Per
la serie “meglio tardi che mai” ho visto alla tv il film della Campion sia pure
sepolto sotto un’ignobile marea di invasioni, più che di interruzioni,
pubblicitarie. Un film che avrei dovuto e voluto vedere a suo tempo (1997:
vent’anni fa) e che visto oggi sembra una rara perla nel mare dello scontato e
dell’odierno pseudo cinema. Da un racconto di Henry James, la regista
neozelandese Jane Campion trae piuttosto fedelmente una parabola di una finezza
che oserei chiamare calligrafica se non fosse suffragata da uno studio
stupefacente degli ambienti e dei personaggi. La cura delle inquadrature, la
scelta dei campi visivi, i movimenti degli attori, la loro conduzione, la
finezza delle notazioni psicologiche sono i meriti di un film, in cui lo
strumento cinema si fa “camera stylo” per usare in modo improprio ma
giustificato la definizione cara ai leoni della “nouvelle vague”, per proporci
il ritratto di donna insicura, che soffre senza darlo a vedere ed è punita dall’amore.
Ambientata nella provincia inglese del 1870, questa scorribanda nella psicologia
di una giovane perennemente inquieta che si arrende a un destino femminile tra
aspirazioni e delusioni e vive la sua giornata di aristocratica nel circuito
delle mete più ambite, da Londra a Firenze, a Roma, si dipana fra scenografie e
arredamenti curatissimi che però non prevaricano mai sul racconto e sulla
definizione del personaggio: una donna manipolata dalla crudeltà del marito
squattrinato e della sua amante. Nicole Kidman è nel pieno delle sua forza
espressiva quanto contenuta, attorno a lei un grappolo di attori di
prim’ordine, da Sir John Gieldgud, a John Malkovich, a Barbara Hershey, a
Shelley Duval, a giovanissimi allora alle prime armi come Viggo Mortensen e
Christian Bale. Qualche autocompiacimento di troppo, qualche immagine inutilmente
elucubrata, ma chi se ne frega!
lunedì 18 aprile 2016
domenica 17 aprile 2016
IL GRANDE GATSBY
Avevo
molto apprezzato, esattamente vent’anni fa, il primo film di Baz Luhmann, “Romeo
+ Giulietta di William Shakespeare”, una Giulietta e Romeo per gli anni
duemila, in una Verona Beach americana lacerata fra imperi d’affari e bande di
dropout ma con amori e tensione giovanili non lontane da quelle evocate in
maniera mirabile dal Bardo. Ma il secondo film del regista australiano fu per
me una doccia fredda. Il mito del “Moulin Rouge !” (2001), resuscitato in modo rutilante e visivamente
post-moderno in una Parigi a metà fra il manifesto pubblicitario e il kitsch
dichiarato, un album di figurine molto colorato ma poco evocativo, nonostante
le presenza carismatica ma ingombrante della diva Nicole Kidman, nel pieno del
suo appeal, la rivisitazione della “Traviata” di Verdi con la riproposta di
alcuni fra i più celebrati motivi dell’universo musicale americano. Tema conduttore
la presenza dell’io narrante nella figura del giovane ingenuo e sprovveduto Ewan
McGregor alla conquista del paradiso di perdizione parigino. Ritrovo un leit-motiv
molto simile in questo “Il grande Gatsby” che ho occasione di vedere con circa
tre anni di ritardo rispetto alla sua uscita (2013). E ritrovo, possibilmente ingigantiti,
gli stessi difetti che avevano contrassegnato l’esasperata incursione di Luhmann
nel mito di Parigi, in questa incursione in un altro mito, quello dell’età del
jazz – ma del jazz qui non c’è nemmeno l’ombra -, dei ruggenti anni Venti e del
mondo di Francis Scott Fitzgerald, qui alla sua quarta traduzione
cinematografica. Evocato con gli stessi metodi: un assemblaggio rutilante di immagini,
un gusto cartellonistico visivamente abbagliante e decisamente kitsch nel
giustapporre senza sosta una miriade di pupazzetti, ritagliati e inseriti in un
sfondo da cui non riescono ad emergere, una scenografia impazzita, una fotografia
