lunedì 18 maggio 2020

STORIE DELLA SELVA - punt,9, il marziano


Glielo avevamo insegnato a scuola, in una di quelle mattinate, algide come tutte quelle del suo pianeta, in cui a un marziano cosiddetto maggiore spettava il compito di dividere il suo sapere con un gruppo di marziani cosiddetti minori, che altrove si sarebbero chiamati bambini. Ma non avrebbe mai supposto che un bel giorno quelle disordinate indicazioni sarebbero servite a qualcosa: la Terra è un pianeta trascurabile, da qualche secolo svuotata da tutti i suoi ingombranti e pleonastici abitanti grazie al virus letale che ne fece piazza pulita. E invece adesso quelle indicazioni gli erano utilissime. Come aveva fatto a cadere proprio sul pianeta Terra, espulso dal solito disco volante della nettezza spaziale sul quale prestava servizio ormai da tempo? Caduto oppure cacciato? Ricordava molto bene come era avvenuta la sua messa al bando, per colpa propria o altrui? Ma già, il concetto di colpa ormai non esisteva più, faceva parte di quel vecchio armamentario  di moralità astratte, proprio di una civiltà ormai scomparsa nei meandri del passato. Fatto sta che ora si ritrovava sulla Terra, caduto in un viluppo intricato di tonalità verdi, insomma in mezzo a quel bosco, che sulla sua carta spaziale veniva indicato con il nome di Selva. E adesso che fare? Si mise a esplorare il terreno: tutta quella lussureggiante ma confusa sovrapposizione di verdi lo metteva a disagio, lo stordiva. Dalle  sue parti tutto era lindo, pettinato, i paesaggi si alternavano come scansioni di metallo di un uniforme colore grigio, inossidabile, intaccabile da agenti estranei, scansioni a cui attribuire vari nomi e mansioni, case, opifici, industrie, luoghi di svago o di riposo, fra le quali era facile muoversi e abitare. E qui tutto il contrario, un unico contesto verde di cui era prigioniero. Vinto il primo stordimento cercò di esaminare con più cura quello frastornante verde. E ad uno sguardo più attento riuscì via via a scoprirne le forme e soprattutto i colori.  Sì, c’erano varie screziate tonalità intorno a lui, tali da spezzare quell’apparente monotonia. I ciclamini lilla, piccoli e odorosi, si facevano largo fra le foglie morte di una precedente stagione. E c’erano le violette, piccole anch’esse e profumate. Se fosse stato più diligente a scuola forse avrebbe letto la fiaba di un certo Andersen che parlava dell’esistenza di fragili e gentili creature di sesso femminile adibite a porgere violette alle belle signore che frequentavano il teatro d’Opera nonché fiammiferi ai baffuti signori che le accompagnavano. Ma a lui erano sembrate storie assurde quanto inutili, relative a una civiltà estinta. Cerano gli azzurri myosotis, i “non ti scordar di me”, quasi microscopici, tali da confondersi con l’erba, c’erano le giunchiglie, gialle e carnose, le margherite dai sottili petali bianchi e il cuore rotondo di un giallo violento, c’erano i gigli selvatici con i loro calici rossicci picchiettati di marrone e i pistilli di un bruno provocante e i lilium dagli steli ammiccanti. E i fior di loto dalle corolle diafane e delicate. C’era la malva dalle foglie fantasiose e i fiori di un viola intenso, screziato, e c’era l’ortica, un tripudio di foglie rugose e crespe di cui non poteva temere il potere ustionante.  C’erano i cespuglietti spinosi di ginepro  gremiti di piccole bacche blu su cui la natura aveva inciso una sorta di sigla, e c’erano i pungitopo dalle bacche rosse e le foglie spinose, a farsi prepotentemente strada sul terreno. C’erano i rovi che avviluppavano erbe e sottobosco come invasori selvaggi, allungando le braccia spinose verdi-rossastre e c’erano i bianchi fiori di vitalba che nascevano sulle siepi accanto al torrente che scorreva a fondo valle. E c’erano gli ornielli, audaci contro le folate del vento, e i lecci che fiorivano in grappoli di effervescenze bianche, e le querce, possenti e malinconiche. E ai piedi del loro tronco nascevano i funghi come escrescenze fragili, dalle corolle appena toccate dal colore del bruno. Sì, aveva scoperto nuovi imprevedibili forme di vita e di colore. Quante? Mille, duemila? Ah, se avesse studiato la botanica nelle sue inutili lezioni spaziali, avrebbe saputo dare ad ogni pianta, ad ogni fiore, ad ogni erba e albero un nome, come aveva fatto quel certo Adamo nei giorni della creazione, secondo il racconto del più vecchio libro sacro mai esistito, la Bibbia. Se si fosse interessato maggiormente alla civiltà dell’unico pianeta che avesse diffuso nello spazio infinito le storie fantastiche del suo passato e del suo trapassato! Ma nel suo pianeta asettico e lontano le avevano sempre considerate ricerche leziose quanto inutili. A che mai potevano servirgli ? E invece…   Sì, in quella Selva avrebbe potuto vivere per sempre, senza timore d’incontrare anima viva, la vecchia popolazione umana scomparsa da secoli, ma anche tutti gli animali, gli invertebrati, gli insetti, anche quelli minuscoli. Nulla che potesse far paura o attentare alla vita di un essere come lui, alto appena cinque centimetri, secondo il vecchio metro decimale che sembrava ancora in vigore quale unico residuo di una cultura scomparsa. Sarebbe stato facile per lui trovar casa e rifugio in un formicaio lasciato vuoto, o in un covo di istrice, o di volpe, o di tasso. Nomi di bestie che aveva imparato a conoscere dai libri, come quelli di tanti altri animali scomparsi nelle notti del tempo, la fenice, l’idra, il drago, l’ippocampo, il centauro. O come le nere bisce d’acqua e quei piccoli draghi verdi che si chiamavano lucertole, e le rane, i ranocchi panciuti e osceni. O come gli uccelli, le rondini bianconere, i passeri, i pettirosso canterini, i tordi dal manto screziato, le gazze, gli upupa con le loro creste fiammeggianti, la poiana alta nel cielo. O come gli insetti, formiche, scarafaggi, vermi, zanzare, calabroni, api, vespe, farfalle, cicale, cerambici eccetera. Avrebbe potuto vivere in quella Selva per sempre, fra i colori delle piante e i profumi dei fiori. E poi chissà, forse un giorno avrebbe potuto incontrare un qualche essere sopravvissuto, magari uno solo, un bruco, una cavalletta, una libellula, una formica rossa. O forse qualcuno, nel suo mondo lontano, si sarebbe ricordato di lui e sarebbe tornare indietro, dalle infinita profondità spaziali, a riprenderselo e riportarlo fra gli altri suoi simili. Ma allora, in quel solo e improbabile caso, si sarebbe portato dietro una violetta, una sola, da far seccare in un libro digitale di mille grigie pagine metalliche. E forse un giorno suo figlio, trovandola sfogliando casualmente quel libro ormai desueto, si sarebbe chiesto perché. 

