Come
spero si evinca da queste note, mi sono sempre comportato in modo un po’
ribelle e “anticostituzionale” nei confronti della liturgia del vecchio cinema
italiano, poi calata di fatto nel
costume televisivo, rifuggendo dalla figura del regista come demiurgo, circondato
da un’aura di sacralità, eredità del vecchio costume cinematografico. Se c’era
un copione da manomettere o una scena da modificare o un cavo elettrico da
spostare non badavo molto alle liturgie, talvolta scandalizzando i benpensanti del
mestiere.
Così
per il reparto della Fotografia. Per le riprese cinematografiche davo la
preferenza a una cinepresa francese, molto
amata dagli amici del cinema-verità e della nouvelle vague per la sua
maneggevolezza e mobilità, l’Eclair, rispetto a macchine più pesanti, elefantiache.
Così come preferivo che fosse lo stesso direttore della fotografia a mettersi
in spalla la suddetta cinepresa e a fungere da operatore. Il mio sistema di creare
una scena è semplicissimo e rapido. Verifica dell’ambiente, sua sistemazione.
Illuminazione di massima. Prove con gli attori sino a quando la scena risulti
messa a punto. Poi un’ultima ripetizione mentre mi metto la cinepresa in spalla
e mi sposta via via nei punti di ripresa, indicando all’operatore in quante
posizioni e inquadrature la scena verrà successivamente scandita. Ultima messa
a punto delle luci, trucco eccetera e inizio riprese, cominciando dalla prima
inquadratura, fissa o più probabilmente mobile. Anche durante le riprese di “Incantesimo”,
per il quale fui di nuovo catapultato nella liturgia che avevo precedentemente
contribuito a smantellare, non riuscivo a restare immobile davanti al monitor di
controllo ma dovevo correre accanto al cameraman per guidarlo da vicino.
Parlavo
di liturgia. Nel lavoro seriale, collettivo e industrializzato di “Incantesimo”,
mi scontrai di nuovo con tutto l’apparato formale, nel bene e nel male. Un
rider personale mi prelevava e mi riaccompagnava a casa a fine riprese. Oltre
all’aiuto regista, la brava Marina Mattioli, avevo una validissima segretaria
di edizione – dato che il montaggio avveniva altrove per meno di sconosciuti,
anche se poi lo rivedevo e correggevo prima del via finale – nonché una
volonterosa e simpatica assistente che era la figlia del regista Sollima nonché
sorella dell’altro Sollima. In compenso avevo da gestire attori e personaggi
che si moltiplicavano ogni giorno, con un ruolino di marcia impegnativo. Ma cercavo di evitare la routine tentando di conservare il gusto dell’invenzione e della
scoperta,
A
conclusione di queste note, nelle quali - parafrasando Zavattini - ho parlato “tanto
di me”, direi che non mi sono mai sentito vicino a certe figure un po’ stantie
e un po’ vignettistiche, quelle del cosiddetto “regista con gli stivali”, oppure
del regista in crisi d’invenzione e alla ricerca spasmodica del punto di ripresa,
del regista che pianta grane se un vasetto o altroinsignificante accessorio che
desiderava fosse rosso lo trovava verde, del regista che strapazza le attrici
in tutti i sensi, e vuol competere in simpatia con tutti. E mi sono sempre
sentito sempre sostenuto, apprezzato e - scusatemi il termine - amato da tutti
o quasi i miei collaboratori e attori. E con questo basta, parliamo d’altro.
(L.C.)
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