che imita non il ricordo ma il bozzetto a colori del ricordo e non conosce
ombre e chiaroscuri, un’esasperazione di effetti speciali, di espedienti di montaggio
digitale, elementi tutti che non riescono a far levitare la storia, nonostante
i 105 milioni di dollari del budget (e debbo dire che si vedono). In questo bailamme produttivamente impegnativo
quanto artisticamente carente i personaggi non riescono a decollare: Tobey Maguire,
coinvolto in una pleonastica e ingombrante cornice narrativa, è il solito
giovane complessato alla conquista del mondo, ruota inutilmente gli occhi e
moltiplica le grimages; il bravo Leonardo Di Caprio, coinvolto anche lui nel
sinistro, non riesce a rendere come vorrebbe e dovrebbe la presenza gigantesca
ed evocatrice che Scott Fitzgerald e il regista avrebbero voluto. Si salva
qualche personaggio minore, come la biondina Carey Mulligan o il vilain Joel
Edgerton. No, questo Luhmann non ci piace e non ci convince. Il suo
caravanserraglio non provoca alcuna emozione nonostante i rutilanti incassi e
le lodi di certa critica americana.
sabato 16 aprile 2016
LUI E' TORNATO
Il
film è un colossale pasticcio, non si capisce bene se voluto o venuto fuori per
sbaglio, ma non si può ignorarlo. Tratto da un libro dello scrittore tedesco
Timur Vermes, che suscitò reazioni e scalpore ma vendette duemilioni e mezzo di
copie nella sola Germania, il film evita la relativa linearità del testo da cui
è tratto per avventurarsi in un racconto fatto per ellissi, per suggestioni, evitando
troppe spiegazioni e note a margine: Hitler resuscita tra i cespugli fioriti di
una tranquilla zona residenziale della Berlino di oggi, dove si suppone si
trovasse il bunker in cui si suicidò nel 1945, e si aggira un po’ sperduto fra
la gente. Suscita ironie, confuso per un qualche bontempone che abbia avuto la
faccia tosta di indossare abiti desueti e di sfidare sia il rancoroso ricordo di
qualche vecchio che la beffarda ironia delle nuove generazioni. Si propone di
tornare alla testa della nazione, vuole ricominciare da capo la scalata
politica? Un giornalista-tv messo alla porta dal suo redattore pensa di farne il
personaggio per un film televisivo trascrivendo in termini di racconto la
storia del suo ritrovamento e il senso
della sua presenza. E nel nostro film cronaca e ricostruzione si alterneranno in
maniera pressoché casuale: quando quell’anziano con baffetti a toppa e divisa è
proprio Hitler e quando è semplicemente un attore, anzi una comparsa? Quando il
suo mentore giornalista è se stesso e quando è l’attore che lo interpreta? Alla
fine Hitler, i cui deliranti interventi razzisti, nazionalisti e antisemiti
vengono accolti alla rovescio, come una satira caustica contro il nazismo,
precipiterà dall’alto di un moderno grattacielo. Ma no, finzione, è sola una
scena del film e tutto finisce con una festa di fine lavorazione. E invece no,
ancora un rovesciamento: si tratta soltanto del vaniloquio di un cronista pazzo
rinchiuso in manicomio (ricordate la conclusione posticcia del “Gabinetto del
Dottor Caligari”?) Dunque una bella e voluta confusione che attutisce il senso
del film, inteso come una icona mediatica della società tedesca contemporanea,
nella quale la critica a un presente imbastardito e problematico viene corretta
quando potrebbe farsi troppo audace. Di qui la programmatica rinuncia a ispirarsi
al libro di Vermes per una pedissequa trascrizione cinematografica e la scelta
di una riproposta sui generis, quasi estemporanea, che ricorre anche a moduli
documentaristici, usa frammenti di repertorio e di telegiornale, e addirittura
tecniche da candid camera per fissare le reazioni spontanee della gente, in un
voluto centone. Un film di destra o di una generica sinistra?
