mercoledì 29 settembre 2021

Leandro Castellani - LA VERA FALSA STORIA DI MARIA MADDALENA - prima parte

 Mi è simpatica questa Santa Maria Maddalena. Ho un quadretto secentesco che la rappresenta, seminuda, capelli fluenti, viso  bellissimo, autosegregata – chissà perché - in un antro scuro: una grotta, una spelonca, un romitorio? Accanto a sé, su quella roccia un po’ foggiata “stile opera lirica” – che grandi scenografi questi pittori antichi! – c’è un libro e un teschio vuoto: un memento mortis, come quello raccattato da Amleto sulle tombe violate di Danimarca? Ne ottenni una spiegazione molti anni fa.

Anni Sessanta: tornavo in macchina, con mia moglie, da una spedizione a Marsiglia, dove aveva intervistato un vecchio operatore cinematografico su una sua storia curiosa risalente al lontano 1934.  Georges Mejat era stato incaricato dalle “Attualità Cinematografiche FOX Movietone” di fare riprese d’attualità, lui come tanti altri di vari cinegiornali, per l’avvenimento del giorno: la discesa del re di Jugoslavia, Alessandro I, dal piroscafo sul suolo di Francia dove, ad attenderlo sulla banchina, c’era una carrozza con a bordo il ministro degli Esteri francese, Louis Barthou. Visita ufficiale, marea di folla. Il nostro operatore immortala il tutto, poi corre via per rifornirsi di nuova pellicola perché il caricatore della sua piccola cinepresa portatile ormai è quasi vuoto. Sta facendosi largo fra la folla quando vede un uomo armato di pistola sbucare fuori dalla ressa, puntare l’arma e sparare sulla carrozza, uccidendo il re e ferendo il ministro,  per poi venire prontamente –  ma fuori tempo massimo – colpito dalla sciabola di un ufficiale a cavallo della scorta. Ma intanto Mejat è  riuscito a filmare l’attentato con gli ultimi metri di pellicola della sua cinepresa. Una ripresa  eccezionale che gli procurerà se non la fama, il lavoro per tutta la vita. Eccolo a Marsiglia, ormai anziano, rievocare per me la storia di quel reportage, indicarmi i luoghi, descrivermi i dettagli. Intervista che arricchirà il mio programma storico “Marsiglia 1934: tecnica di un assassinio politico” in onda nel luglio del 1969.

Finita la spedizione marsigliese mi avvio a rientrare in patria. Ma lungo il viaggio di ritorno una parca indicazione sulla guida mi pone un dilemma. Usare la strada di pianura, piana e agevole, o tentare quella delle Alpi che - assicura la stessa guida - passa proprio accanto alla grotta-romitorio di Santa Maria Maddalena? Preferisco la seconda, anche se siamo in inverno e c’è la neve. Viaggio rischioso, la strada è infida e costeggia il dirupo, la mia auto  rischia di slittare. Ma riesco a farcela, tanto da concedermi una breve sosta al culmine del passo. Santa Maria Maddalena evidentemente mi protegge, anche se non riesco ad individuarne il rifugio.

Saperne di più. Leggiucchio qua e là. La bibliografia è vasta ma non straripante. C’è chi afferma che questa Maddalena eremita sia proprio quella del Vangelo, cioè Maria di Magdala, la prostituta pentita, forse la stessa a cui Gesù si rivelerà poi, celato sotto vesti angeliche, eleggendola a prima testimone della sua Resurrezione. Maria Maddalena, con Maria di Cleofe, Maria Salomè e la Madre di Gesù, presenti sul Calvario, ai piedi della Croce, e più tardi in fuga da una terra ostile a bordo di un natante che, alla merce’ dei venti e delle onde, giungerà sino alle coste di Francia, approdando sul terreno paludoso della Camargue, la patria adottiva degli zingari (Rom, Sinti e Manouches). La “Legenda Aurea”,   composta da Jacopo da Varagine nel sec. XIII, narra appunto che nella terra dei gitani approdarono, nel 48 dC., su una zattera senza remi né vele, i primi esuli dalla Palestina, sfuggiti alla persecuzione: Maria Maddalena, con la sorella Marta di Betania e il fratello Lazzaro il resuscitato da Cristo - che diventerà il primo vescovo di Marsiglia – e inoltre Maria Jacobi, parente di Maria di Nazareth, e Maria Salomé, tutte testimoni della morte e resurrezione di Cristo.

