STORIE DELLA SELVA - punt,9, il marziano
Glielo avevamo insegnato a scuola,
in una di quelle mattinate, algide come tutte quelle del suo pianeta, in cui a
un marziano cosiddetto maggiore spettava il compito di dividere il suo sapere
con un gruppo di marziani cosiddetti minori, che altrove si sarebbero chiamati
bambini. Ma non avrebbe mai supposto che un bel giorno quelle disordinate indicazioni
sarebbero servite a qualcosa: la Terra è un pianeta trascurabile, da qualche
secolo svuotata da tutti i suoi ingombranti e pleonastici abitanti grazie al virus
letale che ne fece piazza pulita. E invece adesso quelle indicazioni gli erano
utilissime. Come aveva fatto a cadere proprio sul pianeta Terra, espulso dal
solito disco volante della nettezza spaziale sul quale prestava servizio ormai
da tempo? Caduto oppure cacciato? Ricordava molto bene come era avvenuta la sua
messa al bando, per colpa propria o altrui? Ma già, il concetto di colpa ormai
non esisteva più, faceva parte di quel vecchio armamentario di moralità astratte, proprio di una civiltà
ormai scomparsa nei meandri del passato. Fatto sta che ora si ritrovava sulla
Terra, caduto in un viluppo intricato di tonalità verdi, insomma in mezzo a quel
bosco, che sulla sua carta spaziale veniva indicato con il nome di Selva. E
adesso che fare? Si mise a esplorare il terreno: tutta quella lussureggiante ma
confusa sovrapposizione di verdi lo metteva a disagio, lo stordiva. Dalle sue parti tutto era lindo, pettinato, i
paesaggi si alternavano come scansioni di metallo di un uniforme colore grigio,
inossidabile, intaccabile da agenti estranei, scansioni a cui attribuire vari
nomi e mansioni, case, opifici, industrie, luoghi di svago o di riposo, fra le
quali era facile muoversi e abitare. E qui tutto il contrario, un unico
contesto verde di cui era prigioniero. Vinto il primo stordimento cercò di
esaminare con più cura quello frastornante verde. E ad uno sguardo più attento
riuscì via via a scoprirne le forme e soprattutto i colori. Sì, c’erano varie screziate tonalità intorno
a lui, tali da spezzare quell’apparente monotonia. I ciclamini lilla, piccoli e
odorosi, si facevano largo fra le foglie morte di una precedente stagione. E
c’erano le violette, piccole anch’esse e profumate. Se fosse stato più
diligente a scuola forse avrebbe letto la fiaba di un certo Andersen che
parlava dell’esistenza di fragili e gentili creature di sesso femminile adibite
a porgere violette alle belle signore che frequentavano il teatro d’Opera
nonché fiammiferi ai baffuti signori che le accompagnavano. Ma a lui erano
sembrate storie assurde quanto inutili, relative a una civiltà estinta. Cerano gli
azzurri myosotis, i “non ti scordar di me”, quasi microscopici, tali da
confondersi con l’erba, c’erano le giunchiglie, gialle e carnose, le margherite
dai sottili petali bianchi e il cuore rotondo di un giallo violento, c’erano i
gigli selvatici con i loro calici rossicci picchiettati di marrone e i pistilli
di un bruno provocante e i lilium dagli steli ammiccanti. E i fior di loto
dalle corolle diafane e delicate. C’era la malva dalle foglie fantasiose e i
fiori di un viola intenso, screziato, e c’era l’ortica, un tripudio di foglie
rugose e crespe di cui non poteva temere il potere ustionante. C’erano i cespuglietti spinosi di ginepro gremiti di piccole bacche blu su cui la
natura aveva inciso una sorta di sigla, e c’erano i pungitopo dalle bacche rosse
e le foglie spinose, a farsi prepotentemente strada sul terreno. C’erano i rovi
che avviluppavano erbe e sottobosco come invasori selvaggi, allungando le
braccia spinose verdi-rossastre e c’erano i bianchi fiori di vitalba che
nascevano sulle siepi accanto al torrente che scorreva a fondo valle. E c’erano
gli ornielli, audaci contro le folate del vento, e i lecci che fiorivano in
grappoli di effervescenze bianche, e le querce, possenti e malinconiche. E ai
piedi del loro tronco nascevano i funghi come escrescenze fragili, dalle
corolle appena toccate dal colore del bruno. Sì, aveva scoperto nuovi imprevedibili
forme di vita e di colore. Quante? Mille, duemila? Ah, se avesse studiato la
botanica nelle sue inutili lezioni spaziali, avrebbe saputo dare ad ogni
pianta, ad ogni fiore, ad ogni erba e albero un nome, come aveva fatto quel
certo Adamo nei giorni della creazione, secondo il racconto del più vecchio
libro sacro mai esistito, la Bibbia. Se si fosse interessato maggiormente alla
civiltà dell’unico pianeta che avesse diffuso nello spazio infinito le storie
fantastiche del suo passato e del suo trapassato! Ma nel suo pianeta asettico e
lontano le avevano sempre considerate ricerche leziose quanto inutili. A che mai
potevano servirgli ? E invece… Sì, in quella Selva avrebbe potuto vivere per
sempre, senza timore d’incontrare anima viva, la vecchia popolazione umana
scomparsa da secoli, ma anche tutti gli animali, gli invertebrati, gli insetti,
anche quelli minuscoli. Nulla che potesse far paura o attentare alla vita di un
essere come lui, alto appena cinque centimetri, secondo il vecchio metro
decimale che sembrava ancora in vigore quale unico residuo di una cultura
scomparsa. Sarebbe stato facile per lui trovar casa e rifugio in un formicaio
lasciato vuoto, o in un covo di istrice, o di volpe, o di tasso. Nomi di bestie
che aveva imparato a conoscere dai libri, come quelli di tanti altri animali
scomparsi nelle notti del tempo, la fenice, l’idra, il drago, l’ippocampo, il
centauro. O come le nere bisce d’acqua e quei piccoli draghi verdi che si
chiamavano lucertole, e le rane, i ranocchi panciuti e osceni. O come gli
uccelli, le rondini bianconere, i passeri, i pettirosso canterini, i tordi dal
manto screziato, le gazze, gli upupa con le loro creste fiammeggianti, la
poiana alta nel cielo. O come gli insetti, formiche, scarafaggi, vermi,
zanzare, calabroni, api, vespe, farfalle, cicale, cerambici eccetera. Avrebbe
potuto vivere in quella Selva per sempre, fra i colori delle piante e i profumi
dei fiori. E poi chissà, forse un giorno avrebbe potuto incontrare un qualche essere
sopravvissuto, magari uno solo, un bruco, una cavalletta, una libellula, una
formica rossa. O forse qualcuno, nel suo mondo lontano, si sarebbe ricordato di
lui e sarebbe tornare indietro, dalle infinita profondità spaziali, a
riprenderselo e riportarlo fra gli altri suoi simili. Ma allora, in quel solo e
improbabile caso, si sarebbe portato dietro una violetta, una sola, da far
seccare in un libro digitale di mille grigie pagine metalliche. E forse un
giorno suo figlio, trovandola sfogliando casualmente quel libro ormai desueto, si
sarebbe chiesto perché.
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