lunedì 18 aprile 2016

RITRATTO DI SIGNORA



Per la serie “meglio tardi che mai” ho visto alla tv il film della Campion sia pure sepolto sotto un’ignobile marea di invasioni, più che di interruzioni, pubblicitarie. Un film che avrei dovuto e voluto vedere a suo tempo (1997: vent’anni fa) e che visto oggi sembra una rara perla nel mare dello scontato e dell’odierno pseudo cinema. Da un racconto di Henry James, la regista neozelandese Jane Campion trae piuttosto fedelmente una parabola di una finezza che oserei chiamare calligrafica se non fosse suffragata da uno studio stupefacente degli ambienti e dei personaggi. La cura delle inquadrature, la scelta dei campi visivi, i movimenti degli attori, la loro conduzione, la finezza delle notazioni psicologiche sono i meriti di un film, in cui lo strumento cinema si fa “camera stylo” per usare in modo improprio ma giustificato la definizione cara ai leoni della “nouvelle vague”, per proporci il ritratto di donna insicura, che soffre senza darlo a vedere ed è punita dall’amore. Ambientata nella provincia inglese del 1870, questa scorribanda nella psicologia di una giovane perennemente inquieta che si arrende a un destino femminile tra aspirazioni e delusioni e vive la sua giornata di aristocratica nel circuito delle mete più ambite, da Londra a Firenze, a Roma, si dipana fra scenografie e arredamenti curatissimi che però non prevaricano mai sul racconto e sulla definizione del personaggio: una donna manipolata dalla crudeltà del marito squattrinato e della sua amante. Nicole Kidman è nel pieno delle sua forza espressiva quanto contenuta, attorno a lei un grappolo di attori di prim’ordine, da Sir John Gieldgud, a John Malkovich, a Barbara Hershey, a Shelley Duval, a giovanissimi allora alle prime armi come Viggo Mortensen e Christian Bale. Qualche autocompiacimento di troppo, qualche immagine inutilmente elucubrata, ma chi se ne frega!

domenica 17 aprile 2016

IL GRANDE GATSBY



Avevo molto apprezzato, esattamente vent’anni fa, il primo film di Baz Luhmann, “Romeo + Giulietta di William Shakespeare”, una Giulietta e Romeo per gli anni duemila, in una Verona Beach americana lacerata fra imperi d’affari e bande di dropout ma con amori e tensione giovanili non lontane da quelle evocate in maniera mirabile dal Bardo. Ma il secondo film del regista australiano fu per me una doccia fredda. Il mito del “Moulin Rouge !” (2001),  resuscitato in modo rutilante e visivamente post-moderno in una Parigi a metà fra il manifesto pubblicitario e il kitsch dichiarato, un album di figurine molto colorato ma poco evocativo, nonostante le presenza carismatica ma ingombrante della diva Nicole Kidman, nel pieno del suo appeal, la rivisitazione della “Traviata” di Verdi con la riproposta di alcuni fra i più celebrati motivi dell’universo musicale americano. Tema conduttore la presenza dell’io narrante nella figura del giovane ingenuo e sprovveduto Ewan McGregor alla conquista del paradiso di perdizione parigino. Ritrovo un leit-motiv molto simile in questo “Il grande Gatsby” che ho occasione di vedere con circa tre anni di ritardo rispetto alla sua uscita (2013). E ritrovo, possibilmente ingigantiti, gli stessi difetti che avevano contrassegnato l’esasperata incursione di Luhmann nel mito di Parigi, in questa incursione in un altro mito, quello dell’età del jazz – ma del jazz qui non c’è nemmeno l’ombra -, dei ruggenti anni Venti e del mondo di Francis Scott Fitzgerald, qui alla sua quarta traduzione cinematografica. Evocato con gli stessi metodi: un assemblaggio rutilante di immagini, un gusto cartellonistico visivamente abbagliante e decisamente kitsch nel giustapporre senza sosta una miriade di pupazzetti, ritagliati e inseriti in un sfondo da cui non riescono ad emergere, una scenografia impazzita, una fotografia che imita non il ricordo ma il bozzetto a colori del ricordo e non conosce ombre e chiaroscuri, un’esasperazione di effetti speciali, di espedienti di montaggio digitale, elementi tutti che non riescono a far levitare la storia, nonostante i 105 milioni di dollari del budget (e debbo dire che si vedono). In  questo bailamme produttivamente impegnativo quanto artisticamente carente i personaggi non riescono a decollare: Tobey Maguire, coinvolto in una pleonastica e ingombrante cornice narrativa, è il solito giovane complessato alla conquista del mondo, ruota inutilmente gli occhi e moltiplica le grimages; il bravo Leonardo Di Caprio, coinvolto anche lui nel sinistro, non riesce a rendere come vorrebbe e dovrebbe la presenza gigantesca ed evocatrice che Scott Fitzgerald e il regista avrebbero voluto. Si salva qualche personaggio minore, come la biondina Carey Mulligan o il vilain Joel Edgerton. No, questo Luhmann non ci piace e non ci convince. Il suo caravanserraglio non provoca alcuna emozione nonostante i rutilanti incassi e le lodi di certa critica americana.

