Per
la serie “meglio tardi che mai” ho visto alla tv il film della Campion sia pure
sepolto sotto un’ignobile marea di invasioni, più che di interruzioni,
pubblicitarie. Un film che avrei dovuto e voluto vedere a suo tempo (1997:
vent’anni fa) e che visto oggi sembra una rara perla nel mare dello scontato e
dell’odierno pseudo cinema. Da un racconto di Henry James, la regista
neozelandese Jane Campion trae piuttosto fedelmente una parabola di una finezza
che oserei chiamare calligrafica se non fosse suffragata da uno studio
stupefacente degli ambienti e dei personaggi. La cura delle inquadrature, la
scelta dei campi visivi, i movimenti degli attori, la loro conduzione, la
finezza delle notazioni psicologiche sono i meriti di un film, in cui lo
strumento cinema si fa “camera stylo” per usare in modo improprio ma
giustificato la definizione cara ai leoni della “nouvelle vague”, per proporci
il ritratto di donna insicura, che soffre senza darlo a vedere ed è punita dall’amore.
Ambientata nella provincia inglese del 1870, questa scorribanda nella psicologia
di una giovane perennemente inquieta che si arrende a un destino femminile tra
aspirazioni e delusioni e vive la sua giornata di aristocratica nel circuito
delle mete più ambite, da Londra a Firenze, a Roma, si dipana fra scenografie e
arredamenti curatissimi che però non prevaricano mai sul racconto e sulla
definizione del personaggio: una donna manipolata dalla crudeltà del marito
squattrinato e della sua amante. Nicole Kidman è nel pieno delle sua forza
espressiva quanto contenuta, attorno a lei un grappolo di attori di
prim’ordine, da Sir John Gieldgud, a John Malkovich, a Barbara Hershey, a
Shelley Duval, a giovanissimi allora alle prime armi come Viggo Mortensen e
Christian Bale. Qualche autocompiacimento di troppo, qualche immagine inutilmente
elucubrata, ma chi se ne frega!
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