Degli zingari mi avevano insufflato sin dall’infanzia un’immagine decisamente negativa. Zingari! Calderai a tempo perso ma ladroni a tempo pieno, maestri nel rubare non solo rame ma qualsiasi metallo e anche oggetto lasciato in giro, non tutelato, fuori casa, sull’aia e per i campi, o magari dentro casa sfidando porte e soprattutto finestre. Zingari: abbronzati come e più dei siciliani, nomadi dai baffoni, con i capelli lunghi sul collo e un cerchietto d’oro appeso all’orecchio. E le donne? Tutte streghe, cartomanti, indovine e fattucchiere, con lunghe gonne una sull’altra, a strisciare e spazzolare il terreno, e le chiome untuose racchiuse in altrettanti untuosi fazzoletti multicolori. E non parliamo dei bambini, sporchi, mocciosi, nudi come vermi e coi genitali al vento, ma già abili e arruolati alla scuola di ladrocinio. Queste le diapositive del ricordo.

Molti anni più tardi mi capitò un’avventura destinata a cancellare queste sgradevoli immagini infantili, per altro coriacee e resistenti. Conobbi un prestigioso attore americano, Frank Latimore,  cooptato dai nostri “peplum” e dai “cappa e spada” cinematografici, con famiglia al seguito. Sua moglie era la figlia del più illustre dittatore di un lontano paese malese. Una signora gentile, con un paio di figlioletti ben curati, che si mostrava innamorata della cucina romana, in particolare dei supplì – riso e ragù con mozzarella in polpette fritte – che si portava sempre appresso in fagottelli di carta gialla e dispensava generosamente ad amici e colleghi del marito. Ma lasciano i supplì e torniamo in carreggiata!

Dunque l’attore americano fuori patria mi propose di occuparmi della storia degli zingari, un popolo ignorato perché arroccato dietro tradizioni millenarie. Se ne poteva trarre una succosa serie televisiva. Mi lascio convincere, mi procuro libri, vi trovo di che correggere i ricordi infantili e – cammina cammina – vado ad imbattermi nella lontana avventura di un mio conterraneo, il marchese Adriano Colocci-Vespucci, nato a Jesi nel 1855. Il quale, appena trentenne, a caccia di gloria, si arruola come volontario nell’esercito bulgaro in arme contro la Persia. Valore ampiamente dimostrato in un’azione di guerra nelle gole di Dragoman, al termine della quale si guadagna una decorazione e la nomina ad aiutante del Principe Alessandro di Battemberg. Ma a guerra conclusa il nostro marchese, assieme a un gruppo di reduci sbandati, si unisce a una carovana di zingari per attraversare il paese sconosciuto e procedere oltre, verso casa. Dopo i primi giorni di reciproca diffidenza, si stabilisce fra zingari ed ex-militari una certa familiarità. Perché via via, lungo le molte tappe, Adriano è riuscito ad afferrare il senso della vita nomade e a comprendere il significato di abitudini, usi e costumi tanto diversi dai suoi. Forse – finiscono per ammettere gli stessi zingari - nessun “gadjo” ha fatto altrettanto sino ad allora. Per completare il quadro idilliaco, Adriano s’innamora di una zingara diciannovenne, Smeragia, dalla quale è teneramente riamato. E in una notte fiorita di stelle, sotto il cielo di un paese ignoto, il marchese marchigiano si unisce con il rito di sangue alla ragazza, entrando così a far parte della sua tribù: cambia anche nome e diventa lo zingaro Baro.

Mentre la carovana continua la sua difficile traversata in un territorio sconvolto dalla guerra, Adriano  - diventato lo zingaro Baro – si prodiga in varie occasioni per salvare i compagni dalle minacce turche e macedoni, mettendo in campo la sua esperienza di militare e le sue doti di valoroso.

