domenica 31 luglio 2016

STORIE DI SPIE



Quando nasce la spy story? Ci vorrebbe un dotto saggio per esplorarne le origini e le caratteristiche. Vogliamo tirare in ballo “La primula rossa” della Baronessa Orczy, libro che precede – e ispira? – la formazione dei servizi segreti? Meglio che mi limiti a ricordare  alcuni scrittori di spy stories con un onorato passato di spioni essi stessi, da Somerset Maugham a Ian Fleming, il secondo dei quali è il  capostipite di alcuni due prolifici filoni, quello scritto, con la sequela dei suoi quattordici romanzi, e quello cinevisivo, con ben ventiquattro film, tratti o ispirati alle vicende del personaggio divenuto un icona, James Bond ovvero 007, spione romantico e spregiudicato, violento quanto basta, seduttore e rubacuori. Senza dimenticare i romanzi di Eric Ambler e lo sconfinamento della spy story nel thriller tout court o in altri generi, tipo fantapolitica e fantasy. In anni più prossimi a noi il genere letterario è andato un po’ in disuso, soppiantato da altri cocktail più sofisticati e arruffati ma che non trascurano due caratteristiche: lo svolgersi dell’azione sotto cieli diversi possibilmente esotici e il coinvolgimento di reti spionistiche senza scrupoli, disposte ad ogni nefandezza, in primo luogo la famigerata CIA, unica sopravvissuta ufficialmente fra le varie KGB, Intelligence Service, Mossad o magari Spectre. “Poteri straordinari” di Joseph Finder - protagonisti una coppia di sposi, eredi di una generazione di spioni - risale al 1994 ma sembra ancor più vecchio quanto alla trama che tira in ballo la solita CIA e  spazia fra continenti e paesi diversi, con una sostanziosa sosta in Italia, vecchio di ventidue anni ma ancora leggibilissimo, nel suo sapiente rimescolamento di assurde quanto verosimili avventure intrise di fantapolitica. Del resto l’americano Joseph Finder è l’ennesimo scrittore ex-spione, che dal suo vecchio mestiere ha tratto spunti e strategia nonché il mito della superspia, esposta ad ogni vento ma abilissimo nell’inventare trucchi, sventare congiure, sopravvivere ad ogni intemperie o sparatoria. Un libro che si legge a precipizio e che non lascia tregua.  
(Leandro Castellani)

giovedì 28 luglio 2016

E SE NON FOSSE ESTATE ?


Chi l’ha detto che a fine luglio e con la prospettiva di un agosto alle porte siamo d’estate? Lo hanno detto quelli che stanno in vacanza, in riva al mare, sui monti, ancora un po’ innevati ma molto in alto, in campagna con le zanzare nostrane oppure oriunde, sulla sabbia senza ombrellone con il sol leone che promette eritemi sulla pelle, nei parchi di periferia fra le penticane. Questi e tanti altri, spaparanzati in mutande o nei cosiddette bermuda sulla sdraio nel terrazzino formato ridotto del condominio o magari sul rovente divano del salotto di casa, con il condizionatore acceso, o in mancanza con un pinguino, un ventilatore o altro ammennicolo che promette e non mantiene un ragionevole fresco. Dicono che è estate coloro che non vanno a lavorare, perchè sono in ferie, magari in ferie coatte perché senza lavoro e senza sussidio di disoccupazione, lo dicono quelli definiti ufficialmente “poveri” dall’Istat, costretti a rovistare nei cassonetti che, con il caldo, sono diventati maleodoranti, tipo le proverbiali fogne di Calcutta. Lo dicono i migranti che continuano a partire dall’Africa per arrivare sulle nostre coste a bordo di barconi, gommoni e natanti assortiti, approdando o nuotando sino a riva, verso una terra promessa che sperano ancor più promessa di quello che è. Il popolo dell’estate è sempre più numeroso, bellicoso, disparato nei mezzi di sussistenza. E se fosse tutto un bluff? Se non fossimo in estate ma solo in quel lungo intervallo che ci separa dal Natale e dalla fine di questo disastratissimo anno bisesto (“an bisest chi s’la cava è lest”)? Basta crederci, vestirsi come fosse inverno o una delle due stagioni di ripiego, primavera e autunno:  giacca e pantaloni, camicia e cravatta, magari maglioncino o giubbetto in similpelle, tipo coatto. Convincersi che in fondo fa proprio fresco, guardare la televisione per consolarsi di essere ancora vivi, nonostante gli attentati dei kamikaze musulmani e gli agguati degli psicolabili non controllati dalle forze dell’ordine o dalla “intelligence” poco intelligente. E tirare avanti: ma sì, l’estate è solo un’opinione, specie per quelli come me che non possono muoversi da casa, e magari lo vorrebbero. Un’opinione dannosa e pericolosa. E il caldo è un’impressione, basta un paio di occhiali scuri per neutralizzare anche il sole. Ma non faremo neppure tempo a convincercene che l’estate sarà finita davvero e comincerà qualcos’altro. Magari una manifestazione, uno sciopero dei mezzi o un appuntamento elettorale.
(Leandro Castellani)