Da
notare il doppiaggio, particolarmente sciatto e approssimato: si doveva e
poteva far di meglio.
venerdì 15 aprile 2016
DEXTER
Sadismo,
necrofilia, ostentazione del sangue costituiscono la (macabra ?) liturgia di
una delle serie più fortunata e longeva dell’odierna televisione, prodotta
negli USA dal 2006 al 2013 (otto stagioni) e distribuita anche dalla tv italiana. Dexter
è un tranquillo e metodico tecnico della polizia di Miami, una sorta di agente
della scientifica, adibito all’esame delle tracce di sangue ritrovate accanto e
sui cadavere, atte a individuare i probabili assassini. E di conseguenza è alla
caccia di uno o più serial killer che costituiscono una minacciosa quanto
continua presenza in quella zona pericolosa di Miami. Ma in realtà l’assassino
efferato è proprio lui, che vive una seconda impensabile doppia vita: uomo di
legge il giorno, ma inflessibile giustiziere di notte, un feroce e spietato serial
killer, che però agisce seguendo un proprio rigoroso codice: uccidere soltanto criminali
che sono sfuggiti alla giustizia, i delinquenti impuniti di cui è seminata l’odierna
società. Con un macabro rituale lo psicopatico Dexter seziona le sue vittime e
ne disperde il cadavere in pezzi. Attorno a lui una corona di personaggi. Una
sorella adottiva, poliziotta anch’essa, tutta una squadra di piedipiatti, la
sua compagna, separata e madre di due bimbi a cui Dexter fa da padre amoroso e
altre figure che si alternano nel corso delle varie stagioni. E inoltre l’ombra
di un padre che, anche dopo la scomparsa, proietta il suo fascino oscuro e morboso
sul proprio figlio: avendo compreso molto presto che Dexter è un sociopatico
e un potenziale serial killer ha cercato di evitargli un futuro carcere o la sedia
elettrica, insegnandogli a incanalare gli impulsi violenti verso chi
"se lo merita". Ma l’elemento distintivo quanto singolare della lunga
serie è la chiara ambivalenza negativo-positiva del protagonista: efferato
sadico killer e insieme giustiziere spietato di tutti i malvagi e i manigoldi destinati
a restare impuniti perché inafferrabili dalle maglie larghe della giustizia, in
breve con l'ossessione di voler uccidere chi merita di essere ucciso. Anche
nella fisicità dell’ottimo attore prescelto ad interpretarlo, in quel suo
sguardo ambiguo e sfuggente, talora ottuso talora indefinibile, quasi
malizioso, il personaggio Dexter rivela questa continua duplicità che si
trasferisce nella complessa ed altrettanto equivoca disposizione morale dello spettatore,
sballottato fra attrazione-repulsione e costretto ad infrangere i consueti
confini di giudizio fra bene e male, quei confini che cinema e tv hanno stabilito
per anni in termini piuttosto manichei. Forse il successo della serie riposa
proprio nella repulsione-ammirazione per un personaggio che spezza i suoi ed i
nostri rigidi confini morali: un serial
killer che assume i connotati di un
eroe. Presi nel gioco, come spettatori temiamo addirittura che possano scoprirlo
bloccando il suo macabro compito, lo amiamo e detestiamo allo stesso
tempo. E con uno stomaco ormai aduso
allo splatter subiamo necrofilia e sadismo nel corso di un sereno divertimento
serale. Michael C. Hall, l’attore che interpreta Dexter, ha dichiarato che non
farebbe mai vedere il serial a suo figlio prima che abbia compiuto 14 anni (!).