domenica 17 maggio 2020

STORIE DELLA SELVA - punt.8, L'uomo del tesoro


1944, anno di guerra. Oltre ai tedeschi che razziavano uova, galline e ricordi c’era dalle mie parti uno strano tipo. Lo chiamavano Tesoro, o meglio “l’uomo del tesoro”, perché si mormorava che quel suo aggirarsi per le campagne non avesse lo scopo dichiarato di cogliere erbe selvatiche, mandorle e noci prematuramente cadute fra le zolle o bacche nel bosco, bensì quello recondito di cercare tesori, pignatte colme di zecchini o cassette traboccanti marenghi, con l’aiuto di qualche spirito maligno se non addirittura del diavolo in persona.
In un momento di rimpianti, Tesoro aveva raccontato la sua storia a mia nonna. Ero presente anch’io, ma i bambini sotto il metro non contavano.
Sì, era vero, aveva studiato da prete e in quell’antico seminario il diavolo era di casa. Compariva a sera, all’ora della mensa frugale nel grande refettorio, confuso fra gli altri. Poi, quando un apprendista sacerdote cominciava a chiedersi chi fosse quello strano  chierico sconosciuto seduto là, in fondo alla tavolata, e gli sguardi correvano a verificare, ecco, il posto era vuoto. Solo un vago odore di zolfo, unito a un senso di trepidazione, a un indefinito timore. E al mattino dopo, qualche seminarista che aveva indugiato nelle tentazioni dello spirito o del vizio solitario trovava sul comodino un foglio: “ero io”. E quell’io sembrava vergato col sangue e col fuoco. 

