oggi se voglio divertirmi ricorro alla pagina e alla tastiera del mio PC. 
(Leandro Castellani)

martedì 1 novembre 2016

DRACULA A ROMA



Forse fu la visione dei tristi sconfinati nuovi cimiteri, fra cui quello di Prima Porta a Roma, a  ispirarmi il raccontino che ha dato il via e il titolo a una mia raccolta di storie molto brevi. Lo ripropongo oggi, il giorno dei morti:
In ossequio alle disposizioni del regolamento vampiresco, Dracula si svegliò a mezzanotte precisa. Dopo il trasferimento dal vecchio cimitero del Verano al nuovo maxicimitero di Primaporta, la sua bara era stata sistemata in un angusto loculo di cemento, neanche lo spazio necessario per sollevarne agevolmente il coperchio.
Facendo forza sulle proprie estremità il quasi defunto riuscì a sfondare il riquadro di marmo che chiudeva la sua nicchia personale e uscì all'aperto.
Una sfacciata luna piena illuminava una lunga teoria di loculi, del tutto simili al suo, disposti ordinatamente su cinque livelli. E a destra e a sinistra si profilavano a perdita d’occhio intere vie piene di scaffalature come quella da cui era appena uscito. Il nuovo cimitero della Capitale, un’interminabile monotona geometria cementizia di loculi, senza segni di distinzione, monotona come la morte.
Camminò a lungo attraverso quella rete di arterie surreali nella vana speranza che qualche visitatore notturno, possibilmente giovane e in carne,  gli proponesse un collo da mordicchiare, una vena da suggere. Ben presto sentì sopraggiungere quella strana ma abituale sensazione di formicolio che dagli alluci saliva lungo il tricipite, i ginocchi, il quadricipite sino a raggiungere l’inguine e salire ancora: stava iniziando la sua consueta trasformazione da distinto gentiluomo a voluminoso pipistrello alato.
Il vampiro prese quota, distese le membrane alari, planò a lungo sull’immenso distesa di cemento. Ma al suo primo raid aereo nella zona non si sentiva troppo in forze, aveva il fiatone, cominciava a stancarsi. E niente carburante, cioè niente sangue fresco in vista.
Si avvicinava l’ora di tornare. Avvertì di nuovo il previsto formicolio di fine corsa, compì un perfetto atterraggio e, abbandonate le fattezze da chirottero, fu di nuovo il solito stanco e attempato signore in abito nero. Non gli restava che individuare la sua cuccia e mettersi a nanna sino alla prossima nottata.
Si mise a cercare il loculo che conteneva la sua bella bara foderata di raso cremisi, made in Transilvania. Ma qui cominciavano i guai! Come fosse stata impresa facile! Si era dimenticato di prender nota della numerazione, orizzontale e verticale, come quella di un cruciverba. Cercò, cercò ma invano. Tutti uguali quei loculi, vuoti o chiusi da un muro, come occhiaie di un Argo senza confini.
L’alba si avvicinava e al di là dell’alto muro di cinta avvertiva già il primo traffico dei fornitori in marcia verso il cuore della metropoli. E lui continuava disperatamente a cercare…   

Continua ancora a cercare la sua casa, giorno dopo giorno e notte dopo notte. Non ha più provato quello strano formicolio, foriero della consueta trasformazione. Ha perso il gusto del sangue. Continua a cercare la sua tomba per trovare riposo, lui, vecchio stanco Dracula della Metropoli. Qualche pio visitatore lo incrocia distratto e lo scambia per un barbone.