sabato 16 aprile 2016

LUI E' TORNATO




Il film è un colossale pasticcio, non si capisce bene se voluto o venuto fuori per sbaglio, ma non si può ignorarlo. Tratto da un libro dello scrittore tedesco Timur Vermes, che suscitò reazioni e scalpore ma vendette duemilioni e mezzo di copie nella sola Germania, il film evita la relativa linearità del testo da cui è tratto per avventurarsi in un racconto fatto per ellissi, per suggestioni, evitando troppe spiegazioni e note a margine: Hitler resuscita tra i cespugli fioriti di una tranquilla zona residenziale della Berlino di oggi, dove si suppone si trovasse il bunker in cui si suicidò nel 1945, e si aggira un po’ sperduto fra la gente. Suscita ironie, confuso per un qualche bontempone che abbia avuto la faccia tosta di indossare abiti desueti e di sfidare sia il rancoroso ricordo di qualche vecchio che la beffarda ironia delle nuove generazioni. Si propone di tornare alla testa della nazione, vuole ricominciare da capo la scalata politica? Un giornalista-tv messo alla porta dal suo redattore pensa di farne il personaggio per un film televisivo trascrivendo in termini di racconto la storia del suo ritrovamento  e il senso della sua presenza. E nel nostro film cronaca e ricostruzione si alterneranno in maniera pressoché casuale: quando quell’anziano con baffetti a toppa e divisa è proprio Hitler e quando è semplicemente un attore, anzi una comparsa? Quando il suo mentore giornalista è se stesso e quando è l’attore che lo interpreta? Alla fine Hitler, i cui deliranti interventi razzisti, nazionalisti e antisemiti vengono accolti alla rovescio, come una satira caustica contro il nazismo, precipiterà dall’alto di un moderno grattacielo. Ma no, finzione, è sola una scena del film e tutto finisce con una festa di fine lavorazione. E invece no, ancora un rovesciamento: si tratta soltanto del vaniloquio di un cronista pazzo rinchiuso in manicomio (ricordate la conclusione posticcia del “Gabinetto del Dottor Caligari”?) Dunque una bella e voluta confusione che attutisce il senso del film, inteso come una icona mediatica della società tedesca contemporanea, nella quale la critica a un presente imbastardito e problematico viene corretta quando potrebbe farsi troppo audace. Di qui la programmatica rinuncia a ispirarsi al libro di Vermes per una pedissequa trascrizione cinematografica e la scelta di una riproposta sui generis, quasi estemporanea, che ricorre anche a moduli documentaristici, usa frammenti di repertorio e di telegiornale, e addirittura tecniche da candid camera per fissare le reazioni spontanee della gente, in un voluto centone. Un film di destra o di una generica sinistra?  
Da notare il doppiaggio, particolarmente sciatto e approssimato: si doveva e poteva far di meglio.  

