domenica 25 agosto 2019

AI CONFINI DELLA REALTA'


Se dovessi inventarmi una storia, per celebrare il ritorno furioso del caldo in questa giornata, penserei a un’avventura tipo quelle della serie “Ai confini della realtà”, a costo di inventare il già inventato. Facciamo la prova: Tizio si sveglia di colpo ritrovandosi in un letto non suo.  Sembra l’inizio del mio telefilm “Mazurka di fine estate” del ‘72. Tizio corre alla finestra, disserra le persiane vecchio stile, tutte daghe di legno, e guarda fuori scorgendo non il solito prevedibile paesaggio urbano ma un’ampia pianura dove cavalli selvaggi galoppano verso un orizzonte di fuoco, insomma una scena da Far West estremo. Altra scena che mi ricorda l’immagine analoga di un film, quella del cow boy che, aprendo l’uscio, scopre l’ampia prateria. Resistendo alla voglia di varcare la soglia e uscire all’aperto, il Tizio del mio racconto accosta di nuovo le persiane e si sposta in cucina. Apre la porta di servizio e, meraviglia!, si trova in piena centro di una città moderna brulicante di grattacieli. Ma alzando lo sguardo, vede il cielo solcato da pterodattili, quei terrificanti uccellacci preistorici un po’ pipistrelli e un po’ dinosauri. E siamo di nuovo in camera da letto: richiude le imposte: prigioniero nella propria o altrui casa! Da dove arriva e dove si trova? Ha un solo modo per risolvere il problema, ricorrere alla solita fidata tv che non mente mai. Ce ne sarà almeno una in quella sconosciuta dimora! Certo, nell’odioso salottino anni Cinquanta con il divanuccio ricoperto, la poltroncina sfondata e i giocattoli dei bimbi a terra. Tutto gli farebbe pensare a una casetta e ad una famigliola entrambe borghesi se non ci fossero gli pterodattili nel cielo. E che gli dice la tv? La terrificante notizia della conquista in fase avanzata del mondo  civile – praticamente del pianeta Terra - ad opera dagli alieni di un lontano pianeta contrassegnato da un suono gutturale che somiglia a un “rurrr”. Già completato il totale spostamento degli umani residui nel nuovo territorio astrale, perfezionato con i loro ricordi e con le immagini del mondi che conoscono, Quindi – deduce Tizio – anche lui non è che uno dei trasportati, ma evidentemente, durante il trasporto, devono aver fatto confusione, piazzandolo nel ricordo di una casa non sua e collocandola in ambienti e panorami non consequenziali né congrui. Colpa della tecnologa digitale che fa presto a far casino. Quindi il nostro Tizio sarà costretto a ritracciare le collocazioni e le coordinate della sua vita passata. Ma chissà dove sono andate a finire? Dove sarà l’immagine del suo studio civettuolo, della campagna che lo circondava, e prima ancora, dove sarà finita la sua compagna e il suo bambino? Il compito si presenta arduo. Ricerca di conviventi reali e ricerca di immagini, cioè luoghi e ambienti, in cui ricollocarsi. Certo questi alieni del pianeta rutto debbono essere un po’ alla carlona. Più abili a creare software che a mettere a punto le loro applicazioni, E qui potrei inventarmi tutte le fasi di questa spasmodica caccia. I raduni di massa, i concerti rock e affini, le partite di calcio, sempre alla ricerca di persone e sfondi. E prima di tutto la casualità. Trovare il modo di far scivolare via questi panorami, le stanze della sua pseudo-casa per vedere cosa c’è sotto o rivolgersi all’ufficio reclami e sfondi smarriti, ammesso che esistano sia il primo che il secondo. Pensate che meraviglioso cervellotico romanzo potrebbe venirne fuori! E se lo scrivessi per davvero? Mi sorge un dubbio: non sarà che anch’io, come sedicente scrittore, sia un po’ legato a schemi vecchiotti e superati? Quanto sarebbe fuori moda un romanzo come questo? Certo, per renderlo attuale ed accettabile alla critica avvertita e ai lettori intelligenti, potrei sempre trovare il modo di metterci dentro l’emigrazione dal pianeta, il respingimento dei clandestini, la richiesta di risarcimenti in nome della giustizia sociale, la rivolta araba, la richiesta di nuove elezioni. In poche parole riportarlo dentro i commestibili profili del romanzo social-civil-political. Ce la potrei fare?
(Leandro Castellani)