mercoledì 13 aprile 2016
DOCTOR FOSTER
Scritta
da Mike Bartlett e suddivisa in cinque puntate la serie è stata distribuita in
Inghilterra nel 2015 e giunge ora anche in Italia grazie a Netflix. La BBC ci
insegna come una trama apparentemente da classica “fiction”, basata su un
triangolo di infedeltà coniugali, insomma su una di quelle vicende che, una
volta riassunte in poche righe, si potrebbero considerare scontate, possa invece,
grazie a un’accurata sceneggiatura, una rigorosa regia e un scelta esemplare
degli interpreti, trasformarsi in un piccolo gioiello. Alla BBC il gioco
riesce, se non sempre, molto spesso e questa “Doctor Foster”, incentrata su un
personaggio femminile interpretato dalla incisiva Suranna Jones, ne è l’ennesima
dimostrazione. Gemma è una donna dalla vita apparentemente perfetta: un ottima
professionista, un matrimonio felice. Presto però il sospetto che il marito frequenti
un’altra donna rovina l’armonia. Quella che doveva essere una relazione
extra-coniugale, si rivela un terribile scoglio, tale da sconvolgere la vita. La serie sviluppa il gioco
fra sentimenti ed evasioni erotiche in un giro di amici che si rivelano meno
“amici” del previsto e fra cui prendono vita rancori, tradimenti, disillusioni.
Ma è soprattutto sul ritratto di Gemma, che tenta disperatamente di salvare un matrimonio in frantumi per poi
rivelarsi una inflessibile giustiziera, che la serie può puntare, non negandosi
a una serie di colpi di scena e ad incisivi “dialoghi drammatici” sostenuti da attori
di grande professionalità. Una considerazione accessoria: perché l’italica fiction
“sentimentale” sembra sempre rinunciare in partenza a inseguire un livello
minimo di qualità nei dialoghi e soprattutto nella cura degli interpreti? La
BBC è la BBC anche quando affronta temi e contesti per un pubblico
prevalentemente femminile e un po’ da melodramma borghese, senza praticare
sconti.
martedì 12 aprile 2016
MAI PIU'
1923: il creatore di Sherlock
Holmes e il grande Houdini intraprendono insieme una spietata caccia
all’omicida seriale che a New York si diverte a seminare cadaveri ispirandosi
ogni volta a un racconto di Edgar Allan Poe. La caccia si fa spericolata, fra
maghi e medium, fra gli scettici e fra coloro che credono possibile stabilire
un contatto con i defunti. E’ noto come Houdini abbia condotto aspre battaglie
per smascherate falsi medium e santoni, mentre al contrario lo scrittore
inglese Sir Conan Doyle fu uno strenuo fautore dello spiritualismo e i due
sostennero opposti pareri in una famosa diatriba. Nel 1923 il papà di Sherlock
si trovava appunto negli States per diffondere, con una serie di conferenze, le
nuove teorie sulla sopravvivenza. Così nel suo romanzo “Mai più” William
Hjortsberg, scrittore e sceneggiatore statunitense, gioca fra realtà e fantasia
mescolando frammenti di verità a una vicenda d’invenzione e creando un giallo
che proprio un giallo non è. L’avventura si sviluppa in un’aura di mistero
quando entra in scena, a dialogare con Conan Doyle, ma unicamente con lui,
anche il fantasma di Edgar Allan Poe: autentico spirito o fantasia,
immaginazione o divinazione? Un romanzo singolare, inconsueto e di intrigante
lettura che è anche uno squarcio su un’epoca resa efficacemente nell'atmosfera
e nelle ambientazioni.