venerdì 15 aprile 2016

DEXTER



Sadismo, necrofilia, ostentazione del sangue costituiscono la (macabra ?) liturgia di una delle serie più fortunata e longeva dell’odierna televisione, prodotta negli USA dal 2006 al 2013 (otto stagioni)  e distribuita anche dalla tv italiana. Dexter è un tranquillo e metodico tecnico della polizia di Miami, una sorta di agente della scientifica, adibito all’esame delle tracce di sangue ritrovate accanto e sui cadavere, atte a individuare i probabili assassini. E di conseguenza è alla caccia di uno o più serial killer che costituiscono una minacciosa quanto continua presenza in quella zona pericolosa di Miami. Ma in realtà l’assassino efferato è proprio lui, che vive una seconda impensabile doppia vita: uomo di legge il giorno, ma inflessibile giustiziere di notte, un feroce e spietato serial killer, che però agisce seguendo un proprio rigoroso codice: uccidere soltanto criminali che sono sfuggiti alla giustizia, i delinquenti impuniti di cui è seminata l’odierna società. Con un macabro rituale lo psicopatico Dexter seziona le sue vittime e ne disperde il cadavere in pezzi. Attorno a lui una corona di personaggi. Una sorella adottiva, poliziotta anch’essa, tutta una squadra di piedipiatti, la sua compagna, separata e madre di due bimbi a cui Dexter fa da padre amoroso e altre figure che si alternano nel corso delle varie stagioni. E inoltre l’ombra di un padre che, anche dopo la scomparsa, proietta il suo fascino oscuro e morboso sul proprio figlio: avendo compreso molto presto che Dexter è un sociopatico e un potenziale serial killer ha cercato di evitargli un futuro carcere o la sedia elettrica, insegnandogli a incanalare gli impulsi violenti verso chi "se lo merita". Ma l’elemento distintivo quanto singolare della lunga serie è la chiara ambivalenza negativo-positiva del protagonista: efferato sadico killer e insieme giustiziere spietato di tutti i malvagi e i manigoldi destinati a restare impuniti perché inafferrabili dalle maglie larghe della giustizia, in breve con l'ossessione di voler uccidere chi merita di essere ucciso. Anche nella fisicità dell’ottimo attore prescelto ad interpretarlo, in quel suo sguardo ambiguo e sfuggente, talora ottuso talora indefinibile, quasi malizioso, il personaggio Dexter rivela questa continua duplicità che si trasferisce nella complessa ed altrettanto equivoca disposizione morale dello spettatore, sballottato fra attrazione-repulsione e costretto ad infrangere i consueti confini di giudizio fra bene e male, quei confini che cinema e tv hanno stabilito per anni in termini piuttosto manichei. Forse il successo della serie riposa proprio nella repulsione-ammirazione per un personaggio che spezza i suoi ed i nostri rigidi confini morali: un serial killer  che assume i connotati di un eroe. Presi nel gioco, come spettatori temiamo addirittura che possano scoprirlo bloccando il suo macabro compito, lo amiamo e detestiamo allo stesso tempo.  E con uno stomaco ormai aduso allo splatter subiamo necrofilia e sadismo nel corso di un sereno divertimento serale. Michael C. Hall, l’attore che interpreta Dexter, ha dichiarato che non farebbe mai vedere il serial a suo figlio prima che abbia compiuto 14 anni (!).