lunedì 25 luglio 2016

SHAKESPEARE



Come nel caso di Omero, anche per Shakespeare ci si è chiesti più volte - quando la stampa cosiddetta popolare, oltre a raccontarci tutto degli amori di Tizia o di Caio sprecava qualche trafiletto per i cosiddetti “enigmi della storia” - come mai facesse un attorucolo da seconde parti, nato in quel d’Albione, a comporre i testi più profondi e sconvolgenti dell’universo drammaturgico di tutti i tempi. E si sono sparati i nomi più probabili e improbabili per spiegare l’enigma: ma no, quell’attorello era un semplice prestanome, un impostore, un tale  che metteva in scena opere non sue, scritte da altri, gente istruita o titolata o entrambe le cose, impossibilitati per censo o ritrosia a firmare i propri parti. E si son prodotti fior di nomi: Francis Bacon che era un filosofo, Christopher Marlowe che era un  drammaturgo resuscitato sotto altra identità, o altri: Robert Devereux, William Stanley, Edward de Vere, Giovanni Florio. E invece no. La puntuale, documentatissima e monumentale biografia di Ackroyd Peter fa piazza pulita di queste e analoghe fantasiose illazioni e di William ci racconta vita e miracoli. William Shakespeare (1564-1616) era proprio lui, uomo di teatro sino al midollo, drammaturgo sublime e squisito poeta. Una storia in qualche senso sconcertante: un attore-regista-impresario, creatore di compagnie e di luoghi e imprese teatrali, che arraffa spunti e storie dove capita e le trasforma, con arte e fiuto sopraffino, in prodigiose macchine di teatro, tornandoci sopra ad ogni nuovo allestimento, arricchendole o modificandole, e inoltre mettendo mano a scritti altrui o accettando collaborazioni. Una vita ordinaria e straordinaria insieme perché Shakespeare fu non soltanto un uomo di cultura e di teatro, ma anche un uomo d’affari scaltro e competente che sapeva come investire e far fruttare il suo denaro. Il libro è una biografia completa ed esaustiva che ci parla della prassi teatrale, dei gusti del pubblico, dei teatri e della vita artistica di allora, delle rappresentazioni a Corte di fronte alla regina Elisabetta e al re Giacomo, ma anche e soprattutto di fronte a un pubblico borghese e plebeo. Un’opera affascinante e originale, che si legge come un romanzo impegnativo e insieme uno squarcio di storia. De tenersi vicino, al capezzale, si diceva un volta.

domenica 24 luglio 2016

CRIMINI GEMELLI



Ci sono libri da bere e libri da centellinare come un vino d’annata, i cosiddetti vini “da meditazione”. Così per i libri. “Crimini gemelli” è un thriller di quelli da leggere in un soffio, senza riuscire a fermarsi e rimandare la lettura ad altro momento ponendo fra le pagine l’apposito segnalibro. La storia è un po’ scontata, forse molto scontata, basata sul fascino misterioso dei gemelli cosiddetti omozigoti, cioè quelli nati dallo stesso ovulo,  particolarmente legati da affinità un po’ misteriose. E insieme è una trama scandita secondo le costanti della “narrativa gemellare”, qui in versione al femminile: una gemella buona e una gemella cattiva, una gemella bruna e una gemella bionda e così via:  essendo fisicamente uguali scoprire il gioco. Tutto qui. Ma Meg O’Brien – una scrittrice di thriller venuta a mancare nel 2008 - spara le sue cartucce con abilità un po’ sadica, gira e rigira i suoi attori come in una specie di gioco delle tre  carte: dov’è la buona e dov’è la cattiva? O meglio: qual’è la buona e quale la cattiva. Tutto scontato e invece no: non indovinerete mai il finale nè pretendo di anticiparlo. Un libro forse un po’ meccanico, con personaggi un po’ da album delle figurine. Troppo furbo per toccarvi davvero. Ma come libro di consumo estivo non si può dire che deluda. 
(Leandro Castellani)

