Il
film è un colossale pasticcio, non si capisce bene se voluto o venuto fuori per
sbaglio, ma non si può ignorarlo. Tratto da un libro dello scrittore tedesco
Timur Vermes, che suscitò reazioni e scalpore ma vendette duemilioni e mezzo di
copie nella sola Germania, il film evita la relativa linearità del testo da cui
è tratto per avventurarsi in un racconto fatto per ellissi, per suggestioni, evitando
troppe spiegazioni e note a margine: Hitler resuscita tra i cespugli fioriti di
una tranquilla zona residenziale della Berlino di oggi, dove si suppone si
trovasse il bunker in cui si suicidò nel 1945, e si aggira un po’ sperduto fra
la gente. Suscita ironie, confuso per un qualche bontempone che abbia avuto la
faccia tosta di indossare abiti desueti e di sfidare sia il rancoroso ricordo di
qualche vecchio che la beffarda ironia delle nuove generazioni. Si propone di
tornare alla testa della nazione, vuole ricominciare da capo la scalata
politica? Un giornalista-tv messo alla porta dal suo redattore pensa di farne il
personaggio per un film televisivo trascrivendo in termini di racconto la
storia del suo ritrovamento e il senso
della sua presenza. E nel nostro film cronaca e ricostruzione si alterneranno in
maniera pressoché casuale: quando quell’anziano con baffetti a toppa e divisa è
proprio Hitler e quando è semplicemente un attore, anzi una comparsa? Quando il
suo mentore giornalista è se stesso e quando è l’attore che lo interpreta? Alla
fine Hitler, i cui deliranti interventi razzisti, nazionalisti e antisemiti
vengono accolti alla rovescio, come una satira caustica contro il nazismo,
precipiterà dall’alto di un moderno grattacielo. Ma no, finzione, è sola una
scena del film e tutto finisce con una festa di fine lavorazione. E invece no,
ancora un rovesciamento: si tratta soltanto del vaniloquio di un cronista pazzo
rinchiuso in manicomio (ricordate la conclusione posticcia del “Gabinetto del
Dottor Caligari”?) Dunque una bella e voluta confusione che attutisce il senso
del film, inteso come una icona mediatica della società tedesca contemporanea,
nella quale la critica a un presente imbastardito e problematico viene corretta
quando potrebbe farsi troppo audace. Di qui la programmatica rinuncia a ispirarsi
al libro di Vermes per una pedissequa trascrizione cinematografica e la scelta
di una riproposta sui generis, quasi estemporanea, che ricorre anche a moduli
documentaristici, usa frammenti di repertorio e di telegiornale, e addirittura
tecniche da candid camera per fissare le reazioni spontanee della gente, in un
voluto centone. Un film di destra o di una generica sinistra?
Da
notare il doppiaggio, particolarmente sciatto e approssimato: si doveva e
poteva far di meglio.
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