Finalmente la tribù giunge integra e salva alle sponde del Bosforo. Qui la comunità di vita fra il nobile europeo e i suoi compagni zingari entra in crisi: quella folle insensata avventura non può continuare per sempre. L’ex-marchese decide dì imbarcarsi per l’Italia e naturalmente vorrebbe portare con sé la sua sposa. Altro sogno impossibile. Che fare? Ripudiare il suo passato aristocratico  o il suo presente zingaresco? Ahimè, vincerà il passato, il ritorno. Ma per tutta la sua vita il Marchese redivivo rimarrà legato, con la mente e col cuore, a quel sogno giovanile e a quel popolo generoso e indomito che ha avuto la fortuna di conoscere. Tornato in patria, mentre riuscirà a scalare importanti cariche civili ed a riconquistare un’invidiabile posizione sociale, ma conserverà  gelosamente inviolato il suo segreto, senza mai dimenticare né ripudiare la sua grande giornata zingaresca. Descriverà usi e costumi del popolo errante in un’opera che verrà reputata d’eccezionale interesse. E continuerà per tutta la vita, ogni volta che gli giunge notizia del transito di una tribù nelle sue terre o in quelle finitime, a correre loro incontro per accoglierli e assisterli, come per riafferrarsi al suo sogno svanito. 

Questa l’avventura del Conte: non avrebbe meritato un lungo racconto televisivo? Crollate le mie abiette immagini infantili? Dovevo cambiare prospettiva: considerare gli “zingari” non più un ammasso di sporchi cialtroni, ladri di professione, ma coraggiosi e indomiti difensori della tradizione degli erranti in un mondo sempre più stanziale. Con un solo approdo nell’inquieta Camargue, terra di paludi e di cavalli selvaggi. Di cui le tre Marie, giunte un bel giorno dal  mare, erano diventate le Sante privilegiate, le patrone di un mondo zingaresco – a chiamarlo gitano suona meglio -  che ancora ogni anno – almeno credo sia così - le celebra e le ricorda.

 Ma la mia Santa Maria Maddalena cos’ha a che fare con le tre sante zingare? E se questa Maria di Magdala era una di loro tre, come  poi era finita sull’eremo montuoso con un teschio accanto? Bisognerebbe chiederlo a Jacopo da Varagine – al secolo Giacomo da Varazze – che dedicò tutta la sua vita a ricostruire, con  molta scrupolosa attenzione e non poca fantasia, la storia, o meglio la “leggenda d’oro” di una miriade di santi, molti dei quali espunti dall’attuale martirologio dopo il Concilio Vaticano II.

Rivolgiamoci ad altri storici, meno patentati - o forse più, hai visto mai? - Un trio di studiosi inglesi, truccati da storici, (Michael Baident, Richard Leigh e Henry Lincoln) hanno tentato di colorire e completare la vicenda, beccandosi ovviamente l’accusa di blasfemia da parte cattolica. Dopo la Crocefissione che sembra metter fine non solo a una vita ma a un itinerario di salvezza, e dopo quella Resurrezione un po’ misteriosa, quando la Maddalena, tornata alla tomba per visitare il Cristo morto, scorge un angelo in cui ravvisa il Cristo risorto che la invita a raggiungerlo in Galilea, per  quaranta giorni Gesù resterà ancora con Maddalena e gli altri discepoli, per ascendere poi definitivamente verso il cielo. E solo allora – raccontano  i disinvolti storici inglesi -  Maddalena, incinta di Gesù, di cui è stata la sposa, deciderà di navigare verso un lido lontano per mettere in salvo dalle persecuzioni il futuro nascituro, vale a dire il Graal, il sangue di Cristo.

Su questa poetica quanto spericolata e blasfema versione, nonché sulla relativa leggenda del fantomatico Priorato di Sion, un certo scrittore americano, Dan Brown, ha poi elucubrato una serie di romanzi fanta-biblici che gli hanno portato successo e fortuna. Ma del resto, negli ultimi vent’anni la fantastoria biblica ha fatto seguaci: Gesù finto morto, fuggito in India, nel Nepal o a Shrinagar, dove defunge alla tenera età di 120 anni. O addirittura mai esistito ma semplicemente  costruito “a ritroso” legando fra loro le numerose profezie del Vecchio Testamento, come affermava lo storico svizzero Emilio Bossi, in un suo libro del 1904.

Anche l’esodo delle tre Marie fa parte di queste leggende? Comunque l’approdo delle tre Marie – Maria di Magdala, Maria Jacobi e Maria Salomè – sulla sponda infida della Camargue lega l’Oriente alla Francia e fa da preludio al ritiro di Maria Maddalena sul romitorio in cima alla montagna della Sainte Baume, dove  chiudere il suo cammino di espiazione e penitenza. 

 

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