giovedì 21 luglio 2016

IPAZIA



Di Silvia Ronchey, scrittrice colta quanto sensibile, avevano letto “L’enigma di Piero”, vasto romanzo-dissertazione sulla Flagellazione, un enigma che sfida tuttora la curiosità degli studiosi e sul quale il nostro Dante Piermattei ha proposto ipotesi illuminanti. Ora ci capita in mano il suo testo dedicato a una figura enigmatica quanto emblematica, Ipazia: “Fu matematica e astronoma, sapiente filosofa, influente politica, sfrontata e carismatica maestra di pensiero e di comportamento. Fu bellissima e amata dai suoi discepoli, pur respingendoli sempre. Fu fonte di scandalo e oracolo di moderazione.” Filosofa platonica vissuta nel quarto secolo e fatta trucidare per ordine o per istigazione del vescovo Cirillo, che vedeva compromessa dal magistero di Ipazia la supremazia culturale del cristianesimo emergente, anche come potere politico, dopo l’editto costantiniano del 313 che ne aveva fatto la Religione di Stato.
La Ronchey è una bizantinista che sa lavorare sui documenti, una studiosa e ricercatrice inappuntabile, tanto che dedica oltre la metà del volume a documentare e postillare quanto ha raccontato. Che in definitiva è molto poco. Di Ipazia sappiamo e continuiamo a sapere pochissimo, salvo le ragioni di supremazia politica e ideologica che l’hanno condotta al “martirio”: torturata, accecata, lapidata “a colpi di tegola, tagliandone poi il cadavere a pezzi, bruciati in un’orgia di cannibali” (H.Duchesne) e infine data alle fiamme, un compendio di atrocità più unico che raro. La Ronchey ne indaga le ragioni e ne esplora i contesti, e non solo della vicenda personale ma anche della lunga “fortuna” – chiamiamola così - del personaggio nel corso dei secoli, volta a volta letto come vittima dell’oscurantismo cattolico, icona di laicismo, precorritrice delle istanze femministe eccetera, per tutti i secoli successivi e sino al secolo scorso. Quel che resta del suo pensiero è estremamente esiguo. Perché esigui sono i testi e i documenti in proposito, circa il contenuto filosofico della sua lezione e  la sua storia interiore. Al personaggio è stato dedicato anche un film, “Agorà” (2009) di Alejandro Amenadar. Di particolare interesse ci sembra l’evocata vicenda della sua immagine speculare cristiana: Santa Caterina d’Alessandria, come lei nata e vissuta ad Alessandria d’Egitto, culla della rinata o perdurante cultura ellenica, come lei filosofa e sapiente, come lei vergine, bellissima e vanamente concupita e come lei martire. Che si tratti di un “doppione”, creato e diffuso per esigenze agiografiche, come avallato da Paolo VI che ne rimosse il culto?

lunedì 18 luglio 2016

LA MIGLIORE OFFERTA



Ho sfidato la sorte concedendomi la visione del film di Giuseppe Tornatore alla tv generalista, il che significa non perdere il filo di una storia fra un diluvio e l’altro di aberranti comunicati commerciali. Fatta la doverosa premessa passiamo al film. A me Tornatore sembra un miracolato: dispone sempre di un esorbitante ed evidente capitale finanziario, attori di primissimo piano a disposizione, ambientazioni e scenografie ammirevoli, collaboratori di prim’ordine e così via. Ma i suoi film barocchi e patinati non mi entusiasmano e non mi emozionano. Anche questo film non carbura, la sceneggiatura  assembla spunti validi e soluzioni d’accatto. I conti non tornano. A me - che sono maligno per natura - viene fatto di pensare cosa sarebbe stato de “La migliore offerta” se ci fossero stati molti milioni in meno da impegnare e un big italiano – uno di quelli che vanno per la maggiore - al posto di Geoffrey Rush. Qual è il succo del film? Il dramma di un  animatore ed esperto di case d’aste, maniaco criptocollezionista di volti femminili immortalati dalla pittura? Il mistero di una fanciulla prigioniera dell’agorafobia in un palazzo avito? La storia appassionata di un amor fou? La metafora dell’automa meccanico? No, semplicemente la storia di una truffa ben architettata ad opera di alcuni truffatori con un eccesso di fantasia. E un finale denso di flashback e flashforward utili a far procedere più in fretta la storia e sbrigarsela. Tornatore è un abile e fortunatissimo regista, che si dichiara anche soggettista e sceneggiatore ma in quest’ultima veste, come direbbero al mio paese, gli manca un soldo per fare una lira. A meno che io non mi confonda e stia facendo la recensione dei comunicati commerciali che parcellizzano la vicenda. Ultimo rilievo: il grande Morricone, egregio autore di ottimi commenti musicali, ormai è un po’ vittima del complesso del musicista sinfonico. Il suo commento non aggiunge nulla, non sottolinea o enfatizza, ma al limite disturba.  
(Leandro Castellani)