domenica 18 agosto 2019

HORROR A FANO


La frequentazione con il cinema, sin dagli anni dell’infanzia, mi ha insegnato a incasellare sensazioni e ricordi in quei comodi cassetti che la pubblicistica definisce “generi”, cinematografici o di narrativa che siano. Cosa sono i generi? Schemi narrativi su  disporre una storia. C’è il genere “giallo” – ricordo di aver conosciuto a Cattolica il creatore, se non del “genere”, almeno del colore che poi individuò un genere per una famosa collana editoriale, Era un signore molto simpatico, alto una spanna. Come Danny De Vito per intendersi, incontrato molti anni dopo negli USA. Un vero nano. Ma di giallo, cioè di polizieschi e di thriller, Corrado Tedeschi  sapeva tutto, e ne bruciava come lettore, per scegliere i testi da far tradurre, tutto quello che via via si produceva in Inghilterra, patria ideale, e in America, patria attuale.
Torniamo ai “generi”, un  cassetto per il giallo, un altro per l’horror. C’era l’horror a Fano? Quanto ne volevi! Quello codificato, come la carrozzaccia dei Martinozzi che ogni notte partiva dal retro del palazzo omonimo in via Arco d’Augusto, percorreva a galoppo sfrenato tutto la strada, non corta ma neanche chilometrica, si buttava nel fossato fra l’Arco sunnominato e la facciata della Chiesa di San Michele, in quel fossato, allora chiuso da un’inferriata ma che evidentemente non era di ostacolo alla carrozzaccia e al suo diabolico cocchiere, Come facesse poi a rientrare nella stessa nottata alla base di partenza non è dato saperlo.
Più avanti arrivò l’horror dei bombardamenti, delle vittime, della guerra, della invasione e delle occupazioni, tutti horror vissuti “in diretta” si direbbe oggi. Le nuove generazioni di oggi, fortunatamente per loro, non hanno più di questi horror e debbono ricorrere a quelli posticci importati dagli Usa, cioè Halloweeen, Dolcetto o scherzetto? Il nostro grande cimitero comunale non è mai stato funestato o coinvolto da leggende orrifiche. Da noi i morti sono rispettati e amati, basti vedere l’assiduità delle visite d’inizio novembre, la cura dei fiori e delle luci. Non saranno i bei giardini accattivanti - e vorrei dire invitanti - dei cimiteri tedeschi o le atmosfere zuccherose di quelli americani, ma sono una cosa seria, oggetto di incontro e di rinnovata casta commozione.
Ma un horror vero, di quelli da quattro soldi creati da un volonteroso e fecondo cialtrone che si chiamava Roger Corman, avrei voluto crearlo anch’io. Horror tutto fanese, con Dracula che spunta dai sotterranei di Vitruvio, quelli a cui si accede da una  porticina a mo’ di edicola che interrompe le scale di Sant’Agostino. Ecco, a mezzanotte inoltrata, la porticina si apre e una sagoma nera percorre velocemente la stretta via Vitruvio, attraversa Piazza degli Avveduti, addossandosi alla parete del Politeama per non rischiare di essere investito dal passaggio veloce della carrozzaccia e poi gira per Piazza del mercato, s’inoltra nella strada che conduce in Piazza XX settembre e là, sotto i portici del palazzo della Ragione, sosta un po’. Ma niente passaggio di verginelle. E deve riprendere il cammino, un tratto di corso poi via de Rusticucci, si tiene lontano da Santa Maria Nuova per ragioni  di evidente opportunità... E qui dovrei continuare a inventare con più fantasia, incontri, agguati, appostamenti, sorseggiamento di passanti di genere femminile, sino a quanto la campana di un inesistente campanile, forse uno di quelli fatti crollare dai tedeschi, lo richiama all’ovile prima che sorga il sole.  Un po’ monotono come horror. No, se vi aggiungessi spettri vari, immagini di animali fantastici risorti dai mosaici romani nascosti nei sottosuoli di via Francesco d’Assisi, gli spiritelli malefici usciti a fronte dai ruderi della chiesa omonimo, e poi un volo di streghe cavalcanti le relative scope a far carosello attorno al tozzo torrione di San Pietro. Un horror coi fiocchi, da girare una notte o forse due grazie alle nuove tecniche digitali che possono fare a meno delle luci o usarne molto poche purchè in modo avveduto.  
(Leandro Castellani)

mercoledì 14 agosto 2019

IL MESTIERE DEL REGISTA - 7. LE COMPARSE


La scelta delle comparse viene di solito affidata all’aiuto-regista e gestita dai capi-gruppo, funzione che ha qualche analogia con il caporalato. A molte selezioni presiedetti io stesso. Un po’ di apprensione quando riconoscevo fra quei volti anonimi, alcuni di quelli divenuti – forse loro malgrado – famosi, tipo la mitica Franca Scagnetti che si presentava con modestia alle selezioni ma era detentrice addirittura di un Nastro d’Argento – l’Oscaretto nostrano -, o altri volti altrettanto noti ma senza nome.  La liturgia farlocca della macchina cinema vuole che “le comparse”, vale a dire i “figuranti”, vengono distinti dai “figuranti speciali”, quelli che non si limitano a passeggiare su e giù per la “location”, ma si impegnano in qualche azione un po’ più complessa, come abbracciare il protagonista o fingere di parlare con lui. Fingere senza dir nulla perché se lo salutano a parole o pronunciano la tradizionale battuta “il pranzo è servito” salgono sindacalmente nella categorie attori. Ecco il perché  di tanti saluti o ringraziamenti a bocca chiusa…
Altro elemento rituale – quasi sacrale, direi - entrato di forza nella mitologia del cinema, è il “ciak”, cioè quella tavoletta nera dove vengono riportati, oltre ai dati essenziali - titolo, produzione, regia, fotografia - il numero della sequenza e dell’inquadratura e delle ripetizioni della medesima. Il caratteristico rumore del ciak è ottenuto battendo la barretta mobile inferiore all’altra e lasciandola poi ricadere: il contatto dura un istante ma questo contatto serve a stabilire con esattezza il punto di contatto fra immagine e suono, ed verrà utile per sincronizzare suono e immagine. Io mi sono divertito molte volte, nelle produzioni gestite da me, a ironizzare su questo strumento sacrale, omettendo nella fretta di usarlo e sostituendolo con una battuta di mano o con lo schiocco delle dita. Tanto poi il montaggio lo avrei fatto da solo, riconoscendo al volo quanto e cosa avevo girato, e sincronizzando suono e immagine con la prima “labiale” di un attore. Nella nuova tecnica di ripresa digitale il ciak non serve decisamente a nulla, ma chi rinuncerebbe a questo accessorio che fa parte della storia ed anche della leggenda?
(L.C.)