Papà aveva occhi da
cinema. Occhi grigioazzurri, un po’ metallici, specchi per l’allegria e la
tristezza, occhi timidi e un po’ spavaldi. Gli occhi di William S. Hart detto
Rio Jim, gli occhi di Gary Cooper, di Paul Newman, di John Wayne, di Jean
Gabin… «Occhi da cinema»: amati dai registi, perché assorbono la luce dei
proiettori e la rifrangono, perché sanno mantenere e perdere un’identità,
cangianti e dunque compatibili con le diverse vite interiori che debbono far
affiorare in superficie. Occhi d’amore, occhi d’odio, occhi di ghiaccio, occhi
di lacrime e di sorriso, di speranza e delusione. Occhi da cinema.
Ne parlava di rado,
a intervalli molto sporadici, talora sollecitato dalla moglie e dai figli,
talora da un amico.
Della sua avventura
con il cinema. Ma odiarla, non doveva odiarla.
Mostrava con
innegabile orgoglio le belle foto che lo ritraevano giovane, nelle vesti
sommarie di Robinson Crusoe, quell’espressione spavalda, il mento proteso un
po’ in avanti e una luce ironica negli occhi grigioazzurri, a temperare un
atteggiamento che altrimenti sarebbe sembrato arrogante: espressione, questa,
che gli era abituale, non certo nella vita, ma nelle fotografie per cui avrebbe
posato.(...)
...quel piazzarsi in
un vago tre quarti, il mento appena sollevato e gli occhi luminosi, ironici e
sorridenti. In tante foto, scattate in momenti anni situazioni così lontane fra
loro: mio padre nei panni di Robinson Crusoe, o vestito da studente fiducioso
nel futuro, o conscio del proprio aplomb
nell’impeccabile divisa da sottotenente della prima guerra mondiale, o
vent’anni più tardi con l’orgoglio di avere moglie e figli accanto a sé....
Quindi non doveva
odiarla quell’esperienza del cinema. Aveva riunito le numerose foto di scena
sotto una fascetta sulla quale aveva vergato con la fida stilografica «Films di
Aldo Castellani, in arte Lucio Mario Dani» e poi aveva conservato con cura
corrispondenza e ritagli, giornali e recensioni. Persino numerosi spezzoni di
pellicola protetti in pesanti scatole quadrate di fibra. E durante la seconda
grande guerra, quando sotto le bombe angloamericane la casa ci era caduta
addosso, non a noi di famiglia, ma ai nostri affetti e ricordi - i libri con le
copertine di colla di farina e acquerello rilegati dalla mamma ragazza, le
immaginette sacre della nonna, i fiori e i profumi della zia -, aveva
recuperato anche le sue cose di cinema fra le macerie, come reliquie insieme ad
altre reliquie. Gli spezzoni si erano rivelati irrecuperabili: ne aveva
tagliato qualche fotogramma per ricordo e aveva dovuto buttarli. Foto e ritagli
vennero invece ricomposti, qualche pesante ammaccatura di mattone, qualche
squarcio di chiodo, catalogati e racchiusi in nuove cartelline.
Ma quell’esperienza
non doveva neanche amarla. Lo compresi più tardi, molto più tardi. Quello
schivare l’argomento, senza volerlo mai approfondire oltre l’aneddoto, oppure
parlarne in termini troppo generici. Quando chiesi a lui, ormai anziano, di
precisarmi titoli anni notizie, non ce la fece, o meglio era riuscito -
complici l’età, i dolori della vita, la solitudine - a cancellarseli dalla
testa. Mi disse: erano undici film, dovrebbero essere undici. E i titoli? I
rettili delle miniere, I ruderi del maleficio, naturalmente Robinson Crusoe.
Amava il cinema?
Penso di sì. Gli aveva dedicato una fetta della vita. Non solo i pochi anni del
suo lavoro d’attore e direttore artistico ma anche tutti gli altri come
distributore e noleggiatore, poi imprenditore e gestore di sale
cinematografiche.
Se ne era allontanato pian piano e,
quando aveva consumato il distacco, ero troppo piccolo per capirne il perché. (…)
Quando divenni
grande, in età di capire o perlomeno di ricordare il dettaglio, papà non si
occupava più di cinema e al cinema non ci andava più. O meglio molto raramente,
per compiacere me, che reputavo quei pomeriggi, passati insieme di fronte allo
schermo, la prospettiva più entusiasmante, l’esperienza più bella, proprio
perché così centellinata, una volta all’anno, massimo due.
A vedere Crik e Crok, quella volta Stanlio e Ollio
si chiamavano così. Più grandicello, a vedere Totò, l’unico attore che amasse e
stimasse. Tutto il cinema, per lui che gli aveva dedicato i sogni della
giovinezza e le energie della maturità, si riassumeva in Totò, anzi era Totò. E
gli piaceva soprattutto il Totò umano, triste e smagato, di “Guardie e ladri”.
Senza disdegnare l’altro, quello dei film raffazzonati in una settimana o poco
più. In questi casi diceva: il film è «leggerino» ma Totò è bravo, anzi è più
bravo.
(“Occhi
da cinema”,pp.7-15, Ibiskos-Ulivieri, Empoli 2010)
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