mercoledì 15 luglio 2020

OCCHI DA CINEMA


Papà aveva occhi da cinema. Occhi grigioazzurri, un po’ metallici, specchi per l’allegria e la tristezza, occhi timidi e un po’ spavaldi. Gli occhi di William S. Hart detto Rio Jim, gli occhi di Gary Cooper, di Paul Newman, di John Wayne, di Jean Gabin… «Occhi da cinema»: amati dai registi, perché assorbono la luce dei proiettori e la rifrangono, perché sanno mantenere e perdere un’identità, cangianti e dunque compatibili con le diverse vite interiori che debbono far affiorare in superficie. Occhi d’amore, occhi d’odio, occhi di ghiaccio, occhi di lacrime e di sorriso, di speranza e delusione. Occhi da cinema.

Ne parlava di rado, a intervalli molto sporadici, talora sollecitato dalla moglie e dai figli, talora da un amico.
Della sua avventura con il cinema. Ma odiarla, non doveva odiarla.
Mostrava con innegabile orgoglio le belle foto che lo ritraevano giovane, nelle vesti sommarie di Robinson Crusoe, quell’espressione spavalda, il mento proteso un po’ in avanti e una luce ironica negli occhi grigioazzurri, a temperare un atteggiamento che altrimenti sarebbe sembrato arrogante: espressione, questa, che gli era abituale, non certo nella vita, ma nelle fotografie per cui avrebbe posato.(...)
...quel piazzarsi in un vago tre quarti, il mento appena sollevato e gli occhi luminosi, ironici e sorridenti. In tante foto, scattate in momenti anni situazioni così lontane fra loro: mio padre nei panni di Robinson Crusoe, o vestito da studente fiducioso nel  futuro, o conscio del proprio aplomb nell’impeccabile divisa da sottotenente della prima guerra mondiale, o vent’anni più tardi con l’orgoglio di avere moglie e figli accanto a sé....
Quindi non doveva odiarla quell’esperienza del cinema. Aveva riunito le numerose foto di scena sotto una fascetta sulla quale aveva vergato con la fida stilografica «Films di Aldo Castellani, in arte Lucio Mario Dani» e poi aveva conservato con cura corrispondenza e ritagli, giornali e recensioni. Persino numerosi spezzoni di pellicola protetti in pesanti scatole quadrate di fibra. E durante la seconda grande guerra, quando sotto le bombe angloamericane la casa ci era caduta addosso, non a noi di famiglia, ma ai nostri affetti e ricordi - i libri con le copertine di colla di farina e acquerello rilegati dalla mamma ragazza, le immaginette sacre della nonna, i fiori e i profumi della zia -, aveva recuperato anche le sue cose di cinema fra le macerie, come reliquie insieme ad altre reliquie. Gli spezzoni si erano rivelati irrecuperabili: ne aveva tagliato qualche fotogramma per ricordo e aveva dovuto buttarli. Foto e ritagli vennero invece ricomposti, qualche pesante ammaccatura di mattone, qualche squarcio di chiodo, catalogati e racchiusi in nuove cartelline.
Ma quell’esperienza non doveva neanche amarla. Lo compresi più tardi, molto più tardi. Quello schivare l’argomento, senza volerlo mai approfondire oltre l’aneddoto, oppure parlarne in termini troppo generici. Quando chiesi a lui, ormai anziano, di precisarmi titoli anni notizie, non ce la fece, o meglio era riuscito - complici l’età, i dolori della vita, la solitudine - a cancellarseli dalla testa. Mi disse: erano undici film, dovrebbero essere undici. E i titoli? I rettili delle miniere, I ruderi del maleficio, naturalmente Robinson Crusoe.

Amava il cinema? Penso di sì. Gli aveva dedicato una fetta della vita. Non solo i pochi anni del suo lavoro d’attore e direttore artistico ma anche tutti gli altri come distributore e noleggiatore, poi imprenditore e gestore di sale cinematografiche.
Se ne era allontanato pian piano e, quando aveva consumato il distacco, ero troppo piccolo per capirne il perché. (…)
Quando divenni grande, in età di capire o perlomeno di ricordare il dettaglio, papà non si occupava più di cinema e al cinema non ci andava più. O meglio molto raramente, per compiacere me, che reputavo quei pomeriggi, passati insieme di fronte allo schermo, la prospettiva più entusiasmante, l’esperienza più bella, proprio perché così centellinata, una volta all’anno, massimo due.
A vedere Crik e Crok, quella volta Stanlio e Ollio si chiamavano così. Più grandicello, a vedere Totò, l’unico attore che amasse e stimasse. Tutto il cinema, per lui che gli aveva dedicato i sogni della giovinezza e le energie della maturità, si riassumeva in Totò, anzi era Totò. E gli piaceva soprattutto il Totò umano, triste e smagato, di “Guardie e ladri”. Senza disdegnare l’altro, quello dei film raffazzonati in una settimana o poco più. In questi casi diceva: il film è «leggerino» ma Totò è bravo, anzi è più bravo.
 (“Occhi da cinema”,pp.7-15, Ibiskos-Ulivieri, Empoli 2010)

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