lunedì 18 maggio 2020
domenica 17 maggio 2020
STORIE DELLA SELVA - punt.8, L'uomo del tesoro
1944, anno di guerra.
Oltre ai tedeschi che razziavano uova, galline e ricordi c’era dalle mie parti
uno strano tipo. Lo chiamavano Tesoro, o meglio “l’uomo del tesoro”, perché si
mormorava che quel suo aggirarsi per le campagne non avesse lo scopo dichiarato
di cogliere erbe selvatiche, mandorle e noci prematuramente cadute fra le zolle
o bacche nel bosco, bensì quello recondito di cercare tesori, pignatte colme di
zecchini o cassette traboccanti marenghi, con l’aiuto di qualche spirito
maligno se non addirittura del diavolo in persona.
In un momento di
rimpianti, Tesoro aveva raccontato la sua storia a mia nonna. Ero presente
anch’io, ma i bambini sotto il metro non contavano.
Sì, era vero, aveva
studiato da prete e in quell’antico seminario il diavolo era di casa. Compariva
a sera, all’ora della mensa frugale nel grande refettorio, confuso fra gli
altri. Poi, quando un apprendista sacerdote cominciava a chiedersi chi fosse
quello strano chierico sconosciuto
seduto là, in fondo alla tavolata, e gli sguardi correvano a verificare, ecco,
il posto era vuoto. Solo un vago odore di zolfo, unito a un senso di
trepidazione, a un indefinito timore. E al mattino dopo, qualche seminarista
che aveva indugiato nelle tentazioni dello spirito o del vizio solitario trovava
sul comodino un foglio: “ero io”. E quell’io sembrava vergato col sangue e col
fuoco.
Tesoro raccontava altre
storie. Di contadini improvvisamente arricchiti che avevano trovato una fortuna
ma perso per sempre la pace. Di luoghi dove non si poteva transitare di notte,
perché le anime perdute stavano in agguato. Di casolari stregati e alberi
maledetti.
In casa mia – raccontava,
ma in segreto, quasi una pudica rivelazione a mia nonna – c’è una cassa. E’ una
cassa molto grande: racchiude l’eredità per la mia prole. Diceva proprio prole,
nel vecchio linguaggio curiale. In questa cassa ci sono chiusi tanti involti.
Se mio figlio vorrà fare il falegname, tirerà fuori l’involto con su scritto
falegname e ci troverà annotato tutto ciò che deve fare e sapere per dominare
il legno. Se volesse diventare dottore cercherà il fagotto con le relative
indicazioni. Così per ogni professione o mestiere che esista.
Ma se non volesse proprio
lavorare, dovrà cercare il pacchetto più piccolo, sul fondo del baule. C’è
scritto su: Tesoro. Racchiude le istruzioni per trovare ogni tesoro sepolto nei
dintorni, ma senza irritare il diavolo né vendere l’anima.
E io fantasticavo di quel
magico pacchettino, mi chiedevo perché l’uomo del tesoro non si fosse già messo
alla ricerca di quelle ricchezze e fosse costretto a girare per le case
coloniche elemosinando un bicchiere di vino e raccogliendo le poche mandorle e
noci rimaste sul campo.
Quasi mi avesse letto nel
pensiero, l’omino rispondeva: io no, non posso farlo, non chiedetemi il perché.
Ma mio figlio, quando non ci sarò più, sarà libero di cercare. Uno dei tesori è
anche qui, nel vostro bosco, dove un tempo c’era un piccolo convento di frati.
Ma il punto esatto non ve lo posso dire.
Per mesi e mesi continuai
a braccare da lontano l’uomo del tesoro per paura che, nonostante il divieto
delle potenze superiori o inferiori, potesse rubare il tesoro del nostro bosco
o nella speranza che un giorno o l’altro inavvertitamente si tradisse. E che
fossi io a fare la scoperta: correte, ho trovato i ruderi dell’eremo, guardate
i mattoni, è un muro antico!
Ma il nostro bosco non
era così grande da poter celare il suo segreto ai cacciatori che attendevano
ogni ottobre il passo delle palombe, ai contadini che tagliavano i giovani
ornelli per rinforzare i filari, alla mamma che andava per ciclamini, per
funghi o per violette.
Dove poteva essere il
tesoro? Ai piedi della quercia grande? Sotto il manto fitto dell’edera,
nascosto dalla coltre dei pungitopo? Addormentato sotto il muschio?
Tesoro passava silenzioso
attraverso le siepi e i rovi, come un magico folletto, si curvava a cogliere
un’erba d’antica virtù, una nocciola caduta dal cespuglio selvatico, una bacca
di ginepro o di lampone. Poi spariva improvvisamente. Un prodigio, o mi ero
semplicemente distratto per un attimo dietro il corteo delle formiche rosse?
Un giorno del 1944,
l’anno più feroce dell’ultima guerra mondiale, quando i grandi aerei americani
sganciavano quotidianamente il loro carico di bombe sul Ponte Metauro per
interrompere la via Adriatica e più insistenti si facevano le cannonate della
Linea gotica, Tesoro arrivò da noi con la buona novella.