domenica 17 luglio 2016

RIFIFI



C’è una brutta parola, una di quelle parole inglesi che non hanno un facile e immediato corrispettivo in italiano, novelisation. Indica quei romanzi tratti da film o da serie televisive con procedimento alla rovescia, non un’opera video nata da un libro ma un libro che traduce in trama e parole la vicenda di un film. Rileggere oggi “Rififi” di Auguste Le Breton fa un poco questo effetto, sembra il racconto a parole, con un linguaggio diretto, gergale, di tanti film noir francesi “di mala”, in particolare del celebre “Rififi”, opera ultrafrancese dell’americano Jules Dassin, una pietra miliare che in qualche modo riassume e condensa circa trent’anni di cinema noir: quegli uomini “di malaffare” – come si diceva una volta – ladri, scassinatori, ruffiani, assassini al bisogno, uomini duri, tutti d’un pezzo, francesi purosangue ma anche corsi, nordafricani, algerini con qualche italiano d’importazione, ma uomini a loro modo leali, di una fedeltà a tutta prova con gli amici, innamorati e gelosi delle loro compagne alle quali lasciano esercitare di buon grado e con orgoglio il mestiere più antico del mondo, traendone il meritato provento, una fauna che il cinema ha fissato in modo tanto reale e incisivo da rendere secondaria la loro creazione primaria, quella nei romanzi “di genere”. Ricordo quando, a metà degli anni Cinquanta, apparve il film qui in Italia, dopo una lunga battaglia con la censura da cui uscì un po’ menomato: quella lunga e minuziosa descrittiva della rapina alla gioielleria appariva come una vera e proprio lezione in diretta. Bisognava ridurla per evitare l’imitazione, togliere qualche passaggio. E il “milanese” doveva diventare un “marsigliese” per non ledere l’onorabilità nazionale. E così avvenne. Ma il film ebbe ugualmente un bieco successo, eternando nel comune immaginario questi uomini e queste donne, con il commento un po’ straziante del motivo conduttore. Torniamo al libro che narra la lotta all'ultimo sangue tra le gang rivali, una guerra senza esclusione di colpi per le strade di Parigi, con i protagonisti che vivono secondo la morale dei delinquenti, dove è permesso picchiare e sfruttare le donne, uccidere e rubare, ma si è fedeli fino alla morte ai compagni di prigione e di malaffare e non si oltraggiano mai i bambini. Una lettura che – come si è detto – il tempo ha reso in subordine rispetto al film, quasi il suo racconto a posteriori, ma ancora fruibile, per quel suo linguaggio violento e gergale, quelle descrizioni brutali ma talvolta trepide, un romanzo di genere divenuto un piccolo classico. 
(Leandro Castellani)

