“Avrei dovuto restare a casa” è un lungo
racconto-confessione dello scrittore-sceneggiatore Horace McCoy (1897-1955), la
storia di sapore autobiografico di uno spaesato provinciale che capita nella
Hollywood degli anni d’oro, la rinomata fabbrica delle illusioni, un mondo estraneo,
fatto di avventurieri, debosciati, opportunisti, ninfomani, fra divi e
pseudodive, ricche e spiantate, “comparse” che nutrono l’impossibile illusione
di farsi strada in virtù di un inatteso miracolo. E il sogno
dorato si trasforma in un incubo di compromessi anche degradanti, furti,
prostituzione, suicidio. Temi e figure che la narrativa e il cinema
avrebbero ampiamente ripreso negli anni successivi.
McCoy è uno specialità nel narrare il retroscena amaro
delle scalate al successo, grande o minuscolo che sia. Il suo primo romanzo,
“Non si uccidono così anche i cavalli” (1935), col racconto di quella stremante
maratona di ballo che si trasforma via via in una corsa pazza verso la
sopravvivenza delle proprie illusioni, ha fruttato anche un bel film.
Narrato con una scrittura nervosa e con il gusto disincantato
e un po’ macabro di distruggere le proprie e altrui illusioni, questo libro,
scritto nel 1938, è stato un apripista che oggi si legge come un deja vu. Ma
forse mai come in queste rapide pagine il dramma delle illusioni viene narrato
con tanta dolce tristezza. Un romanzo coraggioso e malinconico che anticipa “Gli
ultimi fuochi” di Scott Fitzgerald, e insieme demolisce uno dei miti immarcescibili
del Sogno americano.
(Leandro Castellani)
Nessun commento:
Posta un commento