CRIMINALI DA STRAPAZZO
Chi l’ha detto che uno spettatore
non possa fare recuperi? Un tempo non si poteva: prime visioni, seconde, terze
e poi l’oblio. Ma oggi no. Fine della premessa. Ho rinvenuto “Criminali da
strapazzo”, un Woody Allen targato 2000. Una commedia con i dovuti
sconfinamenti nella comicità, uno di quei recuperi dei film di “genere” ma
fatti alla Woody, facendo il verso e insieme rovesciando logiche e stilemi. La
sterminata filmografia di Woody Allen, fatale come le tasse e il cambio di
stagioni, ci ha abituati a questi cambi di registro alternando film comici,
commedie e film sentimentali, sconfinamenti nell’assurdo e recupero dei
“generi” appunto, il tutto reso incandescente - quando funziona - dalla presenza
di quel personaggio stranulato, complessato, sessuomane, psicopatico,
logorroico che è lui stesso. Negli ultimi tempi l’obbligo di non mancare
all’appuntamento annuale ha portato talvolta Woody Allen a “sbrodolare” storie
un po’ abborracciate, che non funzionano, l’ultimo esempio è del 2012, il
cosiddetto omaggio alla nostra Roma. Ma qui, in questo “Criminali da
strapazzo”, Allen è ancora nel pieno delle forze, battute e situazioni sono brillanti,
e così gli attori, con l’eccezione dell’illustre “guest star” Hugh Grant, che
appare spento e a disagio, quasi avesse fatto il film per forza, Questi
microcrimimali fanno fortuna grazie alle virtù culinarie di una moglie
pasticcera, che però cade preda della sindrome dell’arricchita e, nella
speranza di raffinarsi per avere accesso al bel mondo, finirà preda degli
sciacalli e verrà derubata, mentre suo marito, ladro maldestro e pasticcione, si
confonde sulla refurtiva e scambia una collana falsa per quella vera. Così si
va verso un finale che è un lieto fine come tutti i finali in cui si parla di azzerare
tutto e ricominciare.
martedì 5 aprile 2016
CASCHE' - Incipit
Inizio da oggi a proporre saltuariamente
gli incipit dei miei inediti, come offerta agli Editori in cerca di opere
valide. E comincio con “Caschè”, ambientato a Rimini e nella riviera romagnola:
il racconto dolce-amaro di un’estate con i suoi amori, gli imprevisti, le
avventure, i drammi, in un sapiente incastro di situazioni e personaggi. E
insieme il singolare dipanarsi di un ”giallo” anomalo, fra incubo e realtà,
eccitante clausola alla vicenda di una stagione sull’Adriatico
Non c’era neppure uno straccio d’amico ad attenderlo fuori da Rebibbia, quel carcere civettuolo nella linea e affidabile nella struttura con celle degne di un hotel di Dubay. Appena il cancello iniziò ad aprirsi elettronicamente Flor sgusciò fuori di traverso, senza dar tempo al varco di schiudersi del tutto. Un giovane dinoccolato, faccia da ribelle e capelli fluenti sulle spalle da sessantottino ritardatario, anche se era improbabile che nel fatidico sessantotto e dintorni fosse già nato e neppure concepito.
Anni appartenuti a suo padre, ardente rivoluzionario
da barricata. Ne conservava le foto, scattate dalla polizia o da qualche
reporter d’assalto sulla gradinata dell’università, a Valle Giulia, durante i
giorni infuocati della contestazione: suo padre, circondato da scudi e manganelli,
la bocca spalancata in un grido di rivolta, la chioma ribelle sulle spalle, le
braccia spalancate. Forse era per attaccamento a quelle immagini che portava i
capelli lunghi anche lui, in una foggia ormai desueta.
Quel padre non l’aveva mai conosciuto, si può dire.
Perso a tre anni. Un giovane docente d’architettura un po’ ribelle anche sulla
cattedra, renitente ad ogni ingiustizia e ad ogni baronia, che aveva finito per
stingere la propria collera dirottandola in articoli involuti su riviste di estrema
sinistra, in rigoroso linguaggio paleomarxista.
Il figlio invece era cresciuto tranquillo, affidato
alla madre e ad una zia, unico maschietto in un consesso tutto femminile. E
alla passione paterna per l’auspicata vittoria del proletariato aveva sostituito
la passione per la musica.
Flor reggeva la custodia rigida del sax. Glielo
avevano restituito all’uscita di galera assieme al portafoglio – vuoto – e alla
cintura borchiata, un po’ da metallaro. Qualche giorno di carcere gli aveva
fatto bene, dandogli il tempo di riflettere. O forse no?
