Quand’ero
bambino, gli eccitanti pomeriggi della domenica si dividevano, per me e per gli
altri bambini fanesi, fra le orge cinematografiche del “Gentili” e quelle
teatrali del “circul”.
Le
prime non mi tingevano troppo, favorito deal fatto di poter frequentare altri
cinema gratis, dato il mestiere di mio padre, allora esercente del “Boccaccio”.
Le poche incursioni che feci al “Gentili” bastarono a stamparmi in testa il
ricordo di orde indiavolate di ragazzini che commentavano vecchie e rigatissime
pellicole con grida e schiamazzi. L’usura del film o i colpi di rivoltella dei
cow-boys provocavano il frequente spezzarsi della pellicola, e le imprese degli
eroi dello schermo si saldavano senza soluzione di continuità con quelle dei
ragazzi caracollanti fra le poltroncine schiodate.
Ma
il “circul” mi conquistava, era la rivelazione di un mondo diverso, il mondo
del teatro, di una finzione vicina e tangibile, non remota e intangibile come
quella del cinema.
Perché
si chiamasse “circolo San Paterniano”, chi l’avesse fondato e così via, non so,
Altri ne avranno indagato a fondo origini e decorso. Quando lo conobbi io, era
già stato fagocitato dalla nuova struttura dell’Azione Cattolica. Ma c’era
ancora, semiautonomo o comunque appendice di tutto
rispetto, il teatrino Alessandro Manzoni, con tanto di galleria, poltroncine,
palco con il sipario di velluto rosso e la buca per il suggeritore. Insomma un
teatro vero. Gli spettacoli si susseguivano con una certa frequenza, io almeno
ne ricordo diversi negli anni dell’immediato dopoguerra. E vi assistevo
ammirato. Soprattutto le “comiche” con Hermes Valentini nei panni di Brigidino,
e gli esilaranti duetti fra Stanlio e Ollio, cioè fra Gianfranco Casanova e
Garè. Un sentito grazie a questi tre idoli, diciamo idoletti, della mia
infanzia, per tanti magici pomeriggi, più ancora per avermi fatto conoscere la
grande bocca aperta del teatro.
(Leandro Castellani – “Fano graffiti”, Circolo J.Maritain 1983, pp.47-48)
Quel
teatro restò agibile per quasi un secolo. Lo ricordo bene anch’io, negli anni
del secondo dopoguerra. Ci si andava a vedere i drammi lacrimosi che
insegnavano la morale o, meglio ancora, i buoni sentimenti. Lacrime a iosa ma
temperate dalla comica finale. Scuola e banco di prova per i talenti artistici
della città. Resistette a lungo, il palcoscenico sempre più polveroso, le assi
sempre più tarlate, le poltroncine sempre più logore a mostrare impudicamente
le loro interiora di stoppa. Fu travolto dal boom che, negli anni sessanta,
inquinò anche la Chiesa. Ma questa è un’altra storia.
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