La battaglia del Metauro, combattuta un sacco di secoli fa, nel 207 avanti Cristo:
l’esercito romano sbaraglia e mette in fuga un esercito che viene dalle coste
dell’Africa, dopo aver attraversato Spagna, Gallia e Alpi, con uomini armi
cariaggi e una decina di elefanti. Lo comanda Asdrubale Barca che il fratello
Annibale, già stanziato in Italia da diversi anni, ha chiamato in suo soccorso:
– Viene su, Asdrubale che, tu da sopra ed io da sotto,
invadiamo Roma e ne facciamo terra bruciata. Ti ho già spiegato la strada. Ti
consiglierei di passare da Senigallia, terra di galli senoni, un po’ polentoni
ma tranquilli.
- E dopo?, chiede ansioso l‘Asdrubale che di
toponomastica non se ne intende.
- Una volta traghettato il fiume Metauro prendi la Flaminia
e sempre dritto, non ti puoi sbagliare. Intanto io vengo su dall’Apulia, ci
diamo appuntamento nel Lazio e di questi romani facciamo polpette… e di Roma
terra per ceci.
Da buon fratello minore, Asdrubale accetta il suggerimento
da chi ne sa più di lui. Non per nulla il cartaginese Annibale, per quella via,
lunghetta ma sicura, è riuscito ad
arrivare in Italia anni prima: scaramucce,
battaglie, grandi vittorie e meritato riposo un po’ più a sud, in quel di Capua.
Di questo riposo il bravo cartaginese se n’è preso anche troppo, non vede l’ora
di chiudere la partita e concludere la progettata invasione. E attende
impaziente l’arrivo dei rinforzi. Intanto Asdrubale è sceso velocemente dal
nord ed è già a Senigallia, in partenza per Marotta. Ci potrà mai ostacolare un
fiumiciattolo come il Metauro a noi che siamo abituati al Nilo e alle sue
piene?, pensa. Che sarà mai ‘sto Metauro!
Ma i romani sono i soliti furbacchioni e hanno
adottato la tattica di dar corda all’invasore non ostacolandone in alcun modo
l’avanzata. Non per nulla al loro condottiero lo chiamano il Cunctator, cioè il
temporeggiatore, il “vacci piano e dagli spago”: la tattica che adotteranno i
russi con Napoleone e i sovietici (russi anche loro) con i nazisti. Poi,
scattata la cosiddetta “ora x”, mentre
l’africano ha già iniziato a traghettare il fiume con tutta la truppa dietro,
il Cunctator si scatena. Addosso! Viva Roma, viva il Senato, viva i Consoli!
Insomma viva noi!
Quanto alla scarsa popolazione locale – ex-galli
senoni, ex-goti, piceni autoctoni, veneti di seconda scelta e slavi approdati
dall’altra parte dell’Adriatico – non ha capito bene da che parte convenga
stare. Si divide in due rissose tifoserie - chi li chiama invasori, chi
liberatori - ma senza passare a vie di
fatto: meglio restarsene neutrali! Non
ci compromettiamo! Stiamo a vedere!
Partiti in quarta mettendo in campo le loro collaudate
strategie di guerra, i romani fanno man bassa dell’esercito africano. I
cartaginesi tentano disperate controffensive ma, uccisi gli elefanti e travolte
dalle acque, solitamente tutt’altro che impetuose, armi pesanti, giavellotti,
lance africane e catapulte varie, si avviliscono, si demoralizzano e si danno
alla fuga. Asdrubale hai voglia a gridare: Vigliacchi! Mi lasciate solo? E a
mio fratello che gli racconto?
E arriviamo alla scena madre, quella che, alcuni
secoli dopo, i fratelli Zuccari
effigieranno sul soffitto del Palazzo di Montebello: la cattura di Asdrubale. Capo, l’abbiamo
preso, che ne facciamo? Tagliategli la testa! Detto fatto. Gli mozzeranno il
capo per farlo recapitare al fratello Annibale ancora in confidente attesa:
ecco, aspettavi il fratellone con i rinforzi? E voilà! T’ha detto male! Come annoterà
Winston Churchill, durante la sua rapida incursione in quei luoghi nei giorni
della seconda guerra mondiale: con la battaglia del Metauro si sarebbero decisi
– per sempre? - i destini dell’intero Occidente e della sua civiltà.
La battaglia del Metauro è finita ma la nostra storia comincia
proprio adesso. Ai sopravvissuti dell’esercito sconfitto non resta che
disperdersi per le campagne: chi la
ritrova più la strada per Cartagine! E poi non è che in Africa ce la passassimo
tanto bene. Tanto vale imboscarsi da queste parti e cercare una sistemazione.
