La Selva si è arricchita di erbe nobili dalle virtù
curative, ma anche di alberi e cespugli selvaggi che la rendono impervia. Nei
recessi di quello scosceso dirupo, nelle sue cavità, si profilano antri
nascosti, rifugi per le belve, inaccessibili agli uomini. Dal monte Catria e
dal Nerone sono discesi i lupi, che aggrediscono le piccole greggi dei
contadini-pastori, ma anche gli orsi e i cinghiali che distruggono le povere
coltivazioni dei campi dissodati con tanta fatica, e poi le donnole, le faine,
le volpi che attaccano i pollai. E in
cielo plana la poiana, pronta a piombare giù e ghermire un pulcino
allontanatosi da mamma chioccia in cerca di avventure. Nelle acque torbide del torrente Arzilla,
sotto i bordi erbosi, i lucci, i coregoni e le anguille hanno nascosto la loro
prole per sottrarla agli agguati dell’idra ingorda, in grado di ingoiare tutta
intera una pecora sfuggita al gregge, mentre più a valle, nelle ultime paludi
non ancora prosciugate dal sole e dal lavoro degli uomini, si cela sotto la
melma l’ultimo drago, in attesa del cavaliere errante che lo trafigga con la
sua lancia. Ma nell’antro più segreto della Selva – dicono le voci – si è
istallata una strega. E’ una strana creatura, di cui si ignora l’origine, rossa
di capelli e con la pelle bianca come il latte, forse figlia o discendente di
quei barbari invasori venuti dal nord che, in passato, distrussero gli antichi
palazzi creati dal popolo dei romani – templi, teatri, archi, terme, basiliche
– uccidendo gli uomini e facendo razzia di fanciulle da violare. Attraverso il
gioco imprevedibile delle generazioni, discende da loro quella strana selvaggia
bianco-latte? Nata da una violenza carnale, cresciuta da sola, nutrita da una capretta
smarritasi come lei? E se fosse la figlia di un demoniaco connubio fra una
rossa volpe e un candido unicorno? Per questo la sua carnagione è così bianca e
il suo viso così pallido? Voci, leggende, dicerie. Nessuna l’ha vista arrivare
e prender possesso di quell’antro.
Ma un giorno un irsuto contadino, inoltrandosi fra i
fitti cespugli che rendono impervie le rive dell’Arzilla, la scorge mentre,
nuda come Dio o il demonio l’hanno partorita, cerca di trovar refrigerio fra le
acque che in quel punto formano una piccola gora, divisa dal corso naturale del
torrente grazie a due grandi massi che la mettono al sicuro dall’orrenda idra
di cui narrano le voci, anche se nessuno è mai riuscito a scorgerla.
La lunga chioma colore del fuoco che le scende sulle
spalle non riesce a celarne i seni turgidi e neppure il suo fiore segreto del
suo ventre. Forse la fanciulla sta cantando, una nota triste, tenuta a lungo,
evocatrice di un mondo segreto. Gli uccelli incrociano i loro canti d’amore fra
i pioppi. gli ornielli e le siepi di biancospino. A pelo d’acqua volano le
libellule multicolori con un tenace e sibilante frullio di ali. Se fosse
presente uno di quei trovatori usi a celebrare la bellezza femminile e gli
incanti della natura con una ballata, un madrigale, un bisticcio e magari uno
strambotto licenzioso per sollazzare le dame entro le stanze di un castello, la
scena diverrebbe il soggetto per un gentile arazzo o per una dolce poesia. Ma
il mondo è crudele e la vergine ignuda nulla sa di corti e di poesia.
Ecco, ora sono costretto a spezzare l’incanto per
narrare una scena brutale, di quelle che mettono in difficoltà il più
smaliziato degli scrittori. Immaginate. Il bruto che ha spiato la meravigliosa
e casta nudità irrompe sulla breve riva sabbiosa di quel selvaggio corso
d’acqua, si avventa sulla fanciulla che inspiegabilmente non si ritrae, non sembra
temerlo, quasi ritenendo impossibile che qualcuno voglia farle del male. L’uomo
l’abbranca, la distende sulla sabbia
liberandosi dalle rozze brache di panno, spinge il suo grosso turgido
sesso a violarne l’imene celato da una nuvola di gentile peluria rossiccia, la
penetra con violenza facendola gemere e lasciandola prostrata, con l’inguine
sanguinante. La fanciulla ha provato subitaneo dolore ma più ancora
sbigottimento per un gesto di cui non sa nulla e che non riesce a comprendere. Ha
scoperto il sesso nel modo più cruento e bestiale. Il dolore provato per un
istante, la brutalità di quell’abbranco, la bocca dell’uomo a ricercare ansioso
i capezzoli del suo seno, ad abbrancarne i
glutei rotondi. Ma consumata la violenza, l’ardore dell’uomo si è subito
spento, quasi lei lo avesse privato di ogni forza e ogni volontà di farle del
male. Non sapeva e non avrebbe mai nemmeno immaginato di possedere il potere di
placare quell’uomo già feroce rendendolo, dopo quel gesto brutale, un essere
docile, sereno, quasi ilare. Come una subitanea illuminazione: quindi c’era in
lei la potenza di placare la rabbia, di donare la gioia, di trasformare un
vincitore in un vinto, solo per aver accolto nel suo grembo quel bianco seme,
appiccicoso come la resina che scende dalle piante a primavera? Ecco: se ogni
esistenza ha un perché, questo poteva essere il suo perché, la sua missione:
rendere docile la violenza, spegnere la rabbia, placare il desiderio. Il suo
corpo, la gemma nascosta fra le sue cosce come un magico talismano in suo
possesso. La ragazza dai capelli rossi
ne rimase soggiogata, intuì di poter affermarsi e vincere solo donando all’uomo
- e perché non a quanti più uomini? - quel suo corpo di cui ignorava il potere.
