Questa mia nuova storia potrebbe riguardare Antonello,
il giovane signore feudale che regge il castello di Carignano, a pochi
chilometri dalla Selva, e che, dal suo feudo, domina e amministra un territorio
fatto di colline e brevi pianure dove scorre un torrentello chiamato l’Arzilla.
I suoi uomini, fittavoli, contadini, maniscalchi e soldati adibiti alla difesa
e all’offesa, li ha tratti dai dintorni, talvolta reclutandoli con la
prospettiva di un salario. Come è avvenuto nel caso di Remigio, uno dei
ragazzoni della famiglia che coltiva i campi della Selva. Ne ha fatto un paggio
fedele, ponendolo alla guida del piccolo gruppo di facinorosi e indomiti
campagnoli a formare l’irrequieta forza d’assalto con la quale l’ambizioso nobile
vorrebbe muovere addirittura alla conquista della città prossima alle sue terre,
Fano della Fortuna, dove domina invece la famiglia Del Cassero, una schiatta
spuria scesa dal Nord. Le scaramucce fra i rustici abitanti del contado, signoreggiati
dalla fiera arroganza di Antonello, e il plotone di mercenari che Guido, ultimo
rampollo dei Del Cassero, ha formato a difesa della città, sono troppo
frequenti e mettono a repentaglio l’incolumità della gente per bene, che
coltiva la terra o si dedica a indispensabili servizi. I fanesi fanno razzia
dei prodotti dei campi, coltivati con pazienza e fatica, e rubano gli animali
da pollaio allevati con sacrificio. Ma non solo: approfittano dei rozzi ingenui
contadini ogni qualvolta uno di essi deve scendere in paese per procurarsi un
attrezzo da lavoro, una zappa, una vanga, o farsi ferrare un cavallo. Per la
legge del contrappasso, nottetempo i carignanesi forzano le porte di Fano,
scavalcano le mura, individuano le postierle, malmenano i guardiani.
Un’incursione, una rapina e, quando i pigri mercenari del comune si svegliano,
il danno è fatto. Non resta loro che predisporre l’ennesima razzia verso il
paese dell’odiato rivale. Al Papa di Roma, erede legittimo delle terre dell’impero
romano per grazioso lascito di Costantino, giungono continue rimostranze dagli
offesi di ambo le parti, avvalorate dalle diffide e dalle proteste di alcuni
ricchi pretonzoli che sono i primi a farne le spese, come i frati del convento
di Brettino, posto a mezza strada fra Carignano e Fano. Si escogita una
soluzione, imposta dai sani consigli del messo papale. La solita: cari sudditi,
datevi da fare! Trovate due nobili maritabili, uno per parte di sesso diverso,
e fateli sposare. Una bella festa, una sbornia generale e tutto a posto!
Propria in quei giorni, un poeta transumante da corte
a corte, cioè un trovatore, ha raccontato in giro la triste historia di un
romanzo d’amore finito male, facendo versare fiumi di lacrime ad ogni anima
assetata di poesia. La storia, narrabile anche in forma di ballata, è
pressappoco questa: in quel di Verona, due nobili famiglie – Capuleti e
Montecchi - sono in lotta fra loro per il dominio della città, non si possono
proprio sopportare, si fanno i dispetti, si contendono gli appalti, fanno man
bassa di pubblici uffici. Ma i giovani virgulti delle due famiglie ferocemente rivali,
Romeo dei Montecchi e Giulietta dei Capuleti, incontratisi per caso in una
festa – potremmo dire un’antenata della discoteca - si sono perdutamente
innamorati fra loro, violando tutte le regole del sano antagonismo locale. A
complicare le cose ci si mette di mezzo un frate: Sai, che facciamo? – suggerisce
alla pia Giulietta – Approfittando del fatto che Romeo è fuori città perché momentaneamente
al bando, io ti ammannisco un cocktail-beverone che ti farà cadere finta morta.
Stai tranquilla: di droghe me ne intendo. Così, i tuoi si daranno una calmata e
tu, quatta quatta, ti svegli e te ne vai da Verona per raggiungere il tuo innamorato. Ma quel
facilone di un frate si scorda di informare il giovane Romeo della sua bella
trovata. Quello torna in città di soppiatto, trova l’amata Giulietta sul
catafalco, defunta e col rosario fra le mani e la coroncina in testa, e straziato dal dolore, cava il pugnale dal
fodero e, detto fatto, si trafigge al cuore. Nuovo e definitivo colpo di scena:
la finta morticina si sveglia dal torpore, scorge il suo Romeo schiattato in un
lago di sangue, gli estrae il pugnale dal costato e lo segue a ruota nel regno
di Persefone. Finale da tragedia shakespeariana? No, perché ecco la felice (?) morale
della triste historia: le due rissose famiglie, sentendosi responsabili per
quanto accaduto, pentite anzi pentitissime, faranno pace giurandosi eterna
amicizia. E il trovatore termina la ballata con una strimpellata di chitarra mentre
piovono lacrime dai volti delle dame di corte nonché del popolino che, nei
giorni di mercato, accorre nella piazza di Fano.
