lunedì 5 agosto 2019

IL MESTIERE DEL REGISTA - 4


Come spero si evinca da queste note, mi sono sempre comportato in modo un po’ ribelle e “anticostituzionale” nei confronti della liturgia del vecchio cinema italiano, poi calata di fatto  nel costume televisivo, rifuggendo dalla figura del regista come demiurgo, circondato da un’aura di sacralità, eredità del vecchio costume cinematografico. Se c’era un copione da manomettere o una scena da modificare o un cavo elettrico da spostare non badavo molto alle liturgie, talvolta scandalizzando i benpensanti del mestiere.
Così per il reparto della Fotografia. Per le riprese cinematografiche davo la preferenza  a una cinepresa francese, molto amata dagli amici del cinema-verità e della nouvelle vague per la sua maneggevolezza e mobilità, l’Eclair, rispetto a macchine più pesanti, elefantiache. Così come preferivo che fosse lo stesso direttore della fotografia a mettersi in spalla la suddetta cinepresa e a fungere da operatore. Il mio sistema di creare una scena è semplicissimo e rapido. Verifica dell’ambiente, sua sistemazione. Illuminazione di massima. Prove con gli attori sino a quando la scena risulti messa a punto. Poi un’ultima ripetizione mentre mi metto la cinepresa in spalla e mi sposta via via nei punti di ripresa, indicando all’operatore in quante posizioni e inquadrature la scena verrà successivamente scandita. Ultima messa a punto delle luci, trucco eccetera e inizio riprese, cominciando dalla prima inquadratura, fissa o più probabilmente mobile. Anche durante le riprese di “Incantesimo”, per il quale fui di nuovo catapultato nella liturgia che avevo precedentemente contribuito a smantellare, non riuscivo a restare immobile davanti al monitor di controllo ma dovevo correre accanto al cameraman per guidarlo da vicino.
Parlavo di liturgia. Nel lavoro seriale, collettivo e industrializzato di “Incantesimo”, mi scontrai di nuovo con tutto l’apparato formale, nel bene e nel male. Un rider personale mi prelevava e mi riaccompagnava a casa a fine riprese. Oltre all’aiuto regista, la brava Marina Mattioli, avevo una validissima segretaria di edizione – dato che il montaggio avveniva altrove per meno di sconosciuti, anche se poi lo rivedevo e correggevo prima del via finale – nonché una volonterosa e simpatica assistente che era la figlia del regista Sollima nonché sorella dell’altro Sollima. In compenso avevo da gestire attori e personaggi che si moltiplicavano ogni giorno, con un ruolino di marcia impegnativo. Ma  cercavo di evitare la routine tentando di  conservare il gusto dell’invenzione e della scoperta,
A conclusione di queste note, nelle quali - parafrasando Zavattini - ho parlato “tanto di me”, direi che non mi sono mai sentito vicino a certe figure un po’ stantie e un po’ vignettistiche, quelle del cosiddetto “regista con gli stivali”, oppure del regista in crisi d’invenzione e alla ricerca spasmodica del punto di ripresa, del regista che pianta grane se un vasetto o altroinsignificante accessorio che desiderava fosse rosso lo trovava verde, del regista che strapazza le attrici in tutti i sensi, e vuol competere in simpatia con tutti. E mi sono sempre sentito sempre sostenuto, apprezzato e - scusatemi il termine - amato da tutti o quasi i miei collaboratori e attori. E con questo basta, parliamo d’altro. 
(L.C.)

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