domenica 17 maggio 2020

STORIE DELLA SELVA - punt.8, L'uomo del tesoro


1944, anno di guerra. Oltre ai tedeschi che razziavano uova, galline e ricordi c’era dalle mie parti uno strano tipo. Lo chiamavano Tesoro, o meglio “l’uomo del tesoro”, perché si mormorava che quel suo aggirarsi per le campagne non avesse lo scopo dichiarato di cogliere erbe selvatiche, mandorle e noci prematuramente cadute fra le zolle o bacche nel bosco, bensì quello recondito di cercare tesori, pignatte colme di zecchini o cassette traboccanti marenghi, con l’aiuto di qualche spirito maligno se non addirittura del diavolo in persona.
In un momento di rimpianti, Tesoro aveva raccontato la sua storia a mia nonna. Ero presente anch’io, ma i bambini sotto il metro non contavano.
Sì, era vero, aveva studiato da prete e in quell’antico seminario il diavolo era di casa. Compariva a sera, all’ora della mensa frugale nel grande refettorio, confuso fra gli altri. Poi, quando un apprendista sacerdote cominciava a chiedersi chi fosse quello strano  chierico sconosciuto seduto là, in fondo alla tavolata, e gli sguardi correvano a verificare, ecco, il posto era vuoto. Solo un vago odore di zolfo, unito a un senso di trepidazione, a un indefinito timore. E al mattino dopo, qualche seminarista che aveva indugiato nelle tentazioni dello spirito o del vizio solitario trovava sul comodino un foglio: “ero io”. E quell’io sembrava vergato col sangue e col fuoco. 

Tesoro raccontava altre storie. Di contadini improvvisamente arricchiti che avevano trovato una fortuna ma perso per sempre la pace. Di luoghi dove non si poteva transitare di notte, perché le anime perdute stavano in agguato. Di casolari stregati e alberi maledetti.
In casa mia – raccontava, ma in segreto, quasi una pudica rivelazione a mia nonna – c’è una cassa. E’ una cassa molto grande: racchiude l’eredità per la mia prole. Diceva proprio prole, nel vecchio linguaggio curiale. In questa cassa ci sono chiusi tanti involti. Se mio figlio vorrà fare il falegname, tirerà fuori l’involto con su scritto falegname e ci troverà annotato tutto ciò che deve fare e sapere per dominare il legno. Se volesse diventare dottore cercherà il fagotto con le relative indicazioni. Così per ogni professione o mestiere che esista.
Ma se non volesse proprio lavorare, dovrà cercare il pacchetto più piccolo, sul fondo del baule. C’è scritto su: Tesoro. Racchiude le istruzioni per trovare ogni tesoro sepolto nei dintorni, ma senza irritare il diavolo né vendere l’anima.
E io fantasticavo di quel magico pacchettino, mi chiedevo perché l’uomo del tesoro non si fosse già messo alla ricerca di quelle ricchezze e fosse costretto a girare per le case coloniche elemosinando un bicchiere di vino e raccogliendo le poche mandorle e noci rimaste sul campo.
Quasi mi avesse letto nel pensiero, l’omino rispondeva: io no, non posso farlo, non chiedetemi il perché. Ma mio figlio, quando non ci sarò più, sarà libero di cercare. Uno dei tesori è anche qui, nel vostro bosco, dove un tempo c’era un piccolo convento di frati. Ma il punto esatto non ve lo posso dire.
Per mesi e mesi continuai a braccare da lontano l’uomo del tesoro per paura che, nonostante il divieto delle potenze superiori o inferiori, potesse rubare il tesoro del nostro bosco o nella speranza che un giorno o l’altro inavvertitamente si tradisse. E che fossi io a fare la scoperta: correte, ho trovato i ruderi dell’eremo, guardate i mattoni, è un muro antico!
Ma il nostro bosco non era così grande da poter celare il suo segreto ai cacciatori che attendevano ogni ottobre il passo delle palombe, ai contadini che tagliavano i giovani ornelli per rinforzare i filari, alla mamma che andava per ciclamini, per funghi o per violette.
Dove poteva essere il tesoro? Ai piedi della quercia grande? Sotto il manto fitto dell’edera, nascosto dalla coltre dei pungitopo? Addormentato sotto il muschio?
Tesoro passava silenzioso attraverso le siepi e i rovi, come un magico folletto, si curvava a cogliere un’erba d’antica virtù, una nocciola caduta dal cespuglio selvatico, una bacca di ginepro o di lampone. Poi spariva improvvisamente. Un prodigio, o mi ero semplicemente distratto per un attimo dietro il corteo delle formiche rosse?

Un giorno del 1944, l’anno più feroce dell’ultima guerra mondiale, quando i grandi aerei americani sganciavano quotidianamente il loro carico di bombe sul Ponte Metauro per interrompere la via Adriatica e più insistenti si facevano le cannonate della Linea gotica, Tesoro arrivò da noi con la buona novella.
Ho trovato l’Epistola di Costantino Imperatore. Non ci potrà accadere più nulla: malattie, ferite, morte. A peste fame et bello... Basta copiarla e portarsela addosso, sempre.
Era un foglio pergamenaceo, d’antica grafia, scritto in una lingua arcaica poco comprensibile. Narrava di come Costantino fosse scampato da cento pericoli di morte grazie a quell’Epistola portata addosso. E il racconto era alternato a piccole croci che lo scandivano e come ritmavano. Poi concludeva: chi volesse avere la prova dell’invulnerabilità, leghi questo talismano a un cane o altra belva domestica e cerchi di ferirla o ucciderla.
La prova della belva domestica non la facemmo, ma mio padre rispolverò la vecchia macchina da scrivere e rintracciò alcuni fogli di carta carbone affrettandosi a moltiplicare il talismano.  Per noi di famiglia ma anche per i contadini, per gli amici “sfollati” come noi.
Quell’Epistola, ripiegata più volte su se stessa e cucita dentro un abitino di stoffa, ci penzolò dal collo sino alla fine del conflitto. Scoprimmo che tanti altri, sfollati e villici, ne avevano una simile, qualche crocetta in più o in meno, qualche incostanza nella grafia originale o nel copiato casalingo. Provenivano tutte dallo stesso emissario dell’Imperatore?
Con precoce logica infantile mi chiedevo come avesse fatto Costantino a scampare alla morte grazie ad una lettera che raccontava come, grazie alla medesima, fosse riuscito a sopravvivere. Somigliava all’etichetta di un barattolo di conserva di pomodoro che mi aveva sempre affascinato: la massaia che tiene in mano un barattolo, su cui è effigiata una massaia che tiene in mano un barattolo su cui è effigiata la massaia che tiene in mano… così all’infinito.
Come avrei voluto spingermi sino a quell’ultimo minuscolo barattolo! Ma alla prova della lente di Sherlock Holmes sarebbe comparsa inesorabile un’altra massaia con in mano un ancor più impercettibile barattolo… Senza via d’uscita. Il mistero dell’infinito in cui annegare, alla ricerca dell’ultima spiaggia dove l’infinito si plachi nel nulla. Oppure in Dio.
Erano giorni di paura. Tutto era buono per sperare, un’immagine, una preghiera o l’Epistola di Costantino Imperatore, scovata nella cassa delle meraviglie dall’Uomo del Tesoro, quello che da giovane “aveva studiato da prete”. Ma questa è un’altra storia.    

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