Certo era stata colpa sua. Nessun dubbio che quei
giorni in gattabuia se li fosse meritati. Colpa sua e un po’ dell’esaltazione
di cui era preda quando si librava nei suoi funambolici assolo di sassofono. La
tanto decantata scarica di adrenalina. Con l’ausilio di qualche spinello fumato
un po’ in fretta, chiuso nella latrina del cosiddetto night. Fatto sta che il
gestore di quel localaccio romano – una sorta di pub truccato da squallida minidiscoteca - lo aveva trovato in atteggiamento
inequivocabile con l’entreneuse – ma adesso le chiamavano hostess oppure escort
- da cui il suddetto gestore era sicuro di ottenere prestazioni professionali
ed erotiche in regime di esclusiva. Aveva reagito male e Flor aveva
controreagito anche peggio, prendendolo a pugni, rompendogli il naso e
facendogli saltare due denti. (...)
(Leandro
Castellani)
lunedì 4 aprile 2016
SCRIVERE ALLA MODA
Vorrei
scrivere un nuovo romanzo. Ma di quelli che vanno di moda ora: con molte scene
sexy, stupri, violenze carnali o amori appassionati. E poi omosessuali, deboli
e frustrati o potenti e dominatori. Amori omosex fra maschietti e tra
femminucce. Cosa ancora? Un po’di buonismo, una shakerata di mode radical chic,
un antirazzismo così assoluto e apodittico da diventare razzista… Non
dimentichiamo i delitti e i serial killer. Già, ma il tutto dovrebbe convivere
con quel gusto per le vicende della storia, possibilmente molto trapassate, che
mi contraddistingue.
Finalmente
mi sembra d’aver trovato l’ispirazione per far incontrare le varie istanze: un
romanzo sullo “Jus primae noctis”. Idea fulgida! Quasi quasi comincio subito.
Vediamo!
Dunque
Sir Lancillotto da Lugo è il signore feudale più prepotente e sessista che
ospiti la Romagna. I suoi sottoposti, gente del contado, contadinotti ma anche
artigiani e piccoli professionisti, debbono soggiacere alla dura legge
stabilita da un suo remoto antenato e divenuta tassativa: ogni giovanetta che convoli a nozze con un
residente deve cedere il proprio pulzellaggio al locale feudatario, cioè a lui,
pena la morte praticata nei modi più atroci: squartamenti, evirazioni,
sbudellamenti, garrote, mannaie e ghigliottine.
Ed
ecco che, a nozze celebrate e benedette da apposito abate, la sposina viene
accompagnata a castello dal genitore o dallo stesso neo consorte. La consegnano
all’ingresso, ricevono regolare ricevuta poi si ritirano a piangere e disperarsi
in separata sede. La sposina sale le scale e, introdotta da apposito scudiero,
varca la soglia dell’appartamento privato a tal uopo riservato. Staziona nella
confidente attesa di essere ricevuta dal feudatario - un po’ d’educazione, che
diamine!, - qualche preliminare, magari una cenetta a lume di candela prima
della cerimonia della deflorazione. E invece no. A riceverla c’è la nutrice del
Duca, una zitellona ultraquarantenne ma piacente, dall’apparenza e dai modi
moderatamente mascolini. “Vieni, vieni, caruccia, fatti preparare. Spogliati
pure, ma un capo alla volta, con calma.” Insomma le richiede una specie di spogliarello
improvvisato, senza neanche bisogno dell’accompagnamento musicale. La tardona
segue con evidente interesse la svestizione, si umetta le labbra, freme di eccitazione
via via che le si svelano le nudità della fanciulla. “Un momento, carina, fammi
controllare se sei illibata”. Le si accosta, comincia ad accarezzarla, prima i
seni eburnei poi il pancino e poi più giù verso la vagina che spunta fra la
piccola boscaglia bruna. Già, perché nel medioevo la foresta del pube doveva
rimanere intatta e rigogliosa. La nutrice si spinge oltre, saggia la tenuta del
sesso: “Brava carina, sei proprio verginella, fatti consolare.” E la sposina deve
cedere agli abbracci birichini della nutrice.
