La prima attesa della mia vita – ero appena un bambino –
fu quella dei liberatori.
Durante la guerra, specie negli ultimi tempi, dopo la
burla dell’8 settembre che avrebbe dovuto scrivere la parole fine e invece
aveva aperto il capitolo più tragico, aspettavamo la liberazione. Restavamo in
attesa. E ogni giorno si ripeteva il rito: le fortezze volanti americane
giungevano a bombardare ponte Metauro. L’avanzata degli alleati, o liberatori
che dir si voglia, procedeva a rilento, approssimandosi alla temutissima linea
gotica. E i nazisti la facevano da padroni, razziando gli ultimi filoni di pane
e gli ultimi bottiglioni di vino. Poi un bel giorno – ricordo – i liberatori
arrivarono. Due camionette, due tanks, insomma due carri armati leggeri.
Fecero cucù dietro il capannone dei cavoli, nella piana
del Fenile ignari che ormai da ventiquattr’ore
i tedeschi se n’erano andati
abbandonando sul campo le loro ultime risorse, qualche fucile, una cane
lupo, poche pagnotte di pane nerissimo e quadrato.
Ma i liberatori non lo sapevano e si muovevano coi piedi
di piombo. Rimasero appostati un quarto d’ora dietro il capannone dei cavoli e
poi se ne riandarono via.
Qualche tempo più tardi arrivò una cicogna, un piccolo
aereo da ricognizione. E cominciò a esplorare come un falco. Si abbassò, girò
in tondo, si rialzò, planò, fece una picchiata ripida come volesse acciuffare
un pulcino o mitragliare.
E la gente – gli sfollati, altro termine d’uso in quegli
anni -, memore di analoghe liturgie, cominciò a spaventarsi davvero, temendo
che quell’aereo potesse scambiarli per nemici.
Mio padre e altri due uomini spiegarono un grande
lenzuolo bianco e lo agitarono. Come per dire, sperando che il ricognitore
fosse in grado di capire il linguaggio di un lenzuolo agitato in fanese: non
c’è più nessuno, niente tedeschi, siamo rimasti solo noi disgraziatissimi
innocenti civili, sfollati, contadini, profughi, veniteci a liberare e
facciamola finita.
Al mattino dopo le due camionette ricomparvero. Sbucarono
da dietro il solito capannone, come venute dal nulla. Poi si fecero coraggio e
scalarono la collina.
Scesero in quattro, con baschi in testa e le divise
gialline, un colore equivoco, molto meno serio del cupo verde delle uniformi
tedesche. Ma erano i liberatori. Non si reggevano molto bene in piedi. La
commozione, pensammo. Ma da vicino puzzavano d’alcool, e ruttavano con frequenza
e gagliardia sbalorditive. Evidentemente c’erano state altre fermate, altre
liberazioni a breve.
Bevvero altro vino, l’ultimo vino guasto e inacidito
sfuggito al teutonico, e ci annunciarono che eravamo liberi, che loro erano
polacchi, e che presto sarebbero arrivati gli inglesi, i canadesi, gli
americani e quant’altri. Ci mostrarono le nuove cartamonete d’occupazione, strette e lunghe, scritte un
po’ in inglese e un po’ in italiano. Occhieggiarono voracemente donne, ragazze
e ragazzini. Distribuirono abbracci e palpate. Ruttarono ancora e si rimisero
in marcia. Eravamo liberi. Finita l’attesa.
(L.C. – La terra dell’attesa, Quaderni del Vicolo, Fano 1990, pp.11-15)
(L.C. – La terra dell’attesa, Quaderni del Vicolo, Fano 1990, pp.11-15)
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