mercoledì 15 luglio 2020

IL PESCE AZZURRO


Quand’ero ragazzo il pesce azzurro si chiamava “pesce”. L’altro – la sogliola panciuta, il merluzzo smorfioso, la pallida aristocrazia di spigole, dentici, code di rospo – era pesce, ma pesce quasi per sbaglio, tutti pesci che avevano studiato da “filetto” o da bistecca per perdere la vocazione a metà strada, prima di pronunciare i voti definitivi.
Noi ragazzi di Fano prendevamo in giro i ragazzi forestieri, venuti per i bagni, quelli di Perugina o di Roma o di Milano, che mangiavano la “sfoglia” o il “rosciolo” della pensione e dell’albergo impegnandosi allo spasimo in elucubrate evoluzioni di forchetta, coltello, pane, dita, per estrarre quattro bocconcini striminziti da tanta grazia di Dio, con la spada di Damocle della solita spina vagante, pronta a conficcarsi al momento meno opportuno nelle loro fauci inesperte. E allora il solerte albergatore consigliava d’ingollare mollica.
Noi no, noi ragazzi fanesi il dono di mangiare il pesce ce l’avevamo nel sangue, l’avevamo succhiato col latte o con l’acqua della fontana di piazza: e il nostro pesce – che poi era il “pesce azzurro”, ma questo, come in un romanzo giallo, lo avrei scoperto più tardi – il nostro pesce lo mangiavamo con spina testa e coda, “al limite” sputando la coda.
Insomma non mi sorse mai il dubbio, durante gli anni della mia infanzia gastronomica, che ci potesse essere un pesce diverso da quello che oggi si chiama “pesce azzurro”, cioè il pesce degli intenditori, l’unico pesce accreditante, gratificante: sgombri, sardelle, sardoncini, agusèi, suri; pesce con tutte le carte in regola, calzato e vestito da pesce, da comprare la mattina presto, ancora guizzante e fragrante, odoroso di mare, onde, cavalloni, rete, pescherecci, Adriatico, eccetera, il pesce coltivato nel nostro mare così come nella nostra terra si coltivava il grano per fare il pane o gli allegri mappamondi biancoverdi dei cavolfiori...
(prefazione per il ricettario Come si cucina il pesce azzurro, a cura della Coomarpesca, Fano 1981)

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