mercoledì 13 aprile 2016

DOCTOR FOSTER



Scritta da Mike Bartlett e suddivisa in cinque puntate la serie è stata distribuita in Inghilterra nel 2015 e giunge ora anche in Italia grazie a Netflix. La BBC ci insegna come una trama apparentemente da classica “fiction”, basata su un triangolo di infedeltà coniugali, insomma su una di quelle vicende che, una volta riassunte in poche righe, si potrebbero considerare scontate, possa invece, grazie a un’accurata sceneggiatura, una rigorosa regia e un scelta esemplare degli interpreti, trasformarsi in un piccolo gioiello. Alla BBC il gioco riesce, se non sempre, molto spesso e questa “Doctor Foster”, incentrata su un personaggio femminile interpretato dalla incisiva Suranna Jones, ne è l’ennesima dimostrazione. Gemma è una donna dalla vita apparentemente perfetta: un ottima professionista, un matrimonio felice. Presto però il sospetto che il marito frequenti un’altra donna rovina l’armonia. Quella che doveva essere una relazione extra-coniugale, si rivela un terribile scoglio, tale da  sconvolgere la vita. La serie sviluppa il gioco fra sentimenti ed evasioni erotiche in un giro di amici che si rivelano meno “amici” del previsto e fra cui prendono vita rancori, tradimenti, disillusioni. Ma è soprattutto sul ritratto di Gemma, che tenta disperatamente  di salvare un matrimonio in frantumi per poi rivelarsi una inflessibile giustiziera, che la serie può puntare, non negandosi a una serie di colpi di scena e ad incisivi “dialoghi drammatici” sostenuti da attori di grande professionalità. Una considerazione accessoria: perché l’italica fiction “sentimentale” sembra sempre rinunciare in partenza a inseguire un livello minimo di qualità nei dialoghi e soprattutto nella cura degli interpreti? La BBC è la BBC anche quando affronta temi e contesti per un pubblico prevalentemente femminile e un po’ da melodramma borghese, senza praticare sconti.

martedì 12 aprile 2016

MAI PIU'



1923: il creatore di Sherlock Holmes e il grande Houdini intraprendono insieme una spietata caccia all’omicida seriale che a New York si diverte a seminare cadaveri ispirandosi ogni volta a un racconto di Edgar Allan Poe. La caccia si fa spericolata, fra maghi e medium, fra gli scettici e fra coloro che credono possibile stabilire un contatto con i defunti. E’ noto come Houdini abbia condotto aspre battaglie per smascherate falsi medium e santoni, mentre al contrario lo scrittore inglese Sir Conan Doyle fu uno strenuo fautore dello spiritualismo e i due sostennero opposti pareri in una famosa diatriba. Nel 1923 il papà di Sherlock si trovava appunto negli States per diffondere, con una serie di conferenze, le nuove teorie sulla sopravvivenza. Così nel suo romanzo “Mai più” William Hjortsberg, scrittore e sceneggiatore statunitense, gioca fra realtà e fantasia mescolando frammenti di verità a una vicenda d’invenzione e creando un giallo che proprio un giallo non è. L’avventura si sviluppa in un’aura di mistero quando entra in scena, a dialogare con Conan Doyle, ma unicamente con lui, anche il fantasma di Edgar Allan Poe: autentico spirito o fantasia, immaginazione o divinazione? Un romanzo singolare, inconsueto e di intrigante lettura che è anche uno squarcio su un’epoca resa efficacemente nell'atmosfera e nelle ambientazioni.

