C’è una brutta parola, una di quelle parole inglesi
che non hanno un facile e immediato corrispettivo in italiano, novelisation.
Indica quei romanzi tratti da film o da serie televisive con procedimento alla
rovescia, non un’opera video nata da un libro ma un libro che traduce in trama
e parole la vicenda di un film. Rileggere oggi “Rififi” di Auguste Le Breton fa
un poco questo effetto, sembra il racconto a parole, con un linguaggio diretto,
gergale, di tanti film noir francesi “di mala”, in particolare del celebre “Rififi”,
opera ultrafrancese dell’americano Jules Dassin, una pietra miliare che in
qualche modo riassume e condensa circa trent’anni di cinema noir: quegli uomini
“di malaffare” – come si diceva una volta – ladri, scassinatori, ruffiani,
assassini al bisogno, uomini duri, tutti d’un pezzo, francesi purosangue ma
anche corsi, nordafricani, algerini con qualche italiano d’importazione, ma uomini
a loro modo leali, di una fedeltà a tutta prova con gli amici, innamorati e
gelosi delle loro compagne alle quali lasciano esercitare di buon grado e con
orgoglio il mestiere più antico del mondo, traendone il meritato provento, una
fauna che il cinema ha fissato in modo tanto reale e incisivo da rendere
secondaria la loro creazione primaria, quella nei romanzi “di genere”. Ricordo
quando, a metà degli anni Cinquanta, apparve il film qui in Italia, dopo una
lunga battaglia con la censura da cui uscì un po’ menomato: quella lunga e
minuziosa descrittiva della rapina alla gioielleria appariva come una vera e
proprio lezione in diretta. Bisognava ridurla per evitare l’imitazione, togliere
qualche passaggio. E il “milanese” doveva diventare un “marsigliese” per non
ledere l’onorabilità nazionale. E così avvenne. Ma il film ebbe ugualmente un
bieco successo, eternando nel comune immaginario questi uomini e queste donne, con
il commento un po’ straziante del motivo conduttore. Torniamo al libro che
narra la lotta all'ultimo sangue tra le gang rivali, una guerra senza
esclusione di colpi per le strade di Parigi, con i protagonisti che vivono
secondo la morale dei delinquenti, dove è permesso picchiare e sfruttare le
donne, uccidere e rubare, ma si è fedeli fino alla morte ai compagni di
prigione e di malaffare e non si oltraggiano mai i bambini. Una lettura che –
come si è detto – il tempo ha reso in subordine rispetto al film, quasi il suo
racconto a posteriori, ma ancora fruibile, per quel suo linguaggio violento e gergale,
quelle descrizioni brutali ma talvolta trepide, un romanzo di genere divenuto un
piccolo classico.
(Leandro Castellani)
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