Se la terna Inferno-Purgatorio-Paradiso
fa tutt’uno con Dante, se dire “la Gioconda” è dire Leonardo, per me, e sin
dalle prime apparizioni di cui ho personale memoria, l’Arabita è Enzo Berardi,
un Enzo che poco aveva a che vedere con il laborioso artigiano con
bottega-laboratorio dalle parti dell’Ospedale, perché quello stesso artigiano,
alto, segaligno e robusto, alla guida della sua orchestra, proletaria nei
componenti e negli scombinati strumenti, diventava un folletto scanzonato e
malizioso, un puck di quasi due metri, un grande bambino dinoccolato,
un’invenzione poetica. Il cilindro, la marsina rossa, il pomo del comando
passavano in subordine. Su tutto e tutti quella grande mano bianca che Enzo
agitava a imporre e scandire il ritmo, a rinforzare la sarabanda dei crescendo,
a troncare o prolungare la coda dei finali. Il “maestro dalla manona” dirigeva
non solo i musicanti piazzati alle sue spalle ma tutta la gente, il pubblico, gli
spettatori delle piazze e del suo Carnevale. Credo che il pifferaio di Hamelin
avesse un analogo carisma, ma Berardi non lo sfruttava per condurre la fitta
sequela al disastro bensì a quella contagiosa e sbrigliata allegria che sa
anche di sberleffo. Perchè la sua strampalata “arabita” era anche una satira
delle orchestre serie, professionali, pur mettendo a frutto la sapiente vena
musicale di alcuni dei suoi componenti, fra cui un orologiaio, un macellaio, un
arrotino, un tappezziere… tutti musicisti di vaglia che sul palco diventavano
festosi tarantolati, briosi ossessi…
Nel 1976 ebbi una fortuna insperata:
dovevo riprendere la scena di un mio telefilm collocata e inserita nella grande
festa di fine stagione che si svolgeva nella piazza davanti al Kursaal di
Cattolica. E chi mi trovai sul palco? Enzo Berardi con la sua arabita, la
grande orchestra proletaria della mia Fano. Enzo, con la sua grande mano
bianca, con quel volto serio che si apriva alla follia, mentre arringava musici
e folla non risparmiando la sua voce di instancabile imbonitore-cantore. Ho già
detto in altra occasione che, per me, il genuino spirito di Fano è
rappresentato dai due fratelli Berardi: Enzo, concreto e folle; don Guido,
santo e visionario. C’è tutta Fano: la “genialesa”, la modestia, lo spirito, la
serietà e il rigore mascherati da sana follia… Questo è l’Enzo Berardi che
ricordo con ammirazione e un po’ d’affetto, l’artigiano che sapeva trasformarsi
nel re delle invenzioni musicali, arringare orchestra e folla con la sua mano, grande
come la sua fantasia.
(L.C. in S.Clappis – Storia della Musica Arabita, Fano 2018)
Negli anni Cinquanta abitavo in Vua MuraSangallo, dietro le scuole commerciali e affacciandomi dalla finestra su retro che dava su Via malvezzi, la Musica Arabita la sentivo, anzi si puo dire che l'ho vista in parte costruire. Infatti quasi sotto la mia finestra c'era la falegnameria, "la butega" de "Ghigna el falegnam", dove lui insieme a vari altri, con martello, sega, chiodi, colla e altro, trasformavano vecchie caffettiere, canne,spugne,barattoli, vasi da notte, manici di scopa ed altro, in strani strumenti ritmici (spesso la falegnameria era anche il luogo delle prove musicati). Lui "Ghigna" suonava "el petin", un grande pettine dove poneva davanti della carta velina e ci soffiana, come delle "scoreggine", emettendo il suono di una roboante trombetta. La musica Arabità, quale componente integrante del Carnevale di Fano, quale proprietà di fantasia, di invenzione, di ingegno della nostra gente che insegnanti, dirigenti scolastici e soprattutto pubblici potrebbero far conoscere e promuovere nelle scuole e in tanti luoghi della città, quale proprietà creativa che altre realtà ci invidiano.
RispondiEliminaAlfredo Pacassoni