CRIMINALI DA STRAPAZZO



Chi l’ha detto che uno spettatore non possa fare recuperi? Un tempo non si poteva: prime visioni, seconde, terze e poi l’oblio. Ma oggi no. Fine della premessa. Ho rinvenuto “Criminali da strapazzo”, un Woody Allen targato 2000. Una commedia con i dovuti sconfinamenti nella comicità, uno di quei recuperi dei film di “genere” ma fatti alla Woody, facendo il verso e insieme rovesciando logiche e stilemi. La sterminata filmografia di Woody Allen, fatale come le tasse e il cambio di stagioni, ci ha abituati a questi cambi di registro alternando film comici, commedie e film sentimentali, sconfinamenti nell’assurdo e recupero dei “generi” appunto, il tutto reso incandescente - quando funziona - dalla presenza di quel personaggio stranulato, complessato, sessuomane, psicopatico, logorroico che è lui stesso. Negli ultimi tempi l’obbligo di non mancare all’appuntamento annuale ha portato talvolta Woody Allen a “sbrodolare” storie un po’ abborracciate, che non funzionano, l’ultimo esempio è del 2012, il cosiddetto omaggio alla nostra Roma. Ma qui, in questo “Criminali da strapazzo”, Allen è ancora nel pieno delle forze, battute e situazioni sono brillanti, e così gli attori, con l’eccezione dell’illustre “guest star” Hugh Grant, che appare spento e a disagio, quasi avesse fatto il film per forza, Questi microcrimimali fanno fortuna grazie alle virtù culinarie di una moglie pasticcera, che però cade preda della sindrome dell’arricchita e, nella speranza di raffinarsi per avere accesso al bel mondo, finirà preda degli sciacalli e verrà derubata, mentre suo marito, ladro maldestro e pasticcione, si confonde sulla refurtiva e scambia una collana falsa per quella vera. Così si va verso un finale che è un lieto fine come tutti i finali in cui si parla di azzerare tutto e ricominciare.

martedì 5 aprile 2016

CASCHE' - Incipit


 

Inizio da oggi a proporre saltuariamente gli incipit dei miei inediti, come offerta agli Editori in cerca di opere valide. E comincio con “Caschè”, ambientato a Rimini e nella riviera romagnola: il racconto dolce-amaro di un’estate con i suoi amori, gli imprevisti, le avventure, i drammi, in un sapiente incastro di situazioni e personaggi. E insieme il singolare dipanarsi di un ”giallo” anomalo, fra incubo e realtà, eccitante clausola alla vicenda di una stagione sull’Adriatico
   

Non c’era neppure uno straccio d’amico ad attenderlo fuori da Rebibbia, quel carcere civettuolo nella linea e affidabile nella struttura con celle degne di un hotel di Dubay. Appena il cancello iniziò ad aprirsi elettronicamente Flor sgusciò fuori di traverso, senza dar tempo al varco di schiudersi del tutto. Un giovane dinoccolato, faccia da ribelle e capelli fluenti sulle spalle da sessantottino ritardatario, anche se era improbabile che nel fatidico sessantotto e dintorni fosse già nato e neppure concepito.
Anni appartenuti a suo padre, ardente rivoluzionario da barricata. Ne conservava le foto, scattate dalla polizia o da qualche reporter d’assalto sulla gradinata dell’università, a Valle Giulia, durante i giorni infuocati della contestazione: suo padre, circondato da scudi e manganelli, la bocca spalancata in un grido di rivolta, la chioma ribelle sulle spalle, le braccia spalancate. Forse era per attaccamento a quelle immagini che portava i capelli lunghi anche lui, in una foggia ormai desueta.
Quel padre non l’aveva mai conosciuto, si può dire. Perso a tre anni. Un giovane docente d’architettura un po’ ribelle anche sulla cattedra, renitente ad ogni ingiustizia e ad ogni baronia, che aveva finito per stingere la propria collera dirottandola in articoli involuti su riviste di estrema sinistra, in rigoroso linguaggio paleomarxista.
Il figlio invece era cresciuto tranquillo, affidato alla madre e ad una zia, unico maschietto in un consesso tutto femminile. E alla passione paterna per l’auspicata vittoria del proletariato aveva sostituito la passione per la musica.