Tesoro raccontava altre storie. Di contadini improvvisamente arricchiti che avevano trovato una fortuna ma perso per sempre la pace. Di luoghi dove non si poteva transitare di notte, perché le anime perdute stavano in agguato. Di casolari stregati e alberi maledetti.
In casa mia – raccontava, ma in segreto, quasi una pudica rivelazione a mia nonna – c’è una cassa. E’ una cassa molto grande: racchiude l’eredità per la mia prole. Diceva proprio prole, nel vecchio linguaggio curiale. In questa cassa ci sono chiusi tanti involti. Se mio figlio vorrà fare il falegname, tirerà fuori l’involto con su scritto falegname e ci troverà annotato tutto ciò che deve fare e sapere per dominare il legno. Se volesse diventare dottore cercherà il fagotto con le relative indicazioni. Così per ogni professione o mestiere che esista.
Ma se non volesse proprio lavorare, dovrà cercare il pacchetto più piccolo, sul fondo del baule. C’è scritto su: Tesoro. Racchiude le istruzioni per trovare ogni tesoro sepolto nei dintorni, ma senza irritare il diavolo né vendere l’anima.
E io fantasticavo di quel magico pacchettino, mi chiedevo perché l’uomo del tesoro non si fosse già messo alla ricerca di quelle ricchezze e fosse costretto a girare per le case coloniche elemosinando un bicchiere di vino e raccogliendo le poche mandorle e noci rimaste sul campo.
Quasi mi avesse letto nel pensiero, l’omino rispondeva: io no, non posso farlo, non chiedetemi il perché. Ma mio figlio, quando non ci sarò più, sarà libero di cercare. Uno dei tesori è anche qui, nel vostro bosco, dove un tempo c’era un piccolo convento di frati. Ma il punto esatto non ve lo posso dire.
Per mesi e mesi continuai a braccare da lontano l’uomo del tesoro per paura che, nonostante il divieto delle potenze superiori o inferiori, potesse rubare il tesoro del nostro bosco o nella speranza che un giorno o l’altro inavvertitamente si tradisse. E che fossi io a fare la scoperta: correte, ho trovato i ruderi dell’eremo, guardate i mattoni, è un muro antico!
Ma il nostro bosco non era così grande da poter celare il suo segreto ai cacciatori che attendevano ogni ottobre il passo delle palombe, ai contadini che tagliavano i giovani ornelli per rinforzare i filari, alla mamma che andava per ciclamini, per funghi o per violette.
Dove poteva essere il tesoro? Ai piedi della quercia grande? Sotto il manto fitto dell’edera, nascosto dalla coltre dei pungitopo? Addormentato sotto il muschio?
Tesoro passava silenzioso attraverso le siepi e i rovi, come un magico folletto, si curvava a cogliere un’erba d’antica virtù, una nocciola caduta dal cespuglio selvatico, una bacca di ginepro o di lampone. Poi spariva improvvisamente. Un prodigio, o mi ero semplicemente distratto per un attimo dietro il corteo delle formiche rosse?