giovedì 14 luglio 2016

UN MUSICAL



Forse c’è un solo “genere” di spettacolo che non sono mai riuscito a realizzare, e invece si tratta del mio spettacolo preferito, il musical, quel mix incomparabile di recitazione, musica, canzoni e danze schifato per anni dal pubblico italiano e poi diventato di moda grazie all’opera iniziatrice di Saverio Marconi che ebbe il coraggio di importare grandi musical americani e farne delle versioni italiche. Ma il musical si consegna soprattutto al cinema, ed è un musical il mio film preferito, “Cantando sotto la pioggia”, passerella inimitabile di performance artistiche e avventure rosa sulla nascita del cinema sonoro. A tutt’oggi il film mi serve anche da psicanalista privato ripetendomi a intervalli di tempo più o meno dilatati, a seconda delle mie vicissitudini personali, che occorre costanza e fiducia e che il mondo si può affrontare cantando e ballando, anche sotto la pioggia delle avversità più o meno pesanti.
Questo ingombrante cappello per raccontare come stamattina, svegliandomi, ho pensato a un musical. Vediamo se vi piace. Un vecchio eccentrico notaio, diciamo un tipo come l’enterteiner di “Cabaret”, ricorre all’aiuto di un investigatore privato - diciamo un tipo fra Dick Van Dyke e Gene Kelly - che possa aiutarlo a individuare la persona inconsapevole erede di una grossa fortuna da un lontano parente. Notaio e investigatore si mettono alla ricerca ma l’ultimo domicilio registrato al catasto è stato occupato. Così i due s’imbattono in una famiglia di immigrati clandestini senza lavoro che, compresa la situazione,  si uniscono alla caccia investigando in diversi campi profughi, dato che a qualcuno sembra di aver visto la presumibile erede impegnata nell’opera di soccorso. E avanti così. Ma tutto cantando e ballando, stilizzando la vicenda attraverso questi strumenti. Fanno parte della famiglia degli immigrati anche due piccolissimi “bimbi prodigio” che diventano le mascotte: l’eredità permetterebbe – sempre che ci fosse il beneplacito dell’ereditiera, mettiamo che fosse una brava persona - di soccorrere la famiglia extracomunitaria e di aiutare molti bisognosi. Varie peripezie e finalmente l’inconsapevole detentrice della fortuna viene rintracciata: è un’anziana misantropa che non crede più nella vita ma che, per sua e nostra fortuna, ha una nipote giovane, pimpante, canterina e ottimista. Salto un sacco di danze e canzoni e vado al finale: tutti insieme appassionatamente e felicemente. Investigatore e ragazza fanno coppia, la ereditiera stanca ritrova il gusto della vita, i fanciulli si esibiscono nell’ultima bravata comico-musicale mentre i loro genitori impiantano un’azienda che darà da lavorare a un sacco di immigrati. Gran finale cantato e ballato! Sarebbe bello, e inoltre sarebbe uno spettacolo alla moda, legato a problemi quanto mai attuali. Intanto l’ho scritto, poi... hai visto mai!!!
(Leandro Castellani)

lunedì 11 luglio 2016

L'ULTIMO DEI MOHICANI



Era un vecchio romanzo di avventure che lui non aveva mai letto. Si era limitato a vederne le illustrazioni e le foto del film che ne avevano tratto. Ma pensava si trattasse della storia dell’ultimo pellerossa sopravvissuto alla sua tribù distrutta dagli invasori e costretto a una resistenza solitaria. Chissà poi se era così. Pensava di esserlo anche lui un ultimo di un mondo, o meglio di una civiltà perduta. Quella della gente onesta,  proba, che viveva del proprio lavoro e amava la famiglia. Non aveva mai corrotto nessuno e nessuno si era mai provato a corromperlo. Non gli era mai venuto lo sghiribizzo di avere avventure sentimentali fuori matrimonio, di sognare il divorzio, di arrampicarsi lungo le strade di una carriera felice, a volte fortunata, ma sempre conquistata. Ed ora si era ridotto a vivere nel cerchio delle sue mura, dentro la sua casa, da dove usciva una volta al giorno per fare il giro dell’isolato e tener in moto le gambe, tra facce che lo ignoravano e passanti che lo evitavano. La sua famiglia non era più fortunata di lui. Sua moglie limitava le uscite a una spesa frettolosa nei supermercati a prezzo ridotto e la spesa doveva durare in media tutta una settimana. Suo figlio, giovane laureato disoccupato, sognava al computer, anzi non sognava più, non sperava più in un ”posto” che sapeva non sarebbe piovuto dal cielo. E nemmeno dagli annunci. I debiti si accumulavano, con le banche, con i professionisti, con i bottegai. Eppure loro tre di casa erano tre valori: nel mondo dello spettacolo potevano ancora fare faville. Ma erano stati esclusi o si erano autoesclusi dal gioco. All’inizio facevano un po’ paura proprio per la loro bravura nonchè per la propria onestà. Poi erano stati dimenticati. O meglio avevano dimenticato lui. Molti dei suoi coetanei che contavano erano trapassati nel novero dei più. I superstiti erano pensionati di lusso in qualche paradiso fiscale. L’ultimo dei Mohicani era lui e pensava lo avessero dato per morto da anni, Non gli avrebbero fatto nemmeno il necrologio. E allora? L’ultimo dei Mohicani sognava la tribù distrutta, quel mondo pieno di bisonti e di cavalli selvaggio dove la caccia non era un duello all’ultimo sangue fra cacciatori ma un’avventura degna di essere ricordata in uno di quegli acquarelli colorati da appendere in salotto.  Sognava quel mondo trascorso, sognava – per dirla col Gozzano – “le cose che potevano essere e non sono state”. Ma riusciva ancora a sperare.   
(Leandro Castellani)

