martedì 7 settembre 2021

QUEL TALE CHE SCRIVEVA PER I POSTERI - 4 - geremiade in sei gemiti di Leandro Castellani


IV.

Con tali presupposti, quel tale che scriveva per i posteri ricominciò a scrivere. In piena libertà? In quel periodo, sui soliti “social”, si pubblicizza un’ampia serie di corsi di scrittura, ammanniti da sedicenti scrittori, esperti in drammaturgia e narrativa. Insomma erano di moda nuove regole da cui si diceva non poter prescindere. Ormai la maggior parte della gente ignorava quasi del tutto quelle regolette – un tempo si chiamavano “scolastiche” – utili a evitare errori di ortografia, grammatica e sintassi, tutti termini in uso dal medioevo o forse da molto prima. Ormai gli errori erano di moda, li facevano anche i plurilaureati e i giornalisti. Per esempio il congiuntivo era defunto da tempo, così com’erano  scomparsi il punto e virgola, il due punti, i capoversi  e compagnia bella. Cominciavano a scarseggiare anche le doppie consonanti, usate ad libitum solo nel Sud della penisola, dove diventavano addirittura triple. Dunque punteggiatura grammatica e sintassi fuori gioco. I decantati corsi di scrittura, acquistabili a qualche centinaia di euro, fruibili anche attraverso internet e i social, senza alcun obbligo di frequenza e sotto la remota assistenza di fantomatici tutor, di vasta e documentata sapienza, ti avrebbero seguito passo passo, tipo asilo d’infanzia, fornendoti le indispensabili istruzioni per essere in grado di comporre un romanzo, pronto per essere pubblicato, magari con sistemi self o a modico prezzo rateabile. Seguendo il decantato corso un qualsiasi analfabeta sarebbe assurto in breve tempo al rango di scrittore. Bastava seguirne le indicazioni, peraltro un po’ astruse, tutto il contrario di quanto aveva proposto a suo tempo quel pedante di Alessandro Manzoni nella sua lunga lettera all’amico Berchet. Prima regola: individuare gli auspicabili fruitori – insomma il target, vulgo: il bersaglio – e far capire il tipo di romanzo sin dall’incipit – vulgo: primo capoverso o paragrafo – in modo che non ci fossero fraintendimenti e il lettore che amasse il giallo, il rosa, il thriller, l’horror e così via fosse catturato o dirottato altrove, senza perder tempo a proseguire nella lettura. L’aspirante scrittore avrebbe dovuto scegliere subito il “genere”, giallo, rosa, thriller… e non librarsi alla pericolosa libera invenzione e fantasia. In altre parole la prima regola del corso era quella di mettere fuori gioco o comunque in subordine la libera capacità espressiva e comunicativa dell’aspirante scrittore. Seconda mossa: individuare e definire subito il personaggio principale, buono o cattivo, ricco o povero, bello o brutto, senza peraltro precludersi eventuali rovesciamenti in corso d’opera, con buona pace del Dickens, Collins,  Stendhal, Flaubert e compagnia bella. Chi erano costoro? Avevano mai frequentato qualche corso di scrittura? Non era colpa loro se erano nati prima della codificazione – made in usa – del best-seller perfetto, con i tre atti, i plot e tutto il resto.

Colui che scriveva per i posteri s’affrettò a scrivere sul suo spazio social: amici aspiranti all’immortalità, diffidate di questi falsi profeti del romanzetto autogestito ed autopubblicato. Così si ammanniscono i pasti per le mense aziendali! Ma già, lui era abituato a non farsi sentire.

Bando alle chiacchiere. Non aveva tempo da perdere se voleva inseguire il suo ideale d’immortalità letteraria a beneficio dei posteri. Da dove cominciare? Dalle proprie esperienze – ovvio! -  ma filtrate, omologate o respinte dalla sua fantasia. Non era forse la fantasia che dava senso e significato a ogni gesto, a ogni azione? Avrebbe potuto narrare la vita dei poeti… Ne aveva conosciuti e ne conosceva tanti, tutti autentici, innamorati delle proprie e delle altrui parole. Soprattutto delle proprie. Talvolta si univano in cenacoli, in incontri, in pubbliche letture o sulle pagine di qualche rivista: giovani o vecchi, ma sempre sorridenti, in pace con se stessi e con gli altri, alla costante ricerca di belle immagini – quelle cosiddette poetiche - di solito un po’ ermetiche e clandestine, in cui imbalsamare i propri conati sentimentali dando voce alle proprie speranze e paure. Talvolta condensate in un solo verso o in due o in quelle forme brevi che i giapponesi chiamano haiku. Altri invece, alla ricerca del verso conclusivo o della frase apodittica con cui por termine alla loro irrefrenabile dilavante ispirazione, divenivano irrimediabilmente logorroici a mo’ di politici o mestieranti vari.

Quante volte aveva irriso alla forbita capacità dei politici e in generale degli uomini pubblici di parlare per ore e ore, senza dir nulla, a vuoto, schivando o dribblando il succo di qualsiasi argomento, girandogli attorno, a mo’ di falena che danza attorno alla luce della candela, facendo a rimpiattino fra metafore incongrue, paragoni inconsistenti, prospettive campate in aria. Talvolta, quand’era giovane, si era persino divertito a sollazzare se stesso e gli amici parodiando per scherzo quel parlare vacuo, ampolloso, inconsistente, e provocando assensi e risate. Un mero gioco, perché al contrario, lui scriveva conciso, essenziale. E non riusciva a spiegarsi come facesse quel tal Norman Mailer a produrre centinaia e centinaia di pagine divagando attorno a un argomento o a un personaggio, trasformando un rivoletto di cronaca in un fiume  tempestoso. Non era il suo stile, lui no, i posteri avrebbero avuto tanti suoi testi da scoprire ma ognuno ridotto a un numero esiguo di pagine.

 

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