martedì 5 aprile 2016

CASCHE' - Incipit


 

Inizio da oggi a proporre saltuariamente gli incipit dei miei inediti, come offerta agli Editori in cerca di opere valide. E comincio con “Caschè”, ambientato a Rimini e nella riviera romagnola: il racconto dolce-amaro di un’estate con i suoi amori, gli imprevisti, le avventure, i drammi, in un sapiente incastro di situazioni e personaggi. E insieme il singolare dipanarsi di un ”giallo” anomalo, fra incubo e realtà, eccitante clausola alla vicenda di una stagione sull’Adriatico
   

Non c’era neppure uno straccio d’amico ad attenderlo fuori da Rebibbia, quel carcere civettuolo nella linea e affidabile nella struttura con celle degne di un hotel di Dubay. Appena il cancello iniziò ad aprirsi elettronicamente Flor sgusciò fuori di traverso, senza dar tempo al varco di schiudersi del tutto. Un giovane dinoccolato, faccia da ribelle e capelli fluenti sulle spalle da sessantottino ritardatario, anche se era improbabile che nel fatidico sessantotto e dintorni fosse già nato e neppure concepito.
Anni appartenuti a suo padre, ardente rivoluzionario da barricata. Ne conservava le foto, scattate dalla polizia o da qualche reporter d’assalto sulla gradinata dell’università, a Valle Giulia, durante i giorni infuocati della contestazione: suo padre, circondato da scudi e manganelli, la bocca spalancata in un grido di rivolta, la chioma ribelle sulle spalle, le braccia spalancate. Forse era per attaccamento a quelle immagini che portava i capelli lunghi anche lui, in una foggia ormai desueta.
Quel padre non l’aveva mai conosciuto, si può dire. Perso a tre anni. Un giovane docente d’architettura un po’ ribelle anche sulla cattedra, renitente ad ogni ingiustizia e ad ogni baronia, che aveva finito per stingere la propria collera dirottandola in articoli involuti su riviste di estrema sinistra, in rigoroso linguaggio paleomarxista.
Il figlio invece era cresciuto tranquillo, affidato alla madre e ad una zia, unico maschietto in un consesso tutto femminile. E alla passione paterna per l’auspicata vittoria del proletariato aveva sostituito la passione per la musica.

Flor reggeva la custodia rigida del sax. Glielo avevano restituito all’uscita di galera assieme al portafoglio – vuoto – e alla cintura borchiata, un po’ da metallaro. Qualche giorno di carcere gli aveva fatto bene, dandogli il tempo di riflettere. O forse no?
Certo era stata colpa sua. Nessun dubbio che quei giorni in gattabuia se li fosse meritati. Colpa sua e un po’ dell’esaltazione di cui era preda quando si librava nei suoi funambolici assolo di sassofono. La tanto decantata scarica di adrenalina. Con l’ausilio di qualche spinello fumato un po’ in fretta, chiuso nella latrina del cosiddetto night. Fatto sta che il gestore di quel localaccio romano – una sorta di pub truccato da squallida minidiscoteca  - lo aveva trovato in atteggiamento inequivocabile con l’entreneuse – ma adesso le chiamavano hostess oppure escort - da cui il suddetto gestore era sicuro di ottenere prestazioni professionali ed erotiche in regime di esclusiva. Aveva reagito male e Flor aveva controreagito anche peggio, prendendolo a pugni, rompendogli il naso e facendogli saltare due denti. (...)
(Leandro Castellani)

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