Ho trovato l’Epistola di
Costantino Imperatore. Non ci potrà accadere più nulla: malattie, ferite,
morte. A peste fame et bello... Basta copiarla e portarsela addosso, sempre.
Era un foglio
pergamenaceo, d’antica grafia, scritto in una lingua arcaica poco
comprensibile. Narrava di come Costantino fosse scampato da cento pericoli di
morte grazie a quell’Epistola portata addosso. E il racconto era alternato a
piccole croci che lo scandivano e come ritmavano. Poi concludeva: chi volesse
avere la prova dell’invulnerabilità, leghi questo talismano a un cane o altra
belva domestica e cerchi di ferirla o ucciderla.
La prova della belva
domestica non la facemmo, ma mio padre rispolverò la vecchia macchina da
scrivere e rintracciò alcuni fogli di carta carbone affrettandosi a
moltiplicare il talismano. Per noi di
famiglia ma anche per i contadini, per gli amici “sfollati” come noi.
Quell’Epistola, ripiegata
più volte su se stessa e cucita dentro un abitino di stoffa, ci penzolò dal
collo sino alla fine del conflitto. Scoprimmo che tanti altri, sfollati e
villici, ne avevano una simile, qualche crocetta in più o in meno, qualche
incostanza nella grafia originale o nel copiato casalingo. Provenivano tutte
dallo stesso emissario dell’Imperatore?
Con precoce logica
infantile mi chiedevo come avesse fatto Costantino a scampare alla morte grazie
ad una lettera che raccontava come, grazie alla medesima, fosse riuscito a
sopravvivere. Somigliava all’etichetta di un barattolo di conserva di pomodoro
che mi aveva sempre affascinato: la massaia che tiene in mano un barattolo, su
cui è effigiata una massaia che tiene in mano un barattolo su cui è effigiata
la massaia che tiene in mano… così all’infinito.
Come avrei voluto
spingermi sino a quell’ultimo minuscolo barattolo! Ma alla prova della lente di
Sherlock Holmes sarebbe comparsa inesorabile un’altra massaia con in mano un
ancor più impercettibile barattolo… Senza via d’uscita. Il mistero
dell’infinito in cui annegare, alla ricerca dell’ultima spiaggia dove
l’infinito si plachi nel nulla. Oppure in Dio.
Erano giorni di paura.
Tutto era buono per sperare, un’immagine, una preghiera o l’Epistola di
Costantino Imperatore, scovata nella cassa delle meraviglie dall’Uomo del
Tesoro, quello che da giovane “aveva studiato da prete”. Ma questa è un’altra
storia.
giovedì 14 maggio 2020
STORIE DELLA SELVA - punt.7, Domiziano e il brigante
No,
non gli andava bene quel governo del Papa-Re che rendeva tutti un po’ schiavi,
sia pur in modo benignamente soft, con minacce più che con rappresaglie
cruente. La polizia pontificia li aveva annotati da tempo nei loro libroni,
Evaristo e Domiziano Castellani, probabili massoni o comunque adepti a società
segrete – la Carboneria? la Giovine Italia? - che mirano alla sovversione ed
alla rimozione del legittimo Governo, Tutta colpa di quel Giuseppe Mazzini che
da Londra continua a far proseliti, invocando un nuovo assetto repubblicano per
tutta l’Italia. Repubblica? Italia? Quante panzane, e chi ci crede? Si parla di
uno strano rituale segreto, con giuramenti solenni, scambi di sangue, cerimonie
iniziatiche, sottoscrizioni di denaro e così via. I due fratelli fanesi erano
artigiani o forse – malignavano i gendarmi - campavano un po’ alle spalle di quel loro congiunto più
pacifico e remissivo – almeno all’apparenza, non lasciatevi ingannare! - che, alle dipendenze del nobile Pompilio De
Cuppis, si era fatta una discreta agiatezza, tanto da riuscir ad acquistare un
pezzo di terra nei dintorni, la meno appetita forse, perché occupata in buona
parte da quel bosco infruttuoso chiamato la Selva, buona tutt’al più per
cacciarci i colombacci durante i giorni del
“passo”.
Non
staremo a rifare la storia di quell’infocato 1848, con l’Europa e l’Italia in
ebollizione, i milanesi in rivolta, il Piemonte sul piede di guerra, il Mazzini
a capo transitorio di una piccola repubblica e inoltre quello strano figuro
arrivato dalle Americhe, con la barba rossiccia e i capelli lunghi sul collo
(si mormorava volesse nascondere le orecchie mozze, a punizione per i ladri di cavalli), mazziniano convinto
ma uomo di spada più che di penna, e soprattutto patriota incantatore e
trascinatore, vestito con l’immancabile rossa camicia portata dall’Argentina ed
esibita come una bandiera.
