Tempus est distensio
animi, diceva Agostino di Tagaste, il tempo non è qualcosa di oggettivo,
sicuro, misurabile con il metro o col cronometro. Il tempo non è un succedersi
inesorabile di secondi che diventano minuti, che poi diventano ore, che
diventano giorni, che diventano mesi, che diventano anni e così via, ma è fatto
a soffietto, a fisarmonica: istanti che si dilatano sino a divenire fiumi di
sensazioni, attimi eterni, e anni grigi che scivolano via come torrenti
irrequieti abbandonando una scia di
ciottoli. I giorni della mia infanzia, mi ci vorrebbero fiumi di parole
e pagine per descriverli e fissarli, altri anni potrei riassumerli in brevi
schede, la scuola, i primi lavori eccetera, cose da appuntare in fretta sulla
lavagna delle cose fatte, degli incontri ricercati o subiti. Ho vissuto venti
lunghissimi anni a Fano, sessanta brevissimi anni a Roma: qui e là giorni
felici e giorni tristi, vittorie e sconfitte. Se fossi una scrittore entomologo
come Marcel Proust riuscirei a infilzare ogni menomo ricordo nelle mie pagine
come altrettanti insetti. Ma sono uno scrittore (ammesso e non concesso che lo
sia) rapsodico, lunatico, una sensazione, un ricordo, una canzone: tutto
mescolato insieme.
C’è un piccolo
ricordo degli anni di scuola, un aneddoto che il tempo ha dilatato. La prima
fase della guerra, quella con i “camerati Richard” ancora amici ed alleati.
Faccio la seconda o forse la terza elementare, grembiulino nero sporco di gesso
e collettino bianco sporco d’inchiostro. Un giorno all’uscita dalle Scuole
Elementari Luigi Rossi circola improvvisa fra i compagni di classe una
dirompente novità: Franco ha trovato per terra cento lire! Le ha restituite? E
a chi? Mica c’era il nome sopra! No, se l’è tenute e ci ha comprato un sacco di
cose, paste, giornaletti, figurine… E per finire - e qui le voci denunciavano stupore
- un gran cartoccio di olive verdi. Ed eccolo arrivare fra noi il piccolo
Franco, aggrondato, inquieto, forse un po’ turbato per quel ritrovamento
prodigioso, girare fra i bambini in grembiulino nero ma un po’ furtivamente,
come per sottrarsi al verdetto dei grandi, con quel cartoccio gocciolante di
carta gialla in mano che conteneva grosse olive, succose e verdi, ben diverse
da quelle piccole nere e avvizzite che giravano di solito per le nostre case.
Una scelta strana e un acquisto singolare. Con gesto ritroso Franco le offrì in
giro e io ne ricordo ancora il sapore, un gusto reso un po’ acidulo dalla
salamoia.
Proprio così, anche
se sembra una storia inventata o un ricordo modificato dal tempo: un bambino di
seconda elementare, di quelli macilenti degli anni di guerra, col grembiulino
nero e il collettino alla rovescia, che dispensava un po’ timoroso e un po’
altezzoso, sicuramente di soppiatto, il suo tesoro di olive verdi. Re e monarca
per un giorno. L’epilogo lo ricordo vagamente e fu tristissimo: quelle cento o
forse dieci lire Franco non le aveva trovate per terra ma le aveva trafugate
alla mamma – suo padre era sotto le armi? - per la quale probabilmente
costituivano un piccolo capitale con cui difendersi dai tempi duri che si
avvicinavano a grandi passi…
(Leandro
Castellani - brano da un vecchio post FB)
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