Massacro a parte, la vicenda sembrava offrire un
monito e una soluzione alla contesa fra le due famiglie più agguerrite e
violente del contado fanese. Ci si mise di mezzo il vescovo per combinare in
tutta fretta le nozze fra una fanciulla disponibile in quel di Carignano e un giovane
fanese. Affare fatto. C’era solo una difficoltà: la Giulietta di Carignano era
una grassa vedova piuttosto attempatella mentre il Romeo di Fano era a malapena
emerso dalla pubertà e, in più, correva voce che avesse più inclinazione verso i
prestanti cavalieri che per le leggiadre donzelle, Dettagli superabili, e il
Vescovo in pompa magna celebrò le nozze che avrebbero sancito la pace perenne,
Così allo stesso tavolo nuziale convennero il fiero Angiolello da Carignano e
il sussiegoso Guido Del Cassero.
Il pranzo nuziale fu micidiale, registrato negli
annali della città con annesse quattro pagine di menù. La tavola imbandita
occupava tutta la Piazza e le portate si succedevano con assillante crescendo,
rossiniano ante-litteram. Dalle rustiche cucine di Carignano arrivarono
porcellini interi con la mela in bocca, agnelli, vitelli e vitelloni, e poi
galline, gallinacci, faraone, nonché una ricca cacciagione selvatica di
colombacci, fagiani e lepri e cinghialetti. Dolci a profusione, forniti dai
migliori e più creativi dolciari della città della Fortuna che si erano
addirittura sbizzarriti: dolci a forma di Palazzo comitale, della Cattedrale,
dell’immancabile Arco di Augusto, del Porto con le caravelle di marzapane e la
lanterna di zucchero filato. I migliori vini, bianchi, rossi, passiti,
digestivi e grappe assortite. La grassa sposa fece talmente onore al banchetto che
cadde alla ventiduesima portata priva di sensi: sorretta da quattro robusti
donzelli fu trasportata ipso facto alla residenza nuziale, mentre lo sposetto,
attentissimo alla linea, si limitava a spiluccare e spandere sorrisi. E per la
fausta occasione il solito trovatore di passaggio, improvvisatosi copyright,
ideò un motto nella lingua dei sapienti: “ex concordia felicitas”, quel motto
che adorna ancor oggi lo stemma del comune di Fano, dove il rosso dei focosi
carignanesi s’incrocia e si sposa con il bianco dei finto-pacifici fanesi.
Ma nel frattempo in Italia, fatto non insolito, le
cose mutavano. Nella regione adriatica stava prendendo piede una nuova
facinorosa schiatta, che aveva scolpita nel proprio stemma la testa di un
elefante: che fosse originaria da quegli antichi cartaginesi dispersi qua e là?
Sceso dal fiero Montefeltro, il patriarca dei Malatesti, un signore orbo ma dai
modi apparentemente melliflui e concilianti, aveva espresso la volontà di
pacificare l’intero territorio a sud di Rimini chiamandone a consesso tutti i
più nobili e potenti rappresentanti. Tutti invitati, più che convocati, a un
grande convegno di pace nella grande sala vescovile, presso un luogo di pescatori
chiamata la Cattolica. Vi aderirono tutti, e naturalmente accorse anche
Angiolello accompagnato dal fido Remigio della Selva, e accorse Guido con il gonfaloniere
di Fano, e accorsero tanti altri signorotti pari grado. Tutti riuniti attorno a
un tavolo per rinnovare i fasti dei Cavalieri di Re Artù. La storia ci dice
come andò a finire, e ce lo attesta anche il fedele cronista Dante Alighieri che
all’episodio ha dedicato tre o quattro versi, ma dei suoi, di quelli immortali.
A un certo segnale gli scherani di Malatestino dall’Occhio, signore di Rimini, quel
“traditor che vede pur con l’uno”, serrarono le porte e irruppero facendo
strage a colpi di mazza dei più o meno pacifici convenuti. Secondo un’altra
versione catturarono i due fanesi durante il viaggio di ritorno in patria e li
chiusero in sacchi piombati per gettarli in mare dalla rupe di Fiorenzuola, a
sud di Cattolica, a macerarsi. Usando il termine “mazzerati”, il buon Dante ci
lascia nel dubbio. In entrambe le ipotesi il Malatesta risolse la questione
senza decreti, conciliaboli e convenzioni. Ma il fido Remigio riuscì fortunosamente
a sfuggire all’agguato e poté correre a diffondere la turpe notizia nei paesi del
fanese, anche se, per paura di
rappresaglie, gli convenne rifugiarsi alla Selva e non muoversi di lì.
Frattanto al giovane lezioso sposo fanese, che a suo
tempo aveva contribuito alla pace sacrificando le sue predilezioni carnali, non
restò altro che arrendersi agli appetiti della sua robusta stagionata matrona carignanese, che peraltro fu
in grado di scodellargli una nutrita
figliolanza. E il motto rimase: Ex concordia felicitas, dalla concordia la
felicità. Almeno per chi si accontenta.
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