LA QUERCIA



Se il suo pensiero avesse seguito un sentiero diritto, a mo’ di Einstein, chissà che mete avrebbe raggiunto! Ma il suo pensiero era ondivago, si fermava a ogni passo, un fiore, un ricordo servivano a farlo divergere. Ora ad esempio si era fermato sulla grande quercia che aveva sempre visto là, in campagna davanti a casa sua, sin dai giorni della sua infanzia. La quercia gigante intaccata e rosa dagli anni, ma soprattutto dal bacucco, il verme che ne stava distruggendo il cuore come fosse un’argilla docile in cui penetrare, da divorare dall’interno, senza mai affacciarsi in superficie. Il bacucco (cerambice?) scavava i grandi tronchi sino a farli fragili, esposti alle intemperie e ad ogni vento. Ecco, finchè il grande corpo malato della pianta resisteva ancora avrebbe voluto scalarla la sua grande quercia, salirci sopra, a imitazione di quel Barone rampante di cui aveva scritto Calvino. Costruirci la sua casa, un semplice giaciglio in cui trascorrere la notte, cullato dalla luna, e poi il giorno scaldato dal sole, saltando da branca a branca per vedere la campagna e il mare, ma senza mai scendere a terra. Mai più. Ma temeva le formiche. Molti anni prima che l’odiato bacucco si accingesse a vincere la sua battaglia, ma dall’interno, scavando le sue trincee segrete, la quercia era stata invasa dalle formiche. A migliaia, anzi a milioni, avevano disegnato una serie di percorsi partendo dalle sue potenti radici sino a raggiungere quasi la sommità, facilitate dall’edera che aveva ricoperto il tronco. C’era voluta una battaglia feroce che lui aveva intrapreso usando rimedi naturali anti-afidi e poi polveri insetticide e forti getti d’acqua, ma era servito a poco perché l’altra minaccia, quella segreta del bacucco, non era estirpabile, simile a quelle malattie dell’uomo che vengono definite incurabili. Una tempestosa notte d’inverno, qualche anno fa, anzi molti anni fa, era stato svegliato da un rumore potente che sembrava un urlo di tempesta, un conato di tuono, un colpo di cannone: era una delle tre grosse banche, in cui si era sviluppata la pianta nel corso dei secoli, che non aveva retto agli anni o agli agguati del bacucco ed era crollata travolgendo e schiacciando le giovani piante che avevano avuto l’ardire di crescerle intorno. Era corso ai ripari, recidendo la cancrena e curando la ferita, cospargendola di unguenti come avrebbe fatto con un corpo umano. E la quercia aveva resistito e la primavera successiva erano spuntati nuovi rami molto fragili, le foglie sempre più rade, gialle e diafane. Quanti anni ancora, o forse quanti secoli, avrebbe resistito la grande quercia? Certamente più di lui, avrebbe raccontato la sua storia ai suoi figli e nipoti. Se il suo pensiero fosse stato come quello di Einstein gli sarebbe piaciuto seguire la vicenda della sua quercia nel futuro prossimo e in quello remoto, quando sarebbe cambiato il mondo e forse sarebbero arrivati i marziani a salvarlo. Ma già lui non era Einstein e il pensiero aveva abbandonato la sua quercia per disperdersi in nuovi rivoli. 
(Leandro Castellani)

