martedì 12 maggio 2020

STORIE DELLA SELVA - punt.5, Antonello



Questa mia nuova storia potrebbe riguardare Antonello, il giovane signore feudale che regge il castello di Carignano, a pochi chilometri dalla Selva, e che, dal suo feudo, domina e amministra un territorio fatto di colline e brevi pianure dove scorre un torrentello chiamato l’Arzilla. I suoi uomini, fittavoli, contadini, maniscalchi e soldati adibiti alla difesa e all’offesa, li ha tratti dai dintorni, talvolta reclutandoli con la prospettiva di un salario. Come è avvenuto nel caso di Remigio, uno dei ragazzoni della famiglia che coltiva i campi della Selva. Ne ha fatto un paggio fedele, ponendolo alla guida del piccolo gruppo di facinorosi e indomiti campagnoli a formare l’irrequieta forza d’assalto con la quale l’ambizioso nobile vorrebbe muovere addirittura alla conquista della città prossima alle sue terre, Fano della Fortuna, dove domina invece la famiglia Del Cassero, una schiatta spuria scesa dal Nord. Le scaramucce fra i rustici abitanti del contado, signoreggiati dalla fiera arroganza di Antonello, e il plotone di mercenari che Guido, ultimo rampollo dei Del Cassero, ha formato a difesa della città, sono troppo frequenti e mettono a repentaglio l’incolumità della gente per bene, che coltiva la terra o si dedica a indispensabili servizi. I fanesi fanno razzia dei prodotti dei campi, coltivati con pazienza e fatica, e rubano gli animali da pollaio allevati con sacrificio. Ma non solo: approfittano dei rozzi ingenui contadini ogni qualvolta uno di essi deve scendere in paese per procurarsi un attrezzo da lavoro, una zappa, una vanga, o farsi ferrare un cavallo. Per la legge del contrappasso, nottetempo i carignanesi forzano le porte di Fano, scavalcano le mura, individuano le postierle, malmenano i guardiani. Un’incursione, una rapina e, quando i pigri mercenari del comune si svegliano, il danno è fatto. Non resta loro che predisporre l’ennesima razzia verso il paese dell’odiato rivale. Al Papa di Roma, erede legittimo delle terre dell’impero romano per grazioso lascito di Costantino, giungono continue rimostranze dagli offesi di ambo le parti, avvalorate dalle diffide e dalle proteste di alcuni ricchi pretonzoli che sono i primi a farne le spese, come i frati del convento di Brettino, posto a mezza strada fra Carignano e Fano. Si escogita una soluzione, imposta dai sani consigli del messo papale. La solita: cari sudditi, datevi da fare! Trovate due nobili maritabili, uno per parte di sesso diverso, e fateli sposare. Una bella festa, una sbornia generale e tutto a posto!
Propria in quei giorni, un poeta transumante da corte a corte, cioè un trovatore, ha raccontato in giro la triste historia di un romanzo d’amore finito male, facendo versare fiumi di lacrime ad ogni anima assetata di poesia. La storia, narrabile anche in forma di ballata, è pressappoco questa: in quel di Verona, due nobili famiglie – Capuleti e Montecchi - sono in lotta fra loro per il dominio della città, non si possono proprio sopportare, si fanno i dispetti, si contendono gli appalti, fanno man bassa di pubblici uffici. Ma i giovani virgulti delle due famiglie ferocemente rivali, Romeo dei Montecchi e Giulietta dei Capuleti, incontratisi per caso in una festa – potremmo dire un’antenata della discoteca - si sono perdutamente innamorati fra loro, violando tutte le regole del sano antagonismo locale. A complicare le cose ci si mette di mezzo un frate: Sai, che facciamo? – suggerisce alla pia Giulietta – Approfittando del fatto che Romeo è fuori città perché momentaneamente al bando, io ti ammannisco un cocktail-beverone che ti farà cadere finta morta. Stai tranquilla: di droghe me ne intendo. Così, i tuoi si daranno una calmata e tu, quatta quatta, ti svegli e te ne vai da Verona  per raggiungere il tuo innamorato. Ma quel facilone di un frate si scorda di informare il giovane Romeo della sua bella trovata. Quello torna in città di soppiatto, trova l’amata Giulietta sul catafalco, defunta e col rosario fra le mani e la coroncina in testa,  e  straziato dal dolore, cava il pugnale dal fodero e, detto fatto, si trafigge al cuore. Nuovo e definitivo colpo di scena: la finta morticina si sveglia dal torpore, scorge il suo Romeo schiattato in un lago di sangue, gli estrae il pugnale dal costato e lo segue a ruota nel regno di Persefone. Finale da tragedia shakespeariana? No, perché ecco la felice (?) morale della triste historia: le due rissose famiglie, sentendosi responsabili per quanto accaduto, pentite anzi pentitissime, faranno pace giurandosi eterna amicizia. E il trovatore termina la ballata con una strimpellata di chitarra mentre piovono lacrime dai volti delle dame di corte nonché del popolino che, nei giorni di mercato, accorre nella piazza di Fano.
Massacro a parte, la vicenda sembrava offrire un monito e una soluzione alla contesa fra le due famiglie più agguerrite e violente del contado fanese. Ci si mise di mezzo il vescovo per combinare in tutta fretta le nozze fra una fanciulla disponibile in quel di Carignano e un giovane fanese. Affare fatto. C’era solo una difficoltà: la Giulietta di Carignano era una grassa vedova piuttosto attempatella mentre il Romeo di Fano era a malapena emerso dalla pubertà e, in più, correva voce che avesse più inclinazione verso i prestanti cavalieri che per le leggiadre donzelle, Dettagli superabili, e il Vescovo in pompa magna celebrò le nozze che avrebbero sancito la pace perenne, Così allo stesso tavolo nuziale convennero il fiero Angiolello da Carignano e il sussiegoso Guido Del Cassero.
Il pranzo nuziale fu micidiale, registrato negli annali della città con annesse quattro pagine di menù. La tavola imbandita occupava tutta la Piazza e le portate si succedevano con assillante crescendo, rossiniano ante-litteram. Dalle rustiche cucine di Carignano arrivarono porcellini interi con la mela in bocca, agnelli, vitelli e vitelloni, e poi galline, gallinacci, faraone, nonché una ricca cacciagione selvatica di colombacci, fagiani e lepri e cinghialetti. Dolci a profusione, forniti dai migliori e più creativi dolciari della città della Fortuna che si erano addirittura sbizzarriti: dolci a forma di Palazzo comitale, della Cattedrale, dell’immancabile Arco di Augusto, del Porto con le caravelle di marzapane e la lanterna di zucchero filato. I migliori vini, bianchi, rossi, passiti, digestivi e grappe assortite. La grassa sposa fece talmente onore al banchetto che cadde alla ventiduesima portata priva di sensi: sorretta da quattro robusti donzelli fu trasportata ipso facto alla residenza nuziale, mentre lo sposetto, attentissimo alla linea, si limitava a spiluccare e spandere sorrisi. E per la fausta occasione il solito trovatore di passaggio, improvvisatosi copyright, ideò un motto nella lingua dei sapienti: “ex concordia felicitas”, quel motto che adorna ancor oggi lo stemma del comune di Fano, dove il rosso dei focosi carignanesi s’incrocia e si sposa con il bianco dei finto-pacifici fanesi.

