venerdì 8 maggio 2020

STORIE DELLA SELVA - punt.2. il gigante e la quercia


Una volta a Fano, in provincia di Pesaro e Urbino, ci stavano i giganti. Non proprio giganti come quel Polifemo di cui ci parla Omero, laido, scimmiesco, torpido e con un unico occhione piazzato in mezzo alla fronte.
Giganti belli e prestanti, alti due metri e più, giunti dal mare un bel mattino a bordo di una strana imbarcazione, con l’aiuto di un po’ di vento a gonfiare le vele ma soprattutto dando sui remi con tutta la potenza dei loro giganteschi bicipiti.
Approdarono alla Baia del Re, tirarono in secco la navicella e presero fiato, sdraiati sulla sabbia, prima d’intraprendere l’esplorazione di quei luoghi sconosciuti, tuffarsi nei fitti cespugli di tamerici e aprirsi un varco verso l’entroterra, nascosto dal verde ma allettante come una promessa.
Erano una dozzina, forse venti. La maggior parte di loro mise su casa a Novilara. E l’artista della comitiva si divertì a scolpire su alcune lastre di pietra la scena dell’arrivo, nonché il ricordo di antichi combattimenti e della lontana terra natia, dove ruggiva il leone e chiurlava la civetta. Un album di schizzi su selce degno degli antenati Flintstones. Chi vuol controllare vada al Museo Oliveriano di Pesaro o a quello Pigorini di Roma e si faccia mostrare le cosiddette “stele di Novilara”.
L’ultimo gigante, il più intraprendente e irrequieto, se ne andò per conto suo, vagò per la contrada Belgatto, salì l’attuale collina di san Biagio, ridiscese per sant’Andrea e finalmente si sistemò alla Selva, sopra la frazione Fenile.
Tutto questo avveniva circa mille anni prima di Cristo, secolo più secolo meno. Quindi non c’erano ancora né Fano, né Novilara, né il Belgatto, né il Fenile.
Saltiamo velocemente molti secoli e arriviamo a un anno imprecisato, diciamo circa centocinquant’anni fa. Il nonno di mio nonno si chiama Remigio, ha trenta centimetri di barba ispida e brizzolata e in testa un cappellaccio da far invidia al famoso Passatore. Insomma all’aspetto (come si rileva da un dagherrotipo ingiallito) non lo si direbbe un tipo raccomandabile. Possiede un podere, coltivato da un contadino che si chiama Sevrìn.
Allora un bel giorno il nonno di mio nonno – Remigio detto  Bigi, – ascoltato il mezzadro Sevrìn, decide che è opportuno sbancare un po’ di collina per allargare l’aia. La zappa non basta, ci vogliono la vanga, la pala e anche i buoi, per rimuovere e trainare quei cuori di pietra ellittici, talvolta piccoli come una mela, talora grandi come un’anguria, ma non di rado enormi come una botte, che ostacolano il compito, sprofondati nella massa friabile del tufo. Pietre speciali, gialle in superficie ma all’interno rosse come il granato, che il Passeri, accreditato esperto minerario del pesarese, definisce “grumi di durissima pietra”.
Zappa che ti zappa, improvvisamente il tufo vergine si interrompe per cedere alla terra di riporto. E come un miraggio, spuntano due grandi tegoloni disposti a capanna. Il lavoro si blocca di colpo:
-         Il tesoro!, urla Sevrìn.
-         Fermi tutti!, intima Bigi, con la sua vociona da bandito.
Si avvicinano tutti e due, un po’ timorosi e senza testimoni, dato che le donne sono per i campi a spigare o in cucina a tirare la sfoglia, e i bambini a “parare” le pecore e il porcello. Il “fermi tutti” del nonno di mio nonno è assolutamente pleonastico.
Sollevano i due tegoloni: sotto non c’è il tesoro ma solo lo scheletro di un essere umano come coricato su un fianco. E’ lo scheletro gigantesco di un uomo gigantesco, alto un tre metri e – stando alle falangi falangine e falangette - con  sei dita per mano…
La storia diventa leggenda e si tramanda di padre in figlio.
-         Lo sai che una volta qui, dietro casa, hanno trovato un gigante?, racconta mio padre.
-         Chi l’ha trovato?, domando io.
-         Sevrìn e nonno Bigi,
-         E com’era?
-         Era alto tre metri e aveva sei dita per mano.
-         Com’era vestito?
-         Aveva l’elmo, la corazza, la spada…
-         E adesso dov’è?
Mio padre alza le spalle:
-         Boh, l’armatura se la sarà presa qualche museo, a Roma o in Ancona, le tegole si saranno rotte… Ma poi io l’ho solo sentito raccontare da papà mio. Può darsi che non sia vero niente…
Soltanto molti anni più tardi appresi la storia dei ritrovamenti di Novilara e delle stele. Alcuni archeologi parlano addirittura di un “uomo di Novilara”, popolazione misteriosa, addirittura più misteriosa di quegli Etruschi che sembrano detenere a tutt’oggi il copyright del mistero.
Così adesso so che la favola di mio padre, relativa a nonno Bigi e a Sevrìn, nascondeva qualcosa di realmente accaduto. Un antico navigante, forse quello più abile a tenere saldamente il timone grazie alle sue sei dita, aveva scalato a suo tempo le mie lievi colline e, dopo una vita che non so, si era addormentato un mattino, stanco non tanto della sua giornata terrena o del breve trasferimento dal lido dell’approdo, quanto del più lungo viaggio di mare, sognando forse un paese lontano, dove ruggisce il leone e chiurla la civetta.
Si era addormentato, un mattino di tanti secoli fa, sul bel poggio baciato dal sole. E accanto alla sua tomba il vento fece ruzzolare una ghianda, da quella ghianda nacque una quercia e da quella quercia un’altra ghianda, e da quella ghianda un’altra quercia…
E la quercia si fece grande, divenne degna del gigante. Le ossa dell’uomo rividero la luce, grazie al caso e alle zappe di nonno Bigi e di Sevrìn. Rividero la luce e forse tornarono alla terra, senza la pia intermediazione dei due grandi “coppi” disposti a capanna: terra alla terra.
Ma ancor oggi rimane la sua quercia, figlia o nipote di un’altra quercia. La grande quercia gigante, madre e nonna di tutte le querce della selva di Sevrìn, di nonno Bigi e del gigante venuto dal mare.
 (Leandro Castellani)
(già pubblicato in “Fano graffiti”, 1982)

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