Intanto,
con l’occhio schiacciato contro l’apposito pertugio a tal uopo praticato nella
parete, il feudatario ha spiato i preliminari amorosi della vogliosa fantesca e
insieme le procaci nudità della verginella a lui riservata e si è eccitato a
puntino, da bravo guardone professionista, tanto che arrivato al clou
dell’ispezione preliminare, a evitare il precipitare della situazione, preme l’apposito
pulsante per farsi recapitare la fanciulla senza ulteriori indugi. L’attende in
costume adamitico, già piazzato sul morbido giaciglio che si è fatto abbondantemente
irrorare di profumi. L’amplesso è immediato e la consumazione del frutto
altrettanto rapida. Qualche strilletto e, come sempre, la penetrazione, salvo
incidenti e casi particolari, è sbrigativa e abbastanza indolore. Segue un
piccolo rinfresco a base di frutta pregiate, vini liquorosi e bonbon
d’esportazione. Poi con calma il feudatario approfondisce la conoscenza carnale
che, con i necessari intervalli, si prolungherà sino al mattino successivo
quando la sposetta, rimpannucciata negli abiti nuziali e dopo il rituale
bacetto alla nutrice, verrà riconsegnata ai congiunti unitamente a una piccola
dote in dobloni, di solito proporzionale al godimento che il feudatario ne ha tratto. Questa la prassi.
Ma
erano sempre vergini le sposine? Dovevano esserlo, per almeno due motivi. Per
gli ammonimenti del santo sacerdote che raccomandava la castità e per gli
editti del feudatario che promettevano il taglio della mano o di un altro
accessorio ancor più utile in caso di riscossione anticipata da parte del
promesso sposo. Quindi tutte vergini. Al bisogno c’erano altri sistemi per far
felici i fidanzati.
Ma
ci fu un imprevisto. All’indomani della conclusione della lunga guerra con
Cesena, che aveva tenuto a lungo i guerrieri lontani dalle loro promesse, molti
dei reduci decisero quasi contemporaneamente di convolare alle agognate nozze. Per
il feudatario si prospettava un “tour de force” forse eccessivo. Come risolvere
il problema? Contingentare i matrimoni? Giovarsi di volenterosi aiutanti per il
rito delle deflorazioni? Ingerire quelle erbe preziose, di colore azzurrino,
delle quali il taumaturgo di corte vantava i prodigiosi effetti?
Il
signore ci pensò a lungo, ma non c’erano vie d’uscita e dovette assoggettarsi,
di buon grado oppure obtorto collo, alla corvée che peraltro trovava
particolarmente disponibile la solita nutrice addetta agli spogliarelli e alle
visite pre-coito.
Alla
fine del fatidico mese il Duca era stremato. Fu costretto a emettere un editto:
per ragioni di stato e di alta politica, visto l’eccessivo incremento delle
nascite nell’ultimo biennio, le stipule matrimoniali sarebbero state sospese
sino a data da destinarsi. I fidanzati venivano invitati a procrastinare cercando
legittimi piaceri in altre pratiche sessuali più sofisticate o godendo dei
vantaggi della castità. Il popolo non fu proprio d’accordo, ci furono mugugni,
tentativi di far recedere il monarca, ma niente da fare. I giovani più ardenti
tentarono di organizzare una spedizione in feudi limitrofi, svincolati dalla legge
capestro vigente nel feudo. Ci furono episodi tipo “ratto delle sabine” con
conseguente malumore fra le locali verginelle in attesa che si sentivano defraudate.
Stop!
Non ce la faccio più ad andare avanti. Sento già le critiche: vecchiume, chi se
ne frega del Medioevo. Potrei attualizzare il tutto: al posto del feudatario un
potente – industriale, banchiere, politico, produttore cinematografico –, al
posto della nutrice vogliosa la manager tutto fare del principale, di chiare
tendenze lesbiche, al posto degli sposi i precari, i lavoratori e i derelitti di ogni tempo.
Resterebbero fuori gli omosessuali di genere maschile, gli extracomunitari, i
politici di professione, i vegani. E allora: basta! Come romanziere non ci so
proprio fare!
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