Basta
l’incipit, cioè le prime righe, per capire che ci troviamo di fronte a un libro
“diverso”: “Oggi mamma è ancora viva. Non dice
niente, ma potrebbe raccontare molte cose. Diversamente da me, che a
forza di rimuginare questa storia non me la ricordo quasi più.”
Un
protagonista senza nome, l’arabo”, che si confessa a uno scrittore in cerca di
verità, incontrato al tavolo di un bar, fra bicchieri di vino e lunghe pause.
Una confessione fatta di avanti e indietro, di pause, di remore e di autoaccuse,
di domande a se stesso e al proprio passato. E pian piano emerge la vicenda,
affiora dalla memoria, ma in questo modo confuso, nella ricerca di se stesso La
confessione di un perdente o il vaneggiare di un mitomane? Suo fratello è stato
ucciso da Meursault, come Albert Camus ha narrato ne “Lo straniero”, dove un
arabo senza nome è protagonista e insieme dettaglio pleonastico di un romanzo scritto
dalla parte dell’uccisore e non della vittima. Chi tenta di raccontare la storia - l’uomo
del bar - è il fratello dell'ucciso, cresciuto nel ricordo di quel morto, fra le spire
amorose e rancorose di una madre vissuta solo per la vendetta. Ha trascorsa la
giovinezza nel tentativo di ricostruire la storia di questo ucciso, poi è riuscito
a vendicarlo e ad esaudire il desiderio inconscio di sua m
adre uccidendo un
francese, uno qualunque. Ed ha consumato la sua vita nell’apostasia di se
stesso. Scalare un minareto per gridare dall’alto,
a tutti, “ urlare che sono libero e che Dio è una domanda, non una risposta, e
che voglio incontrarlo da solo come alla nascita o alla morte”...
Il
libro è anche la metafora di un popolo alla ricerca di quella misteriosa identità
che si nasconde ““nel ventre delle nostre terre”. Scritto
dal giornalista algerino Kamel Daoud, “Il caso Meursault”, edito in Italia da Bompiani, ha
vinto il prestigioso Prix Gongourt per l’opera prima.
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