A
Marcus non gli va proprio di fare il contadino: i suoi avi hanno dissodato
tutta la terra che dall’Arzilla si spande sino al dirupo della Selva, dove
ormai dominano le querce, sottraendo spazio agli ornielli, ai giunchi, alle
acacie e alle erbe che si dicevano miracolose ma che nessuno più conosce. Ma
lui vuol farsi cavaliere. C’è il signore di Urbino, quella reso orbo da un
colpo di spada inflittogli dal nemico, che cerca uomini per le sue spedizioni guerresche.
Presso di lui potrà fare, ancora imberbe, il suo apprendistato, così quando il
signore della Rovere, la cui famiglia è succeduta a quella dell’orbo
condottiero, si preparerà per la grande battaglia di mare della Cristianità
contro la flotta dell’impero ottomano, potrà esserci anche lui a coprirsi di
gloria. Su una delle numerose navi che accorrono a Messina, dove convergono le
galere della Lega Santa, al comando di don Giovanni d’Austria, fratellastro di
Filippo II di Spagna. Per farla finita con i feroci pirati che assaltano le
terre cristiane per rapire uomini da vendere come schiavi sui mercati d’Oriente
e donne da sfruttare come concubine o
meretrici e quelle meno giovani come serve e massare. Basta con i turchi, ha
decretato Papa Pio V, e che a Lepanto sia la volta buona!
E
qui sulla scorta dei libri e, meglio ancora, di qualche film di pirati tornato
di moda negli ultimi anni, dovrei descrivere l’epica battaglia, gli stratagemmi
per isolare le ali della flotta ottomana, le manovre d’accerchiamento e poi i
furiosi cannoneggiamenti, gli arrembaggi, i corpo a corpo. Lascio il tutto all’immaginazione
del lettore. Alla fine della lunga battaglia il mare di Lepanto rosseggia di
sangue versato. Un carnaio, da nave a nave gli uomini duellano e si dilaniano. Si
ripete la sorte dell’antico condottiero di Cartagine: anche il cadavere di Alì
Pascià, caduto in battaglia, viene decapitato, ma stavolta esposto sull’albero
maestro dell’ammiraglia spagnola. I turchi non hanno scampo.
Marcus,
che fa parte del contingente di Francesco Maria II Della Rovere, Duca di Urbino,
aveva giurato ai suoi di strappare al nemico un’insegna ottomana per riportarla
in patria. Ma si verifica una sorta di caccia nella caccia, perché anche altri
suoi compagni d’arme hanno fatto lo stesso voto, decisi a conquistarsi un
guiderdone. Tutti a contendersi una bandiera musulmana. Vincerà l’assurda
disfida fra sodali un cocciuto cavaliere di Toscana che la bandiera turca se la
porterà nella sua Pisa. Peccato! Marcus avrebbe voluto appenderla al soffitto
della cattedrale del paese della sposa, accanto alle grandi ossa di un antico
dragone, che qualcuno dice trattarsi del femore di un elefante, perito in un’antica
battaglia di cui si è persa memoria. Quel paese ha preso il nome dal lavoro dei
suoi abitanti. Si chiama Orciano, il paese degli orci, alla sinistra del Metauro,
non lungi da Mondavio, dove c’è il castello inviolabile edificato da Francesco
di Giorgio, architetto senese, sede del vicariato retto da un vescovo a cui i
signori del ducato, per merito delle sue vittorie e della saggia
amministrazione, hanno concesso di usare il loro nome: Marcus Vigerio, ora divenuto
Della Rovere, Marcus come lui.
Anche
il cavaliere della Selva di Fano, è tornato a casa, ha visitato i suoi, si è
diffuso in racconti, gloriosi e terribili come una leggenda, ma è subito ripartito
in cerca di gloria. La troverà? Oppure il destino ha deciso altrimenti? Infatti
gli ha detto proprio male: sopravvissuto alla grande sfida del mare di Lepanto
fra cristiani e ottomani, il nostro Marcus ti andrà a cadere prigioniero
proprio dell’ultimo pirata saraceno che, nonostante la distruzione della grande
flotta turca, continua a navigare indisturbato compiendo atti di pirateria nei
piccoli centri delle nostre coste, saccheggiando e catturando prigionieri da
vendere come schiavi. Così il nostro Marcus, accorso per bloccare una “fusta”
di pirati che sta compiendo un’incursione su quella striscia di sabbia e di
mare chiamata Marotta - “mala rupta” - , stavolta ha la peggio e cade
prigioniero: è il colpo di coda della pirateria adriatica,
E
i saraceni lo portarono via. Si ritrovò in ceppi ad Algeri, accanto a tanti
altri prigionieri, strappati dalle terre rivierasche. C’erano calabri, sardi,
pugliesi, catalani, spagnoli, pronti per essere venduti sui proficui mercati
d’Oriente.
