E arriviamo agli anni quaranta, gli anni della seconda
guerra mondiale. La casetta alla Selva, sede un po’ risicata e sacrificata
delle nostre estati, diventa la stabile residenza di noi sfollati: nonna, zia,
papà, mamma e due figli. (…)
Scoppia l’otto settembre. Papà, richiamato con l’ultima
riserva, torna a casa. Come lui tanti, tutti. Ma la guerra, la guerra degli
italiani, la guerra delle famiglie, forse comincia solo ora. Dalla salita
dietro la quercia spuntano i soldati tedeschi, a giorni alterni: Ai, zvai, ai,
zvai, ai, zvai. Una volta vogliono uova, una volta
vino. Alle feste uova e vino. Protestano i contadini, protesta la nonna.
Il fronte, parola cifrata per dire la guerra con i
cannoni le bombe la morte, si avvicina.
Ogni giorno, circa alle 14, vedo spuntare una coppia di
grossi aerei – le fortezze volanti – che planano sul ponte Metauro. Lanciano
qualche bomba e se ne vanno. E il ponte non cade mai.
Una notte una bomba d’aereo colpisce il Duomo. Qualcuno
venuto su da Fano si ferma al bivio del Fenile e racconta notizie già
trasfigurate in leggenda: è crollato il Palazzo Gabuccini, il Duomo, la Piazza,
il Vescovo è morto fra le macerie…
Mio padre corre in città e può constatare, con sua e
nostra relativa soddisfazione, che le voci erano un po’ allarmistiche: la bomba
ha colpito una parte del palazzo vescovile e un angolo del Palazzo Gabuccini.
E’ crollato il nostro salotto buono, quello con la carta di Francia rossa e le
seggiole di paglia di Vienna. (…)
Corrono i giorni della guerra. Il “fronte” si avvicina
ancora. Un giorno, uno Spitfire della R.A.F. si abbassa sui campi del Fenile e
mitraglia un mio amico, che ha su per giù la mia età, Mario de Crucela. Siamo
stati a “parà” le reti per gli uccelli all’Arzilla, mezz’ora prima. Poi l’aereo
viene colpito dalle contraeree, sbanda, tenta l’atterraggio, urta contro un
olmo, si abbatte. Il pilota muore,
Resta lì, riverso sul greppo sotto l’olmo, per un paio di
giorni. Alla fine mio padre e Crocella, lo zio del ragazzo ucciso, ottengono
dai tedeschi il permesso di seppellire il cadavere del pilota. Intanto, in quei
due giorni, una lenta, continua processione di gente, contadini, sfollati,
curiosi, ha sfilato davanti al morto e, armata di cacciavite, ha letteralmente
smontato tutto il moncone di aereo per portarne via i pezzi: grovigli di
metallo, fili, vitine che, in tempo di guerra, sembrano un tesoro.
Il “fronte si avvicina”. Ancora una volta i tedeschi
spuntano dalla salita dietro la quercia. Ma stavolta non sono i soliti in cerca
delle uova e del vino, il piccolo sergente anziano con i prigionieri russi come
aiutanti. Stavolta sono molti, una decina almeno, e cattivi. Non più “Ai, zwai,
ai, zwai” ma “raus” e “kaput”.
Abbiamo un’ora di tempo per abbandonare le case, noi e i
coloni. Stipiamo un biroccio, cercando di non far vedere quello che carichiamo
perché i tedeschi non si affezionino prematuramente a questa o quella cosa.
Papà è focoso, strilla e si arrabbia. Strappa dalle mani di un soldato la
bicicletta che questi gli ha sottratto: devo portarci su mia mamma, che è
vecchia!
Fuggiamo a rifugiarci sul greto dell’Arzilla dove
passeremo sette giorni (…).
Dopo essersi avvicinato, il fronte “passa”. Quando
torniamo su, in cima alla collina, ci viene da piangere: i tedeschi hanno
portato via tutto, hanno disseppellito le casse con l’argenteria, i servizi
buoni, le cose da tener da conto per sempre, regali mai usati del matrimonio di
mia mamma, e di mia nonna. E quello che non hanno potuto portar via i tedeschi
lo hanno distrutto: il servizio buono da 36, vanto di mia nonna; il servizio da
spumante di Baccarà, vanto di mia mamma.
(L.C. – Fano graffiti, Circolo
J.Maritain 1983, pp.32-35)
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