TINO BUAZZELLI
(1922-1980)
Un
grande del teatro, e non solo riguardo alla stazza. Imponente ma non
ingombrante, dalla dizione perfetta, un timbro caldo e armonioso, poteva
giocare con il corpo e con la voce. Agostino detto Tino, frascatano, spuntato
nel 1946 dall’Accademia Silvio D’Amico, assieme a una covata di formidabili
“compagni di scuola” (Paolo Panelli, Nino Manfredi, Bice Valori, Giancarlo Sbragia,
Rossella Falk, Raoul Grassilli, Mario Scaccia, Elio Pandolfi…), da giovanissimo
viene già adibito – stesso destino di Eduardo – a ruoli da anziano e da vecchio.
Nel suo carnet teatrale Arthur Miller, O’Neill, Ibsen, Pirandello, Ugo Betti,
senza dimenticare – e come si potrebbe? – William Shakespeare. Il cinema lo
sfrutta pochissimo e malamente, solo per il suo fisico corpulento e il volto flaccido
e infantile, talvolta facendone addirittura una “spalla” di ripiego per Totò e
Rascel.
Di
Bertold Brecht – spesso con la mediazione registica di Giorgio Strehler - realizza tre memorabili
interpretazioni: Vita di Galileo
(1962), Schweyk nella seconda guerra
mondiale, Puntila e il suo servo
Matti (regia di Aldo Trionfo, 1971). Ma il connubio con Giorgio Strehler e il Piccolo di
Milano era destinato a non durare, nonostante
gli alti risultati: Tino non poteva essere ridotto, o meglio confinato, negli
stilemi didascalici di Brecht-Strehler, doveva essere lasciato libero di spaziare
in altri grandi ruoli, mettendo in campo tutte le sue potenzialità di attore.
Ma attore severo, controllato, renitente a trasformarsi in mattatore.
Per
il pubblico della tv era Nero Wolfe
detective dilettante, amante dei rebus e del buon mangiare (dieci episodi, dal
1969 al ’71, diretti da Giuliana Berlinguer, mia compagna di corso).
E
al cibo Tino ci teneva davvero. Durante le riprese del nostro Faust, consumavamo i pasti in una
trattoria vicina al set, famosa per i tartufi (eravamo nei pressi di
Acqualagna, capitale di quel tubero prezioso). E Tino ne era goloso. Gli
spiaceva veder partire dalla tavola la capace fiamminga della pastasciutta con
un ultimo “residuo” abbondantemente condito e si sentiva in dovere di “spazzare” tutto.
Quella
di realizzare il Faust di Christopher
Marlowe, per la tv ma con procedimento cinematografico, è una mia proposta. Del
protagonista si discute a lungo. La mia prima scelta sarebbe Alberto Lionello, con cui ho girato qualche
anno prima l’Orfeo in paradiso. Ma
Alberto è in crisi e rifiuta.
Tino
non può dirsi certo un ripiego. La sua pronta adesione si deve a due
circostanze: prima, quello di Faust è il suo ruolo ideale, atteso e concupito
da molti anni; seconda, una disavventura di gioco – suo imperdonabile “vizietto” - gli rende
difficile, almeno per il momento, la ricostituzione della sua compagnia. Quindi
“è mio”! E cominciamo la lettura. Gli metto accanto un Mefistofele piuttosto
imprevedibile, per il quale ho dovuto battermi, rifiutando tutti gli attori
smaccatamente e prevedibilmente mefistofelici che mi venivano proposti. Volevo
Antonio Salines per quel suo aspetto di ambiguo folletto e quella voce in
falsetto, moderna, un po’ afona. Un’accoppiata formidabile.
Mi
colpì un episodio. Ad un certo punto del dramma di Marlowe appare di botto un personaggio
imprevedibile, il fantomatico vegliardo che cerca di ricondurre sulla via della
virtù un Faust ormai incamminato sul sentiero della perdizione. Perché non
interpreti anche questo ruolo? proposi a Tino. In fondo questa figura potrebbe
essere considerata come una voce interiore del personaggio Faust, una sorta di suo
“doppio” di sapore psicanalitico.
Ma
tu ci credi in Dio?, mi interpella Tino. E senza darmi il tempo di rispondere
aggiunge: io sì! E allora non è giusto ridurre il misterioso richiamo della
Grazia a una sorta di segnale psicanalitico. Non trovi?
Non
voglio dilungarmi, e ne sarei tentato, sulla cronaca della lavorazione e sulle tecniche
di lavoro. Riprendevo ogni scena con due cineprese, variando ogni volta punti
di vista e movimenti di macchina, ma senza spezzare l’azione in troppi
frammenti, favorendo così la concentrazione dell’attore. Il risultato fu
ottimo, Tino ne era addirittura entusiasta. Qualche anno dopo la sua morte, la
moglie mi confessò che Tino, il quale odiava mettere in mostra le foto di
scena, teneva nello studio una sola immagine: il bel pannello fotografico del Faust regalatogli da mia moglie Maria
Grazia.
E
Tino “impose” alla Rai che fossi io il regista del suo prossimo lavoro, una riduzione
de Il balordo di Piero Chiara. Ma la cosa
non andò a buon fine per il mio rifiuto, peraltro motivato. Un’altra storia? La
racconto brevemente. Partecipo alla sceneggiatura, con il formidabile duo Bernardi-Benvenuti
e Lucia Drudi Demby, ma chiedo alla Rai un impegno verbale: che al momento
della realizzazione la mia “ditta” sia ammessa – a pari condizioni - alla gara
per l’esecuzione del progetto. D’accordo. Illusione! Siamo già in piena era
craxiana, Le piccole “produzioni”, economiche e indipendenti come la mia, debbono
essere fatte fuori a favore di nuove compagini più agguerrite e fameliche: è la
parola d’ordine. Si sta ancora lavorando
alla sceneggiatura quando il funzionario al programma mi annuncia, con la più
bella faccia tosta del mondo, che la produzione esecutiva è già stata assegnata
alla ditta tale. Per protesta abbandono l’impresa. No – mi rimprovera Tino -
Che ti frega? Ti potevi far dare più soldi. Una battuta un po’ cinica, Tino è
certamente il primo a non crederci. Lo dice perché mi vorrebbe ancora con lui.
Restiamo buoni amici, amici un po’ alla romana, senza incontrarci quasi mai.
Appena un anno dopo lo vedo dimagrito, decisamente troppo. Si è messo
finalmente a dieta, penso Ma non è vero. E’ il male implacabile che lo porta
alla morte.
(Leandro Castellani)