Flor reggeva la custodia rigida del sax. Glielo avevano restituito all’uscita di galera assieme al portafoglio – vuoto – e alla cintura borchiata, un po’ da metallaro. Qualche giorno di carcere gli aveva fatto bene, dandogli il tempo di riflettere. O forse no?
Certo era stata colpa sua. Nessun dubbio che quei giorni in gattabuia se li fosse meritati. Colpa sua e un po’ dell’esaltazione di cui era preda quando si librava nei suoi funambolici assolo di sassofono. La tanto decantata scarica di adrenalina. Con l’ausilio di qualche spinello fumato un po’ in fretta, chiuso nella latrina del cosiddetto night. Fatto sta che il gestore di quel localaccio romano – una sorta di pub truccato da squallida minidiscoteca  - lo aveva trovato in atteggiamento inequivocabile con l’entreneuse – ma adesso le chiamavano hostess oppure escort - da cui il suddetto gestore era sicuro di ottenere prestazioni professionali ed erotiche in regime di esclusiva. Aveva reagito male e Flor aveva controreagito anche peggio, prendendolo a pugni, rompendogli il naso e facendogli saltare due denti. (...)
(Leandro Castellani)

lunedì 4 aprile 2016

SCRIVERE ALLA MODA



Vorrei scrivere un nuovo romanzo. Ma di quelli che vanno di moda ora: con molte scene sexy, stupri, violenze carnali o amori appassionati. E poi omosessuali, deboli e frustrati o potenti e dominatori. Amori omosex fra maschietti e tra femminucce. Cosa ancora? Un po’di buonismo, una shakerata di mode radical chic, un antirazzismo così assoluto e apodittico da diventare razzista… Non dimentichiamo i delitti e i serial killer. Già, ma il tutto dovrebbe convivere con quel gusto per le vicende della storia, possibilmente molto trapassate, che mi contraddistingue.
Finalmente mi sembra d’aver trovato l’ispirazione per far incontrare le varie istanze: un romanzo sullo “Jus primae noctis”. Idea fulgida! Quasi quasi comincio subito. Vediamo!
Dunque Sir Lancillotto da Lugo è il signore feudale più prepotente e sessista che ospiti la Romagna. I suoi sottoposti, gente del contado, contadinotti ma anche artigiani e piccoli professionisti, debbono soggiacere alla dura legge stabilita da un suo remoto antenato e divenuta tassativa: ogni  giovanetta che convoli a nozze con un residente deve cedere il proprio pulzellaggio al locale feudatario, cioè a lui, pena la morte praticata nei modi più atroci: squartamenti, evirazioni, sbudellamenti, garrote, mannaie e ghigliottine. 
Ed ecco che, a nozze celebrate e benedette da apposito abate, la sposina viene accompagnata a castello dal genitore o dallo stesso neo consorte. La consegnano all’ingresso, ricevono regolare ricevuta poi si ritirano a piangere e disperarsi in separata sede. La sposina sale le scale e, introdotta da apposito scudiero, varca la soglia dell’appartamento privato a tal uopo riservato. Staziona nella confidente attesa di essere ricevuta dal feudatario - un po’ d’educazione, che diamine!, - qualche preliminare, magari una cenetta a lume di candela prima della cerimonia della deflorazione. E invece no. A riceverla c’è la nutrice del Duca, una zitellona ultraquarantenne ma piacente, dall’apparenza e dai modi moderatamente mascolini. “Vieni, vieni, caruccia, fatti preparare. Spogliati pure, ma un capo alla volta, con calma.” Insomma le  richiede una specie di spogliarello improvvisato, senza neanche bisogno dell’accompagnamento musicale. La tardona segue con evidente interesse la svestizione, si umetta le labbra, freme di eccitazione via via che le si svelano le nudità della fanciulla. “Un momento, carina, fammi controllare se sei illibata”. Le si accosta, comincia ad accarezzarla, prima i seni eburnei poi il pancino e poi più giù verso la vagina che spunta fra la piccola boscaglia bruna. Già, perché nel medioevo la foresta del pube doveva rimanere intatta e rigogliosa. La nutrice si spinge oltre, saggia la tenuta del sesso: “Brava carina, sei proprio verginella, fatti consolare.” E la sposina deve cedere agli abbracci birichini della nutrice. 