Con
un compagno di sventura il nostro Marcus si trova in particolare sintonia, uno spagnolo un po’ sognatore come lui. A
sera, quando consumano il loro pasto - i carcerieri non avrebbero permesso che perdessero
le forze sino al giorno del mercato - i due si scambiano ricordi e fantasie.
Miguel, lo spagnolo, narra a Marcus di un bislacco cavaliere in guerra contro i
mulini a vento del potere e il gregge dell’ignoranza. Un cavalier dalla triste
figura che ama il suo paese, ha uno scudiero rubicondo e terragno, e venera una
villanella in cui vede la principessa delle fiabe. Se un giorno potrà tornare
in patria scriverà la storia di quel suo Don Chisciotte. Chissà che non piaccia
a qualcuno. E Marcus lo ricambia narrandogli a sua volta la avventure di
Guerrino detto il Meschino, altro cavaliere un po’ bislacco, alla perenne ricerca
delle sue fantomatiche origini reali, amico delle fate e dei folletti. Valgono queste
storie a far dimenticare ai due uomini la loro triste realtà di prigionieri in
catene?
A
Miguel Cervantes lo riscatteranno prima di subire l’onta del pubblico mercato,
lui e le sue fantasie. Ma a Marcus chi lo avrebbe mai riscattato? Non c’era
nessun nobile congiunto, a Fano e nella Marca, in grado di pagare la forte taglia. Nessuno si sarebbe mai fatto avanti per riscattarlo. Lo
rivenderanno schiavo sui mercati d’Oriente, insieme ad altri prigioni
altrettanto disgraziati.
E qui mi sarebbe necessario usufruire di un
supplemento d’invenzione. Immaginiamoci il seguito: Marcus è forte, abile nelle
armi, sarebbe sprecato impiegarlo come uomo di fatica, agricoltore o servo di
casa, meglio lanciarlo sul mercato come adattissimo a fare lo scudiero, o anche
la guardia del corpo, una volta che l’acquirente riuscisse a conquistarsi la
sua fiducia, magari obtorto collo. E andrà proprio così: venduto a uno sceicco
di Algeri, di quelli potenti ma anche magnanimi, Marcus si piegherà - col tempo
e con la paglia - alla nuova situazione. Voleva diventare un cavaliere. A
servizio dello sceicco Alì riuscirà a diventarlo. Lo servirà fedelmente per
molti e molti anni. Ritornerà mai in
patria? Forse un giorno, vecchio cadente, con la lunga barba bianca e i capelli racchiusi in un turbante, tale e
quale a un saraceno.
Dissolvenza e lo ritroviamo a Fano. Un vecchio un po’
strano, forse diventato matto per quante ne ha viste e subite nel corso della
vita. Come è riuscito a liberarsi, come ha fatto a ritrovare la via di casa?
Chi l’ha traghettato sulla costa italiana dopo una vita passata in onorata schiavitù?
Ormai vecchio, inabile a ogni tipo di lavoro, dopo la morte del suo principale
a cui era ormai affezionato, gli eredi hanno approfittato dell’ennesima
incursione piratesca per scaricarlo ad Otranto, proprio su quella costa salentina
già teatro del più grande eccidio compiuto dai saraceni nella loro non troppo
onorata carriera di banditi: il massacro di ottocentotredici cristiani renitenti
a convertirsi all’Islam. Dalla costa di Puglia, vivendo di scarse elemosine e
di frutta rubate in campagna, Marcus, ormai divenuto Alì, risale verso la
costa, seguendo la linea del mare, alla ricerca di siti conosciuti ma forse ormai
dimenticati. Giunge alla Mala-rupta dove è iniziato il suo disperato destino, e
da lì gli è poi facile ritrovare la strada di casa. Alla Selva i suoi non ci
sono più: sua madre è morta dal dolore dopo il suo rapimento – gli raccontano –
tanti e tanti anni fa, dei suoi fratelli il minore lavora ancora a Fano in un
opificio mentre le sorelle hanno formato famiglia altrove. Il vecchio dal
turbante non saprebbe più rintracciarle né saprebbe più riconoscerle. Dove sono
andate a vivere? Avranno a loro volta figli e nipoti? Marcus-Alì vorrebbe
fermarsi nella vecchia casa dei suoi, alla Selva, ora abitata da gente che non
conosce eppure disposta a offrirgli generosa ospitalità. Ma quel vecchio
saraceno vestito alla turca, che del dialetto fanese ricorda solo poche parole,
che prega più volte al giorno chino su un ridicolo tappetino, sarebbe un
estraneo. Meglio ripartire, cercare un rifugio nelle campagne vicine, forse a
Sant’Andrea, dove i fanesi benestanti hanno edificato le loro ville suburbane,
o più in alto, a Novilara, la “nobile aria”, come dicono i suoi abitanti. Da
quelle alture – quasi dei colli che non ce l’hanno fatto a diventare dei monti
– il vecchio saraceno può ancora riuscire a vedere la Selva dei suoi, la terra natale.
Ed è come fosse tornato o forse mai partito.
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