E la voce si diffonde con riserbo: sulle rive dell’Arzilla
c’è una ragazza che non teme di mostrarsi nuda, una ragazza bianca come il
latte e con i capelli rossi come il fuoco, forse la figlia della volpe e
dell’ippocampo. E’ una bagassa che non vuole denaro né regalie ma sodi
batocchi. Basta seguirla sino al suo antro nel cuore della Selva e lei sarà
felice di darsi a te, di concedersi senza chiederti nulla, né l’obolo di un
denaro né un dono come un pane o una fiasca di vino. Lei stessa un dono
inaspettato e insperato. Contadini, villici, servi di maniscalchi, ma anche
artigiani, scalpellini, muratori, uomini di bottega, soldati di ronda hanno
imparato a salire le asperità di quel colle per visitare la ragazza dai capelli
rossi e dalla pelle candida e lei continua a darsi a tutti, come un sacrificio
inevitabile, una generosa immolazione, e insieme con la soddisfazione di
riuscire a dar gioia a quegli uomini feroci o magari pavidi o magari selvaggi. Ogni
giorno più selvaggia lei stessa, una lupa ignuda che sembra aggirarsi alla
ricerca di sempre nuovi maschi che possano giacere con lei e a cui dare la
pace.
Ma qui comincia la seconda parte della nostra storia.
Prima o poi dovevano venire a scoprirlo anche le donne il mistero di quelle
fughe segrete dei loro uomini, la diserzione dei talami nuziali, il disamore
dei giovinastri fannulloni per le pie disponibili zitelle. Era stato il
parroco, in un accesso di pentimento, a svelare alla più coriacea delle beghine
la sua colpa di uomo di Dio, anche lui divenuto preda di quella generosa
profferta d’amore. Prima o poi le altre donne appresero la storia della perversa
rossa che adescava i loro uomini, soddisfaceva i vecchi, erudita i fanciulli e
metteva in tentazione anche i preti. E poi in paese si conosceva la storia dei
figli della Madonna, cioè dei piccoli illegittimi che mani segrete affidavano
con frequenza quasi annuale alla ruota del convento delle suore benedettine.
Figli rigettati da una madre ignota o da un padre renitente. La strega! Nessuno
l’aveva mai vista in Chiesa, neppure nei giorni sacri del Natale, della Pasqua,
del Corpus Domini. E si diceva che nel cuore della Selva la misteriosa creatura
andasse in cerca di erbe strane, malefiche, per combinare unguenti nefasti
e intrugli d’amore, capaci di spingere
alla passione i più renitenti e devoti. Chi avrebbe punito la strega rossa, chi
avrebbe avuto il coraggio di additarla alla pubblica esecrazione? Lei che
distraeva gli uomini dalle pratiche
religiose e ignorava non solo Dio e la Vergine ma anche i tre santi patroni
effigiati sul Palazzo della piazza: Paterniano, Fortunato ed Eusebio? Una
strega in grado di far morire i lattanti nella culla, di bloccare le piogge
salutari e far morire le messi nei campi o, al contrario, di favorire gli
uragani. Lei, amica dei serpenti e dei rospi che la seguivano docili nel suo
rifugio.
Si mosse il Vescovo dalla sua sede avita nella
Cattedrale di Fano, protestando col Bargello perché facesse giustizia. Si mosse
persino il frate inquisitore dal lontano Convento della Fonte Avellana. Braccarla,
non darle scampo, trarla in arresto, segregarla, ispezionare il suo covo divenuto
lupanare, metterla ai ceppi, rasarla nel corpo per individuare il marchio del
diavolo, documentare i rapporti carnali con Satana, se necessario sottoporla a
tortura al fine di ottenere la sua piena confessione.
Reagì alle accuse? Cosa poteva saperne lei di eresia e
di colpe, come fare a difendersi da quegli aguzzini molti dei quali aveva
accolto nell’alcova segreto del suo bosco? La sottoposero a tortura, le
intimarono abiure? Ma abiurare cosa, accusare chi? Fu condannata al rogo.
Bruciarla come rituale di purificazione, a impedire che potesse tornare dal regno dei morti. Fu posta al rogo nella
pubblica piazza, a perenne monito del popolo devoto, nel luogo oggi
contrassegnato da una stella di pietra. E nella Selva oscura la Lonza
“leggiadra e presta molto” con le altre belve – il liocorno, la volpe, il
tasso, il serpente, il drago - rimasero inutilmente in attesa. Venne la bora e
disperse le sue ceneri. Trascorsero i
secoli. Oggi di quell’antica storia è rimasto solo l’immotivato timore,
soprattutto da parte dei fanciulli, di calpestare la stella di pietra che
scandisce il pavimento della loro antica piazza
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