La gente di qui sembra disponibile ad accogliere chi viene da fuori, ce l’hanno
detto in molti. Ed ecco il nostro personaggio, che chiameremo Magone - nome
cartaginese d’origine controllata - superare dirupi e fossati, boschi, torrenti
e insidie assortite di animali selvaggi e uomini feroci, specie i tranelli dei
cripto romanisti che fanno la spia appena vedono in giro un forestiere di
origine sospetta. Magone muove verso il nord, si allontana dalla vasta pianura
che il Metauro ha formato nel corso dei secoli e si spinge sulle colline. Sul
rilievo più dominante i filoromani, nonché i romani lasciati a guarnigione,
hanno eretto un’ara al loro Dio preferito, il sommo Giove. Magone dribla il
tempietto, si spinge oltre e finisce proprio a ridosso di quel terreno dirupato
che i posteri chiameranno la Selva. Naturalmente la Selva non c’è ancora o
forse è ancor più estesa e intricata, con accanto un misero pezzo di terra in
attesa che qualcuno lo coltivi. Basta con la guerra!, pensa Magone. E se mi
rifugiassi qui? Chi mi verrà a cercare fra queste colline frequentate solo da
lupi e cinghiali? Del resto non è il solo fuggiasco che si sia stanziato là
attorno: ne è testimonianza, almeno secondo le fantasiose teorie di alcuni
storici del passato, quel paese che porta il nome di Cartoceto.
Passano alcuni mesi. Il nostro Magone si nutre di
erbe, bacche, funghi nonché di piccoli animali selvatici che arrostisce in
improvvisati barbecue. Ma ha iniziato a dissodare un frustolo della collina più
dolce, quella che guarda verso il mare, dove potrebbe piantare farro e grano.
E’ una terra renosa, non troppo fertile, dove è facile imbattersi in pesanti
macigni, difficili da rimuovere con la sola forza delle braccia, una terra che
alberga piccoli cuori di roccia frutto di ere passate e di sconvolgimenti
apocalittici. Magone sa vincere gli ostacoli della natura. Nel corso degli anni
e col succedersi della piogge e delle stagioni riuscirà a rendere quella terra
feconda. E quella terra, dissodata da un gladio trasformato in vomere, diverrà
la sua terra e la terra dei suoi figli.
E qui dovrei parlare dell’incontro, misterioso e un
po’ magico come tutti gli incontri che fanno virare l’esistenza verso nuovi
orizzonti, fra il rude cartaginese e una fanciulla timida e ombrosa, un po’
selvaggia, fuggita dalla spelonca nativa
per sottrarsi alle angherie di sua madre e alle violenze degli uomini,
padre e fratelli. Ma che ha provato immediata fiducia in quell’omone straniero
che parla una lingua incomprensibile e sembra un figlio della foresta.
Straniera anche lei, capelli rossi come suo padre sceso anni prima dal nord,
straniero come quell’africano venuto dal sud. Si capiscono subito, a istinto,
anche se Magone si mostra ansioso di apprendere a formulare frasi e parole
nella lingua di lei. Formeranno una singolare famiglia, non più singolare delle
altre, disperse per le rare dimore dei dintorni. Nasceranno dei figli, una
nidiata, rossi di capelli ma con la carnagione bruna. La mamma insegnerà loro a lavorare, ma anche a prestare
la dovuta devozione alla Dea del luogo, che riassume in sé le vecchie divinità
celte del Nord e i numi misteriosi della terra d’Africa. E’ una dea massiccia
come una turgida matrona e fra le braccia una pesante cornucopia di fiori gemme
e frutta. Come si chiama?, chiedono i fanciulli. La Fortuna!, erudisce la
mamma. Intorno al suo tempio sono fiorite le capanne dei devoti, che
periodicamente le portano in dono i frutti della terra, sino a formare un
piccolo agglomerato che prenderà il nome di Fanum Fortunae, il tempio agreste
sacro alla Dea Fortuna.
E se ci spostassimo a valle ? - sogna il cartaginese -
dove la terra è più fertile e facile da coltivare, ora che abbiamo più braccia
per lavorare e più bocche da sfamare? Certo,
anche i contatti sociali, con l’altra gente, compresi gli ex-cartaginesi ormai
stanziali, diverrebbero meno saltuari, si faciliterebbe l’aiuto reciproco. Perché
non provarci? Ma la pianura e l’ampia valle del Metauro stanno cambiando volto:
sono arrivati nuovi invasori da Roma, la
grande città in fondo alla Flaminia che sa far la voce del leone. E non solo la
voce. Il loro nuovo capo supremo, che chiamano Cesare, detto l’Augusto, ha
deciso di porre fine alle guerre congedando l’esercito e dividendo le fertili
terre conquistate nel corso degli anni in appezzamenti ben definiti, denominati
centurie, concedendole ai suoi veterani quale premio per le tante battaglie
sostenute, diciamo pure quale pensione. E’ un sistema utile a Roma per
allargare e consolidare il suo dominio. Per cui a Magone il cartaginese non
resterà che limitarsi al possesso della sua impervia collina. Ma da quassù vedo
il mare – si consola Magone – e il mare mi fa ricordare la mia antica patria
che forse non rivedrò più.
Sulla collina fra il tempio di Giove e il paese della
Fortuna alleverà i suoi figli e i figli dei figli, accrescendo la sua rissosa
ma placida famiglia gallico-africana. E su quella collina pianterà le querce, la
pianta mediterranea che ha imparato a conoscere e che sarà l’unico tesoro da
tutelare e lascerà in eredità ai suoi. Chi pianta querce crede nel futuro.
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