Ma nel frattempo in Italia, fatto non insolito, le cose mutavano. Nella regione adriatica stava prendendo piede una nuova facinorosa schiatta, che aveva scolpita nel proprio stemma la testa di un elefante: che fosse originaria da quegli antichi cartaginesi dispersi qua e là? Sceso dal fiero Montefeltro, il patriarca dei Malatesti, un signore orbo ma dai modi apparentemente melliflui e concilianti, aveva espresso la volontà di pacificare l’intero territorio a sud di Rimini chiamandone a consesso tutti i più nobili e potenti rappresentanti. Tutti invitati, più che convocati, a un grande convegno di pace nella grande sala vescovile, presso un luogo di pescatori chiamata la Cattolica. Vi aderirono tutti, e naturalmente accorse anche Angiolello accompagnato dal fido Remigio della Selva, e accorse Guido con il gonfaloniere di Fano, e accorsero tanti altri signorotti pari grado. Tutti riuniti attorno a un tavolo per rinnovare i fasti dei Cavalieri di Re Artù. La storia ci dice come andò a finire, e ce lo attesta anche il fedele cronista Dante Alighieri che all’episodio ha dedicato tre o quattro versi, ma dei suoi, di quelli immortali. A un certo segnale gli scherani di Malatestino dall’Occhio, signore di Rimini, quel “traditor che vede pur con l’uno”, serrarono le porte e irruppero facendo strage a colpi di mazza dei più o meno pacifici convenuti. Secondo un’altra versione catturarono i due fanesi durante il viaggio di ritorno in patria e li chiusero in sacchi piombati per gettarli in mare dalla rupe di Fiorenzuola, a sud di Cattolica, a macerarsi. Usando il termine “mazzerati”, il buon Dante ci lascia nel dubbio. In entrambe le ipotesi il Malatesta risolse la questione senza decreti, conciliaboli e convenzioni. Ma il fido Remigio riuscì fortunosamente a sfuggire all’agguato e poté correre a diffondere la turpe notizia nei paesi del fanese, anche se,  per paura di rappresaglie, gli convenne rifugiarsi alla Selva e non muoversi di lì.
Frattanto al giovane lezioso sposo fanese, che a suo tempo aveva contribuito alla pace sacrificando le sue predilezioni carnali, non restò altro che arrendersi agli appetiti della sua robusta  stagionata matrona carignanese, che peraltro fu in grado di  scodellargli una nutrita figliolanza. E il motto rimase: Ex concordia felicitas, dalla concordia la felicità. Almeno per chi si accontenta.

Nessun commento:

Posta un commento