Intanto, con l’occhio schiacciato contro l’apposito pertugio a tal uopo praticato nella parete, il feudatario ha spiato i preliminari amorosi della vogliosa fantesca e insieme le procaci nudità della verginella a lui riservata e si è eccitato a puntino, da bravo guardone professionista, tanto che arrivato al clou dell’ispezione preliminare, a evitare il precipitare della situazione, preme l’apposito pulsante per farsi recapitare la fanciulla senza ulteriori indugi. L’attende in costume adamitico, già piazzato sul morbido giaciglio che si è fatto abbondantemente irrorare di profumi. L’amplesso è immediato e la consumazione del frutto altrettanto rapida. Qualche strilletto e, come sempre, la penetrazione, salvo incidenti e casi particolari, è sbrigativa e abbastanza indolore. Segue un piccolo rinfresco a base di frutta pregiate, vini liquorosi e bonbon d’esportazione. Poi con calma il feudatario approfondisce la conoscenza carnale che, con i necessari intervalli, si prolungherà sino al mattino successivo quando la sposetta, rimpannucciata negli abiti nuziali e dopo il rituale bacetto alla nutrice, verrà riconsegnata ai congiunti unitamente a una piccola dote in dobloni, di solito proporzionale al godimento che il feudatario ne ha tratto.  Questa la prassi.
Ma erano sempre vergini le sposine? Dovevano esserlo, per almeno due motivi. Per gli ammonimenti del santo sacerdote che raccomandava la castità e per gli editti del feudatario che promettevano il taglio della mano o di un altro accessorio ancor più utile in caso di riscossione anticipata da parte del promesso sposo. Quindi tutte vergini. Al bisogno c’erano altri sistemi per far felici i fidanzati.
Ma ci fu un imprevisto. All’indomani della conclusione della lunga guerra con Cesena, che aveva tenuto a lungo i guerrieri lontani dalle loro promesse, molti dei reduci decisero quasi contemporaneamente di convolare alle agognate nozze. Per il feudatario si prospettava un “tour de force” forse eccessivo. Come risolvere il problema? Contingentare i matrimoni? Giovarsi di volenterosi aiutanti per il rito delle deflorazioni? Ingerire quelle erbe preziose, di colore azzurrino, delle quali il taumaturgo di corte vantava i prodigiosi effetti?
Il signore ci pensò a lungo, ma non c’erano vie d’uscita e dovette assoggettarsi, di buon grado oppure obtorto collo, alla corvée che peraltro trovava particolarmente disponibile la solita nutrice addetta agli spogliarelli e alle visite pre-coito.
Alla fine del fatidico mese il Duca era stremato. Fu costretto a emettere un editto: per ragioni di stato e di alta politica, visto l’eccessivo incremento delle nascite nell’ultimo biennio, le stipule matrimoniali sarebbero state sospese sino a data da destinarsi. I fidanzati venivano invitati a procrastinare cercando legittimi piaceri in altre pratiche sessuali più sofisticate o godendo dei vantaggi della castità. Il popolo non fu proprio d’accordo, ci furono mugugni, tentativi di far recedere il monarca, ma niente da fare. I giovani più ardenti tentarono di organizzare una spedizione in feudi limitrofi, svincolati dalla legge capestro vigente nel feudo. Ci furono episodi tipo “ratto delle sabine” con conseguente malumore fra le locali verginelle in  attesa che si sentivano defraudate. 
Stop! Non ce la faccio più ad andare avanti. Sento già le critiche: vecchiume, chi se ne frega del Medioevo. Potrei attualizzare il tutto: al posto del feudatario un potente – industriale, banchiere, politico, produttore cinematografico –, al posto della nutrice vogliosa la manager tutto fare del principale, di chiare tendenze lesbiche, al posto degli sposi i precari,  i lavoratori e i derelitti di ogni tempo. Resterebbero fuori gli omosessuali di genere maschile, gli extracomunitari, i politici di professione, i vegani. E allora: basta! Come romanziere non ci so proprio fare!