martedì 5 luglio 2016

HOMO VIDEOLUDENS



Gli avevano chiesto: cosa vuoi fare da grande? La solita domanda scema che a suo tempo avevano rivolto anche a lui. Sembra che gli adulti vogliono liberarsi dal loro odioso presente annullandolo nell’ipotetico futuro dei piccoli. Come se dicessero: io faccio il computista commerciale, il farmacista, il pizzicangnolo, ma quel bambino, mio figlio, il mio nipotino: chissà mai cosa potrà diventare, quali progetti cova nella sua bella testolina. E allora: cosa vuoi fare da grande? Nessuno che rispondesse: l’impiegato alle poste, lo spazzino o, come si preferisce dire adesso, l’operatore ecologico. Cosa vuoi fare da grande? E si aspettavano una delle rituali risposte: l’aviatore, l’astronauta, l’esploratore o, nel caso di fanciulli aperti alla mistica, il missionario. Ma i tempi erano cambiati. La risposta ce l’aveva pronta: il videogioco, o più specificatamente, il personaggio di un videogioco, ma uno di quei videogiochi belli – ultima generazione - dove si spara con la pistola, il mitra, il bazooka, il missile a testata atomica, si investono i nemici con la propria auto, si distruggono in volo gli alieni, i gangster, i mafiosi o, nel caso di recupero del passato scolastico o per aver frequentato il genere “fantasy”, fare il pugnale, la scimitarra, il kriss, la mazza ferrata, la lancia, la daga. Ma limitarsi ai pugni e ai calci, ma scanditi con raffinate tecniche marziali. Vestirsi da giapponese, da ninja, da guerriero medioevale ma con mitra automatico, oppure da gangster, da Men in mantello nero e con gli occhiali scuri. Avere per nemici quotidiani redivivi mostri preistorici o robot meccanici, affrontare sfide sempre più complesse, con salti acrobatici, triple rivoluzione, spiccare salti di cinque piani e altre prodezze. E sangue che schizza da ogni nemico abbattuto, viscere che si spargono a terra, corpi che esplodono... Ma allora vuoi fare il programmatore digitale?suggerirebbe l’adulto acculturato. No, non ci siamo capiti, voglio entrare nello schermo, diventare un essere animato, disegnato, inventato, diventare invincibile e immortale. E quando il nemico riesce ad abbattermi o a farmi scomparire nel vuoto, game over, il gioco è chiuso. Un clic e si ricomincia da capo. 
(Leandro Castellani)

lunedì 4 luglio 2016

HOMO TECHNOLOGICUS



La carenza di materie prime e la crisi dell’industria aveva reso obsolete tutte o quasi le invenzioni tecnologiche: niente più computer, cellulari, automobili, pannelli solari. antiallarme ed impianti energetici. C’era invece grande abbondanza di esseri umani. La migrazione e la contro-migrazione della seconda metà del millennio avevano ristabilito l’equilibrio demografico del pianeta. C’era sovrabbondanza di materiale umano in ogni angolo della terra e in ogni spazio abitabile. Di qui la nascita di un nuovo tipo di materiale utilizzabile, l’homo technologicus appunto. C’era l’uomo cellulare, sempre disponibile, dotato di poteri telepatici: poteva metterti in comunicazione con chicchessia e fungere da collegamento immediato. I telepatici erano distribuiti nei vari condomini, ma erano anche reperibili agli angoli delle strade, nei luoghi un tempo occupati dalle cabine telefoniche, al riparo dalle intemperie. C’erano poi telepatici cellulari presso le aziende, nei negozi, nelle hall degli alberghi, negli edifici pubblici, negli uffici  postali.
C’era homo-mail o l’uomo postale. Una sorta di pony che consegnava non solo lettere missive e plichi ma distribuiva anche commenti sui fatti del giorno, oroscopi, informazioni metereologiche e stradali e inoltre suppliva anche ad altre esigenze da facebook, per esempio raccontava barzellette, proverbi, citazioni da poeti, Anche l’homo-mail era sempre disponibile, girava numerosissimo per la strada, bastava affacciarsi alla finestra di casa o a quella dell’ufficio e convocarlo con un fischio.
L’homo pila forniva energia a destinazione: poteva ricaricare al momento i piccoli apparecchi sopravvissuti alla crisi, i generatori di acqua calda, le lampadine e così via. Bastava inserirgli l’apposita spina nel culo e tenercela lì il tempo necessario per la ricarica. Come faceva a portarsi addosso tanta energia? Passava ore ed ore al sole, oppure trascorreva lunghi periodi in luoghi molto ventosi  o si faceva piovere addosso una cascata: i mezzi erano molteplici.
C’era l’homo antiallarme: lo sistemavi di notte o nei periodi di assenza fuori dalla porta di casa, possibilmente fornito di apposita arma. Già perché anche, negli stessi anni, anche l’homo-lader si era fatto particolarmente abbondante.  Per le signore poi  c’erano le donne maquillage che dispensavano il trucco  a domicilio: messa in opera e materiali. Le donne cuciniere, le donne aspirapolvere, le mamme merendina eccetera. I sistemi di retribuzione si erano fatti più disponibili e semplici da usare: carte di credito da infilare in bocca al fornitore d’opera. Insomma il mondo si era attrezzato e andava avanti lo stresso, e tutti e tutte avevano un lavoro da cui ricavare il giusto compenso. Ai margini della città gli strumenti tecnologici desueti si ammucchiavano a dismisura, sino a formare nuove amane colline in cui passare i weekend. Colline, non chiamatele discariche!
(Leandro Castellani)