I
due fratelli Castellani mollarono il loro pacifico congiunto alla Selva e
corsero ad arruolarsi con Garibaldi che, assieme a un migliaio di uomini,
muoveva alla conquista del Sud d’Italia. Poi la storia che sappiamo. Garibaldi
incontra nei pressi di Teano, ai margini delle terre liberate, quel Re
altrettanto barbuto disceso da Torino con la seria intenzione di fare di una
terra, divisa fra tanti monarchi, un’Italia unita. E Garibaldi gli presta fede
e, sacrificando la vecchia fede mazziniana, offre a quel Re, su un ipotetico
piatto d’argento, quel suo Sud appena conquistato. Il sogno di molti patrioti,
fra cui i due fratelli fanesi, rivoluzionari, repubblicani e forse un po’
anarchici come nella cripto-tradizione familiare, sembra momentaneamente andato
in fumo. Ci rimangono male, ma i più intelligenti ritengono sia l’unica
soluzione praticabile per farla finita con i vecchi stati totalitari e
dispotici.
E
adesso? Garibaldi non pretende nulla per sé, gli basta un po’ di terra da
coltivare in riva al mar di Sardegna, su un’isoletta che lo separerà da tutto e da tutti. Continuerà a
progettare nuove imprese, come la conquista di Roma, da strappare al Papa per
donarla alla nuova Italia a cui si affida, pur con qualche titubanza. Il
vecchio garibaldinismo rivoluzionario e libertario non ha più ragione di
esistere ma “l’eroe dei due mondi” chiede garanzie e rispetto per gli uomini
che lo hanno seguito alla conquista di un regno. Che fai, Vittorio?, non me li
lascerai in brache di tela i miei uomini! Guarda che quelli sono cattivi,
potrebbero arrabbiarsi di brutto!
L’astuto
conte torinese che ha ispirato e guidato la machiavellica operazione offre,
come al solito, una soluzione spiccia: i garibaldini che si arrendono al nuovo
ordine potranno essere inseriti nell’esercito ex-piemontese. Li mandiamo nel
Sud, a metter giudizio alle bande di briganti più o meno borbonici.
E
i due eroi fanesi? Potrebbero essere annessi anche loro al nuovo esercito
italiano, con tanto di divisa con le spalline e gradi sul bavero? Domiziano
accetta ed Evaristo segue docile il fratello. Cosa ci sarebbe da fare per questa
nuova Italia? Elementare! Reprimere il banditismo che ha ripreso nuovo vigore,
specie nel Sud, dalla Terra di Lavoro alle Puglie, alla Sicilia. Il
brigantaggio fa paura, accoglie i reduci dei vecchi eserciti borbonici ma
soprattutto delinquenti, grassatori, banditi. Sono un flagello per i borghi e le
campagne, una scuola di violenza e sopraffazione. Ne sanno qualcosa i due fanesi, perché i
gendarmi pontifici – lo Stato della Chiesa non ancora scomparso – hanno di
recente fatto fuori un pericoloso brigante conosciuto come il Passatore, così
come cent’anni prima avevano fatto fuori un altro bandito pericoloso, Mason dla
Blona, nato a Montemaggiore, terrore del Montefeltro e della Legazione di
Ravenna. Per non parlare poi del brigantaggio nei dintorni di Roma, con i
viaggiatori e i devoti pellegrini costantemente depredati. Il brigante
Gasperone è finito in prigione ma quanti ce ne sono ancora in giro? Cosa di più
patriottico che prendersela con i briganti?
Domiziano
riceve un incarico importante: guidare le truppe ex-piemontesi nell’Alta Terra
di Lavoro dove imperversa la banda guidata da un terribile brigante, terribile
anche nel nome: Fuoco!, il piú scaltro, il più inafferrabile, il più spietato
dei briganti su piazza. Sulla sua testa si sono accumulate grosse taglie, ma
inutilmente. Un brigante, che, presso le popolazioni ignoranti, passa da eroe
della resistenza borbonica, di quei briganti che non sopportano il nuovo
padrone unitario ma vorrebbero risolvere i ben più gravi problemi della
giustizia, della fame, della povertà, dell’istruzione. Un bandito o un eroe? E
Domiziano un persecutore, un servo del nuovo ordine? Com’è difficile capirci qualcosa e
giudicare! Domiziano non perdona. Ha
ricevuto mandato di sgominare una Banda, che conta sino a centocinquanta
uomini, e riuscirà a sgominarla. Della sua epica impresa conserverà come
souvenir soltanto il cannocchiale del terribile capobanda. A suo tempo lo
porterà con sé a Fano. Ritiratosi a vita privata i compaesani gli tributeranno
i giusti onori, ma senza esagerare, come loro costume. Dimessosi dall’esercito,
povero pensionato statale, Domiziano si riunirà a suo fratello Egisto e anche
all’altro suo fratello, Remigio, che coltiva la Selva. Spesso va a trovarlo, ha
l’impressione che quella Selva, così intricata e lussureggiante, sia un po’
l’immagine delle sue indomite battaglie per un’Italia che, attraversando
cespugli e roveti non meno spinosi, sta dirigendosi stancamente verso il
futuro.
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