Un giorno del 1944, l’anno più feroce dell’ultima guerra mondiale, quando i grandi aerei americani sganciavano quotidianamente il loro carico di bombe sul Ponte Metauro per interrompere la via Adriatica e più insistenti si facevano le cannonate della Linea gotica, Tesoro arrivò da noi con la buona novella.
Ho trovato l’Epistola di Costantino Imperatore. Non ci potrà accadere più nulla: malattie, ferite, morte. A peste fame et bello... Basta copiarla e portarsela addosso, sempre.
Era un foglio pergamenaceo, d’antica grafia, scritto in una lingua arcaica poco comprensibile. Narrava di come Costantino fosse scampato da cento pericoli di morte grazie a quell’Epistola portata addosso. E il racconto era alternato a piccole croci che lo scandivano e come ritmavano. Poi concludeva: chi volesse avere la prova dell’invulnerabilità, leghi questo talismano a un cane o altra belva domestica e cerchi di ferirla o ucciderla.
La prova della belva domestica non la facemmo, ma mio padre rispolverò la vecchia macchina da scrivere e rintracciò alcuni fogli di carta carbone affrettandosi a moltiplicare il talismano.  Per noi di famiglia ma anche per i contadini, per gli amici “sfollati” come noi.
Quell’Epistola, ripiegata più volte su se stessa e cucita dentro un abitino di stoffa, ci penzolò dal collo sino alla fine del conflitto. Scoprimmo che tanti altri, sfollati e villici, ne avevano una simile, qualche crocetta in più o in meno, qualche incostanza nella grafia originale o nel copiato casalingo. Provenivano tutte dallo stesso emissario dell’Imperatore?
Con precoce logica infantile mi chiedevo come avesse fatto Costantino a scampare alla morte grazie ad una lettera che raccontava come, grazie alla medesima, fosse riuscito a sopravvivere. Somigliava all’etichetta di un barattolo di conserva di pomodoro che mi aveva sempre affascinato: la massaia che tiene in mano un barattolo, su cui è effigiata una massaia che tiene in mano un barattolo su cui è effigiata la massaia che tiene in mano… così all’infinito.
Come avrei voluto spingermi sino a quell’ultimo minuscolo barattolo! Ma alla prova della lente di Sherlock Holmes sarebbe comparsa inesorabile un’altra massaia con in mano un ancor più impercettibile barattolo… Senza via d’uscita. Il mistero dell’infinito in cui annegare, alla ricerca dell’ultima spiaggia dove l’infinito si plachi nel nulla. Oppure in Dio.
Erano giorni di paura. Tutto era buono per sperare, un’immagine, una preghiera o l’Epistola di Costantino Imperatore, scovata nella cassa delle meraviglie dall’Uomo del Tesoro, quello che da giovane “aveva studiato da prete”. Ma questa è un’altra storia.    

