No,
non gli andava bene quel governo del Papa-Re che rendeva tutti un po’ schiavi,
sia pur in modo benignamente soft, con minacce più che con rappresaglie
cruente. La polizia pontificia li aveva annotati da tempo nei loro libroni,
Evaristo e Domiziano Castellani, probabili massoni o comunque adepti a società
segrete – la Carboneria? la Giovine Italia? - che mirano alla sovversione ed
alla rimozione del legittimo Governo, Tutta colpa di quel Giuseppe Mazzini che
da Londra continua a far proseliti, invocando un nuovo assetto repubblicano per
tutta l’Italia. Repubblica? Italia? Quante panzane, e chi ci crede? Si parla di
uno strano rituale segreto, con giuramenti solenni, scambi di sangue, cerimonie
iniziatiche, sottoscrizioni di denaro e così via. I due fratelli fanesi erano
artigiani o forse – malignavano i gendarmi - campavano un po’ alle spalle di quel loro congiunto più
pacifico e remissivo – almeno all’apparenza, non lasciatevi ingannare! - che, alle dipendenze del nobile Pompilio De
Cuppis, si era fatta una discreta agiatezza, tanto da riuscir ad acquistare un
pezzo di terra nei dintorni, la meno appetita forse, perché occupata in buona
parte da quel bosco infruttuoso chiamato la Selva, buona tutt’al più per
cacciarci i colombacci durante i giorni del
“passo”.
Non
staremo a rifare la storia di quell’infocato 1848, con l’Europa e l’Italia in
ebollizione, i milanesi in rivolta, il Piemonte sul piede di guerra, il Mazzini
a capo transitorio di una piccola repubblica e inoltre quello strano figuro
arrivato dalle Americhe, con la barba rossiccia e i capelli lunghi sul collo
(si mormorava volesse nascondere le orecchie mozze, a punizione per i ladri di cavalli), mazziniano convinto
ma uomo di spada più che di penna, e soprattutto patriota incantatore e
trascinatore, vestito con l’immancabile rossa camicia portata dall’Argentina ed
esibita come una bandiera.
I
due fratelli Castellani mollarono il loro pacifico congiunto alla Selva e
corsero ad arruolarsi con Garibaldi che, assieme a un migliaio di uomini,
muoveva alla conquista del Sud d’Italia. Poi la storia che sappiamo. Garibaldi
incontra nei pressi di Teano, ai margini delle terre liberate, quel Re
altrettanto barbuto disceso da Torino con la seria intenzione di fare di una
terra, divisa fra tanti monarchi, un’Italia unita. E Garibaldi gli presta fede
e, sacrificando la vecchia fede mazziniana, offre a quel Re, su un ipotetico
piatto d’argento, quel suo Sud appena conquistato. Il sogno di molti patrioti,
fra cui i due fratelli fanesi, rivoluzionari, repubblicani e forse un po’
anarchici come nella cripto-tradizione familiare, sembra momentaneamente andato
in fumo. Ci rimangono male, ma i più intelligenti ritengono sia l’unica
soluzione praticabile per farla finita con i vecchi stati totalitari e
dispotici.
E
adesso? Garibaldi non pretende nulla per sé, gli basta un po’ di terra da
coltivare in riva al mar di Sardegna, su un’isoletta che lo separerà da tutto e da tutti. Continuerà a
progettare nuove imprese, come la conquista di Roma, da strappare al Papa per
donarla alla nuova Italia a cui si affida, pur con qualche titubanza. Il
vecchio garibaldinismo rivoluzionario e libertario non ha più ragione di
esistere ma “l’eroe dei due mondi” chiede garanzie e rispetto per gli uomini
che lo hanno seguito alla conquista di un regno. Che fai, Vittorio?, non me li
lascerai in brache di tela i miei uomini! Guarda che quelli sono cattivi,
potrebbero arrabbiarsi di brutto!
L’astuto
conte torinese che ha ispirato e guidato la machiavellica operazione offre,
come al solito, una soluzione spiccia: i garibaldini che si arrendono al nuovo
ordine potranno essere inseriti nell’esercito ex-piemontese. Li mandiamo nel
Sud, a metter giudizio alle bande di briganti più o meno borbonici.
E
i due eroi fanesi? Potrebbero essere annessi anche loro al nuovo esercito
italiano, con tanto di divisa con le spalline e gradi sul bavero? Domiziano
accetta ed Evaristo segue docile il fratello. Cosa ci sarebbe da fare per questa
nuova Italia? Elementare! Reprimere il banditismo che ha ripreso nuovo vigore,
specie nel Sud, dalla Terra di Lavoro alle Puglie, alla Sicilia. Il
brigantaggio fa paura, accoglie i reduci dei vecchi eserciti borbonici ma
soprattutto delinquenti, grassatori, banditi. Sono un flagello per i borghi e le
campagne, una scuola di violenza e sopraffazione. Ne sanno qualcosa i due fanesi, perché i
gendarmi pontifici – lo Stato della Chiesa non ancora scomparso – hanno di
recente fatto fuori un pericoloso brigante conosciuto come il Passatore, così
come cent’anni prima avevano fatto fuori un altro bandito pericoloso, Mason dla
Blona, nato a Montemaggiore, terrore del Montefeltro e della Legazione di
Ravenna. Per non parlare poi del brigantaggio nei dintorni di Roma, con i
viaggiatori e i devoti pellegrini costantemente depredati. Il brigante
Gasperone è finito in prigione ma quanti ce ne sono ancora in giro? Cosa di più
patriottico che prendersela con i briganti?
Domiziano
riceve un incarico importante: guidare le truppe ex-piemontesi nell’Alta Terra
di Lavoro dove imperversa la banda guidata da un terribile brigante, terribile
anche nel nome: Fuoco!, il piú scaltro, il più inafferrabile, il più spietato
dei briganti su piazza. Sulla sua testa si sono accumulate grosse taglie, ma
inutilmente. Un brigante, che, presso le popolazioni ignoranti, passa da eroe
della resistenza borbonica, di quei briganti che non sopportano il nuovo
padrone unitario ma vorrebbero risolvere i ben più gravi problemi della
giustizia, della fame, della povertà, dell’istruzione. Un bandito o un eroe? E
Domiziano un persecutore, un servo del nuovo ordine? Com’è difficile capirci qualcosa e
giudicare! Domiziano non perdona. Ha
ricevuto mandato di sgominare una Banda, che conta sino a centocinquanta
uomini, e riuscirà a sgominarla. Della sua epica impresa conserverà come
souvenir soltanto il cannocchiale del terribile capobanda. A suo tempo lo
porterà con sé a Fano. Ritiratosi a vita privata i compaesani gli tributeranno
i giusti onori, ma senza esagerare, come loro costume. Dimessosi dall’esercito,
povero pensionato statale, Domiziano si riunirà a suo fratello Egisto e anche
all’altro suo fratello, Remigio, che coltiva la Selva. Spesso va a trovarlo, ha
l’impressione che quella Selva, così intricata e lussureggiante, sia un po’
l’immagine delle sue indomite battaglie per un’Italia che, attraversando
cespugli e roveti non meno spinosi, sta dirigendosi stancamente verso il
futuro.
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