sabato 2 luglio 2016

AMLETO, UNA FICTION



Perché no? La storia era risaputa, sufficientemente drammatica, andavano di moda i rifacimenti, o meglio i remake, per dirla correttamente in inglese. Ma a farne una miniserie in due o tre puntate non ci aveva pensato ancora nessuno. Poteva essere un’idea vincente. Scrisse un bel progettino di tre pagine illustrando le caratteristiche della proposta e le recapitò al competente settore della grande rete televisiva nazionale. Gli bastava vedersi garantito il cosiddetto “diritto d’antenna”, a reperire i capitali ci avrebbe pensato lui, anzi ce l’avrebbe messi in proprio, soldi ne aveva! Ricevette una sollecita risposta: perché il Servizio prendesse in considerazione il suo progetto occorrevano alcune informazioni di base, bisognava ottemperare a certe tassative prescrizioni richieste dalla nuova dirigenza:  aperture internazionali dell’impresa, budget disponibili, locations, cast artistico, descrizione della vicenda e dei personaggi principali, target privilegiato eccetera. Molti termini inglesi, intraducibili e fantasiosi. Non si fece scoraggiare e si mise al lavoro. Trama: un giovane che ha studiato all’estero con Erasmus torna in patria e trova una situazione disastrosa: suo padre è morto, la ditta è passata in mano a suo zio che ha sposato sua madre. Una medium gli passa la notizia: evocato nel corso di una seduta spiritica suo padre ha confessato di essere stato fatto fuori dal fratello e invoca vendetta. Amleto si trova in difficoltà: aveva pensato di metter su casa con la sua ragazza ma il sospetto lo mette in forte ambascia: e se fosse vero? Seguono delitti, il suicidio della fanciulla, sfide e duelli, brindisi drogati e così via. Possibilità internazionali del progetto: auspicabile coproduzione con la Danimarca, interessata a lanciare il castello di Elsinore, un po’ malandato ma che, con un adeguato restauro, potrebbe diventare una rispettabile attrazione turistica. E inoltre con l’Inghilterra, dove la vicenda è piuttosto popolare per via dell’autore che è inglese-doc, nonché con la Francia che fornirebbe la protagonista, per cui il budget potrebbe diventare sostanzioso. Se poi si girasse in Puglia ci sarebbero pure i soldi della film commission locale, prodiga verso iniziative del genere. I personaggi? Descrizione presto fatta: un matto (Amleto), un delinquente (suo zio), una puttana (sua mamma), una psicolabile (Ofelia), un politicante intrallazzatore (Polonio),  Delitti, droga, amori torbidi, risvolti necrofili (il teschio di Yorick), arti marziali (Laerte ha studiato in Giappone) e così via. Insomma l’astuto proponente ottemperò a tutte le richieste della Rete televisiva. Indicò anche il cast elencando tutti i protagonisti delle ultime fiction di successo (compresa la vincitrice dell’ultimo Talent, il superstite dell’isola dei famosi, la reduce dalla casetta dei Grande fratello), e spedì il tutto per Raccomandata con la debita ricevuta di ritorno. Passò un mese e arrivò inaspettata la convocazione del Servizio: la proposta sembrava interessante, mancava solo un elemento, ma da chiarire a voce: chi era lo sponsor politico dell’iniziativa? Occorreva fugare il sospetto che il progetto fosse troppo di destra (quel manager dello zio a quale lobby apparteneva?) e che fosse sufficientemente “radical chic” e buonista (oltre a fare il guerriero ninja Laerte faceva anche del volontariato?), che si potesse contare anche su un risvolto omosex (Amleto amava Orazio?), che ci fosse almeno la presenza di un migrante e di qualche extracomunitario: e il musulmano di turno? Insomma piccole cose da mettere a posto, per cui l’impresa sarebbe stata affidata a uno sceneggiatore di stretta fiducia della Rete. Ah, un’ultima cosa: i nomi andavano cambiati: Amleto è un nome troppo strambo, chi l’aveva mai sentito? Meglio chiamarlo Luigi o Matteo. Ecco, Matteo andava proprio bene. E anche Ofelia, chiamiamola Charlotte oppure Deborah con l’acca finale. Insomma c’era da lavorarci sopra. Ma il soggetto non era male: come si chiama questo inglese? E’ vivente o fuori diritti? 
(Leandro Castellani)