giovedì 14 maggio 2020

STORIE DELLA SELVA - punt.7, Domiziano e il brigante


No, non gli andava bene quel governo del Papa-Re che rendeva tutti un po’ schiavi, sia pur in modo benignamente soft, con minacce più che con rappresaglie cruente. La polizia pontificia li aveva annotati da tempo nei loro libroni, Evaristo e Domiziano Castellani, probabili massoni o comunque adepti a società segrete – la Carboneria? la Giovine Italia? - che mirano alla sovversione ed alla rimozione del legittimo Governo, Tutta colpa di quel Giuseppe Mazzini che da Londra continua a far proseliti, invocando un nuovo assetto repubblicano per tutta l’Italia. Repubblica? Italia? Quante panzane, e chi ci crede? Si parla di uno strano rituale segreto, con giuramenti solenni, scambi di sangue, cerimonie iniziatiche, sottoscrizioni di denaro e così via. I due fratelli fanesi erano artigiani o forse – malignavano i gendarmi - campavano un  po’ alle spalle di quel loro congiunto più pacifico e remissivo – almeno all’apparenza, non lasciatevi ingannare! -  che, alle dipendenze del nobile Pompilio De Cuppis, si era fatta una discreta agiatezza, tanto da riuscir ad acquistare un pezzo di terra nei dintorni, la meno appetita forse, perché occupata in buona parte da quel bosco infruttuoso chiamato la Selva, buona tutt’al più per cacciarci i colombacci durante i giorni del  “passo”.
Non staremo a rifare la storia di quell’infocato 1848, con l’Europa e l’Italia in ebollizione, i milanesi in rivolta, il Piemonte sul piede di guerra, il Mazzini a capo transitorio di una piccola repubblica e inoltre quello strano figuro arrivato dalle Americhe, con la barba rossiccia e i capelli lunghi sul collo (si mormorava volesse nascondere le orecchie mozze, a punizione  per i ladri di cavalli), mazziniano convinto ma uomo di spada più che di penna, e soprattutto patriota incantatore e trascinatore, vestito con l’immancabile rossa camicia portata dall’Argentina ed esibita come una bandiera.
I due fratelli Castellani mollarono il loro pacifico congiunto alla Selva e corsero ad arruolarsi con Garibaldi che, assieme a un migliaio di uomini, muoveva alla conquista del Sud d’Italia. Poi la storia che sappiamo. Garibaldi incontra nei pressi di Teano, ai margini delle terre liberate, quel Re altrettanto barbuto disceso da Torino con la seria intenzione di fare di una terra, divisa fra tanti monarchi, un’Italia unita. E Garibaldi gli presta fede e, sacrificando la vecchia fede mazziniana, offre a quel Re, su un ipotetico piatto d’argento, quel suo Sud appena conquistato. Il sogno di molti patrioti, fra cui i due fratelli fanesi, rivoluzionari, repubblicani e forse un po’ anarchici come nella cripto-tradizione familiare, sembra momentaneamente andato in fumo. Ci rimangono male, ma i più intelligenti ritengono sia l’unica soluzione praticabile per farla finita con i vecchi stati totalitari e dispotici.
E adesso? Garibaldi non pretende nulla per sé, gli basta un po’ di terra da coltivare in riva al mar di Sardegna, su un’isoletta che  lo separerà da tutto e da tutti. Continuerà a progettare nuove imprese, come la conquista di Roma, da strappare al Papa per donarla alla nuova Italia a cui si affida, pur con qualche titubanza. Il vecchio garibaldinismo rivoluzionario e libertario non ha più ragione di esistere ma “l’eroe dei due mondi” chiede garanzie e rispetto per gli uomini che lo hanno seguito alla conquista di un regno. Che fai, Vittorio?, non me li lascerai in brache di tela i miei uomini! Guarda che quelli sono cattivi, potrebbero arrabbiarsi di brutto!
L’astuto conte torinese che ha ispirato e guidato la machiavellica operazione offre, come al solito, una soluzione spiccia: i garibaldini che si arrendono al nuovo ordine potranno essere inseriti nell’esercito ex-piemontese. Li mandiamo nel Sud, a metter giudizio alle bande di briganti più o meno borbonici.
E i due eroi fanesi? Potrebbero essere annessi anche loro al nuovo esercito italiano, con tanto di divisa con le spalline e gradi sul bavero? Domiziano accetta ed Evaristo segue docile il fratello. Cosa ci sarebbe da fare per questa nuova Italia? Elementare! Reprimere il banditismo che ha ripreso nuovo vigore, specie nel Sud, dalla Terra di Lavoro alle Puglie, alla Sicilia. Il brigantaggio fa paura, accoglie i reduci dei vecchi eserciti borbonici ma soprattutto delinquenti, grassatori, banditi. Sono un flagello per i borghi e le campagne, una scuola di violenza e sopraffazione.  Ne sanno qualcosa i due fanesi, perché i gendarmi pontifici – lo Stato della Chiesa non ancora scomparso – hanno di recente fatto fuori un pericoloso brigante conosciuto come il Passatore, così come cent’anni prima avevano fatto fuori un altro bandito pericoloso, Mason dla Blona, nato a Montemaggiore, terrore del Montefeltro e della Legazione di Ravenna. Per non parlare poi del brigantaggio nei dintorni di Roma, con i viaggiatori e i devoti pellegrini costantemente depredati. Il brigante Gasperone è finito in prigione ma quanti ce ne sono ancora in giro? Cosa di più patriottico che prendersela con i briganti?
Domiziano riceve un incarico importante: guidare le truppe ex-piemontesi nell’Alta Terra di Lavoro dove imperversa la banda guidata da un terribile brigante, terribile anche nel nome: Fuoco!, il piú scaltro, il più inafferrabile, il più spietato dei briganti su piazza. Sulla sua testa si sono accumulate grosse taglie, ma inutilmente. Un brigante, che, presso le popolazioni ignoranti, passa da eroe della resistenza borbonica, di quei briganti che non sopportano il nuovo padrone unitario ma vorrebbero risolvere i ben più gravi problemi della giustizia, della fame, della povertà, dell’istruzione. Un bandito o un eroe? E Domiziano un persecutore, un servo del nuovo ordine?  Com’è difficile capirci qualcosa e giudicare!  Domiziano non perdona. Ha ricevuto mandato di sgominare una Banda, che conta sino a centocinquanta uomini, e riuscirà a sgominarla. Della sua epica impresa conserverà come souvenir soltanto il cannocchiale del terribile capobanda. A suo tempo lo porterà con sé a Fano. Ritiratosi a vita privata i compaesani gli tributeranno i giusti onori, ma senza esagerare, come loro costume. Dimessosi dall’esercito, povero pensionato statale, Domiziano si riunirà a suo fratello Egisto e anche all’altro suo fratello, Remigio, che coltiva la Selva. Spesso va a trovarlo, ha l’impressione che quella Selva, così intricata e lussureggiante, sia un po’ l’immagine delle sue indomite battaglie per un’Italia che, attraversando cespugli e roveti non meno spinosi, sta dirigendosi stancamente verso il futuro.