Avevo
molto apprezzato, esattamente vent’anni fa, il primo film di Baz Luhmann, “Romeo
+ Giulietta di William Shakespeare”, una Giulietta e Romeo per gli anni
duemila, in una Verona Beach americana lacerata fra imperi d’affari e bande di
dropout ma con amori e tensione giovanili non lontane da quelle evocate in
maniera mirabile dal Bardo. Ma il secondo film del regista australiano fu per
me una doccia fredda. Il mito del “Moulin Rouge !” (2001), resuscitato in modo rutilante e visivamente
post-moderno in una Parigi a metà fra il manifesto pubblicitario e il kitsch
dichiarato, un album di figurine molto colorato ma poco evocativo, nonostante
le presenza carismatica ma ingombrante della diva Nicole Kidman, nel pieno del
suo appeal, la rivisitazione della “Traviata” di Verdi con la riproposta di
alcuni fra i più celebrati motivi dell’universo musicale americano. Tema conduttore
la presenza dell’io narrante nella figura del giovane ingenuo e sprovveduto Ewan
McGregor alla conquista del paradiso di perdizione parigino. Ritrovo un leit-motiv
molto simile in questo “Il grande Gatsby” che ho occasione di vedere con circa
tre anni di ritardo rispetto alla sua uscita (2013). E ritrovo, possibilmente ingigantiti,
gli stessi difetti che avevano contrassegnato l’esasperata incursione di Luhmann
nel mito di Parigi, in questa incursione in un altro mito, quello dell’età del
jazz – ma del jazz qui non c’è nemmeno l’ombra -, dei ruggenti anni Venti e del
mondo di Francis Scott Fitzgerald, qui alla sua quarta traduzione
cinematografica. Evocato con gli stessi metodi: un assemblaggio rutilante di immagini,
un gusto cartellonistico visivamente abbagliante e decisamente kitsch nel
giustapporre senza sosta una miriade di pupazzetti, ritagliati e inseriti in un
sfondo da cui non riescono ad emergere, una scenografia impazzita, una fotografia
che imita non il ricordo ma il bozzetto a colori del ricordo e non conosce
ombre e chiaroscuri, un’esasperazione di effetti speciali, di espedienti di montaggio
digitale, elementi tutti che non riescono a far levitare la storia, nonostante
i 105 milioni di dollari del budget (e debbo dire che si vedono). In questo bailamme produttivamente impegnativo
quanto artisticamente carente i personaggi non riescono a decollare: Tobey Maguire,
coinvolto in una pleonastica e ingombrante cornice narrativa, è il solito
giovane complessato alla conquista del mondo, ruota inutilmente gli occhi e
moltiplica le grimages; il bravo Leonardo Di Caprio, coinvolto anche lui nel
sinistro, non riesce a rendere come vorrebbe e dovrebbe la presenza gigantesca
ed evocatrice che Scott Fitzgerald e il regista avrebbero voluto. Si salva
qualche personaggio minore, come la biondina Carey Mulligan o il vilain Joel
Edgerton. No, questo Luhmann non ci piace e non ci convince. Il suo
caravanserraglio non provoca alcuna emozione nonostante i rutilanti incassi e
le lodi di certa critica americana.
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