1944, anno di guerra.
Oltre ai tedeschi che razziavano uova, galline e ricordi c’era dalle mie parti
uno strano tipo. Lo chiamavano Tesoro, o meglio “l’uomo del tesoro”, perché si
mormorava che quel suo aggirarsi per le campagne non avesse lo scopo dichiarato
di cogliere erbe selvatiche, mandorle e noci prematuramente cadute fra le zolle
o bacche nel bosco, bensì quello recondito di cercare tesori, pignatte colme di
zecchini o cassette traboccanti marenghi, con l’aiuto di qualche spirito
maligno se non addirittura del diavolo in persona.
In un momento di
rimpianti, Tesoro aveva raccontato la sua storia a mia nonna. Ero presente
anch’io, ma i bambini sotto il metro non contavano.
Sì, era vero, aveva
studiato da prete e in quell’antico seminario il diavolo era di casa. Compariva
a sera, all’ora della mensa frugale nel grande refettorio, confuso fra gli
altri. Poi, quando un apprendista sacerdote cominciava a chiedersi chi fosse
quello strano chierico sconosciuto
seduto là, in fondo alla tavolata, e gli sguardi correvano a verificare, ecco,
il posto era vuoto. Solo un vago odore di zolfo, unito a un senso di
trepidazione, a un indefinito timore. E al mattino dopo, qualche seminarista
che aveva indugiato nelle tentazioni dello spirito o del vizio solitario trovava
sul comodino un foglio: “ero io”. E quell’io sembrava vergato col sangue e col
fuoco.
Tesoro raccontava altre
storie. Di contadini improvvisamente arricchiti che avevano trovato una fortuna
ma perso per sempre la pace. Di luoghi dove non si poteva transitare di notte,
perché le anime perdute stavano in agguato. Di casolari stregati e alberi
maledetti.
In casa mia – raccontava,
ma in segreto, quasi una pudica rivelazione a mia nonna – c’è una cassa. E’ una
cassa molto grande: racchiude l’eredità per la mia prole. Diceva proprio prole,
nel vecchio linguaggio curiale. In questa cassa ci sono chiusi tanti involti.
Se mio figlio vorrà fare il falegname, tirerà fuori l’involto con su scritto
falegname e ci troverà annotato tutto ciò che deve fare e sapere per dominare
il legno. Se volesse diventare dottore cercherà il fagotto con le relative
indicazioni. Così per ogni professione o mestiere che esista.
Ma se non volesse proprio
lavorare, dovrà cercare il pacchetto più piccolo, sul fondo del baule. C’è
scritto su: Tesoro. Racchiude le istruzioni per trovare ogni tesoro sepolto nei
dintorni, ma senza irritare il diavolo né vendere l’anima.
E io fantasticavo di quel
magico pacchettino, mi chiedevo perché l’uomo del tesoro non si fosse già messo
alla ricerca di quelle ricchezze e fosse costretto a girare per le case
coloniche elemosinando un bicchiere di vino e raccogliendo le poche mandorle e
noci rimaste sul campo.
Quasi mi avesse letto nel
pensiero, l’omino rispondeva: io no, non posso farlo, non chiedetemi il perché.
Ma mio figlio, quando non ci sarò più, sarà libero di cercare. Uno dei tesori è
anche qui, nel vostro bosco, dove un tempo c’era un piccolo convento di frati.
Ma il punto esatto non ve lo posso dire.
Per mesi e mesi continuai
a braccare da lontano l’uomo del tesoro per paura che, nonostante il divieto
delle potenze superiori o inferiori, potesse rubare il tesoro del nostro bosco
o nella speranza che un giorno o l’altro inavvertitamente si tradisse. E che
fossi io a fare la scoperta: correte, ho trovato i ruderi dell’eremo, guardate
i mattoni, è un muro antico!
Ma il nostro bosco non
era così grande da poter celare il suo segreto ai cacciatori che attendevano
ogni ottobre il passo delle palombe, ai contadini che tagliavano i giovani
ornelli per rinforzare i filari, alla mamma che andava per ciclamini, per
funghi o per violette.
Dove poteva essere il
tesoro? Ai piedi della quercia grande? Sotto il manto fitto dell’edera,
nascosto dalla coltre dei pungitopo? Addormentato sotto il muschio?
Tesoro passava silenzioso
attraverso le siepi e i rovi, come un magico folletto, si curvava a cogliere
un’erba d’antica virtù, una nocciola caduta dal cespuglio selvatico, una bacca
di ginepro o di lampone. Poi spariva improvvisamente. Un prodigio, o mi ero
semplicemente distratto per un attimo dietro il corteo delle formiche rosse?
Un giorno del 1944,
l’anno più feroce dell’ultima guerra mondiale, quando i grandi aerei americani
sganciavano quotidianamente il loro carico di bombe sul Ponte Metauro per
interrompere la via Adriatica e più insistenti si facevano le cannonate della
Linea gotica, Tesoro arrivò da noi con la buona novella.
Ho trovato l’Epistola di
Costantino Imperatore. Non ci potrà accadere più nulla: malattie, ferite,
morte. A peste fame et bello... Basta copiarla e portarsela addosso, sempre.
Era un foglio
pergamenaceo, d’antica grafia, scritto in una lingua arcaica poco
comprensibile. Narrava di come Costantino fosse scampato da cento pericoli di
morte grazie a quell’Epistola portata addosso. E il racconto era alternato a
piccole croci che lo scandivano e come ritmavano. Poi concludeva: chi volesse
avere la prova dell’invulnerabilità, leghi questo talismano a un cane o altra
belva domestica e cerchi di ferirla o ucciderla.
La prova della belva
domestica non la facemmo, ma mio padre rispolverò la vecchia macchina da
scrivere e rintracciò alcuni fogli di carta carbone affrettandosi a
moltiplicare il talismano. Per noi di
famiglia ma anche per i contadini, per gli amici “sfollati” come noi.
Quell’Epistola, ripiegata
più volte su se stessa e cucita dentro un abitino di stoffa, ci penzolò dal
collo sino alla fine del conflitto. Scoprimmo che tanti altri, sfollati e
villici, ne avevano una simile, qualche crocetta in più o in meno, qualche
incostanza nella grafia originale o nel copiato casalingo. Provenivano tutte
dallo stesso emissario dell’Imperatore?
Con precoce logica
infantile mi chiedevo come avesse fatto Costantino a scampare alla morte grazie
ad una lettera che raccontava come, grazie alla medesima, fosse riuscito a
sopravvivere. Somigliava all’etichetta di un barattolo di conserva di pomodoro
che mi aveva sempre affascinato: la massaia che tiene in mano un barattolo, su
cui è effigiata una massaia che tiene in mano un barattolo su cui è effigiata
la massaia che tiene in mano… così all’infinito.
Come avrei voluto
spingermi sino a quell’ultimo minuscolo barattolo! Ma alla prova della lente di
Sherlock Holmes sarebbe comparsa inesorabile un’altra massaia con in mano un
ancor più impercettibile barattolo… Senza via d’uscita. Il mistero
dell’infinito in cui annegare, alla ricerca dell’ultima spiaggia dove
l’infinito si plachi nel nulla. Oppure in Dio.
Erano giorni di paura.
Tutto era buono per sperare, un’immagine, una preghiera o l’Epistola di
Costantino Imperatore, scovata nella cassa delle meraviglie dall’Uomo del
Tesoro, quello che da giovane “aveva studiato da prete”. Ma questa è un’altra
storia.
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