Selma
Lagerlof fu la prima donna a conquistare il Nobel per la letteratura (1909). A
parte quella fiaba singolare che è il “Nils Holgerson” con il bambino arruolato dalle cicogne per scoprire il mondo
dall’alto, le sue opere sono contrassegnate da una cupezza tinta di surreale
dove il suo singolare personalissimo linguaggio, diciamo la sua prosa lirica, trasforma
le visioni in realtà immaginate ai confini dell’incubo, in un saga fantastica dai
colori “molto nordici”, come nel suo capolavoro, “La saga di Gosta Berling”.
Questo “Carretto fantasma”, scritto nel 1921, fu tradotto due anni più tardi in
un film altrettanto cupo e allucinato, diretto e interpretato da Victor
Sjostrom, il maestro di Ingmar Bergman. La
storia non è difficile a riassumersi: David
Holm, un vagabondo alcolizzato, è destinato a prendere il posto
dell’oscuro messaggero della morte che guida il carretto alla raccolta dei
defunti. Si strugge dai rimorsi e ottiene di sfuggire alla sua sorte sino a
quando non salverà moglie e figlie dall’abiezione e insieme la sua anima.
Ma
il libro tradisce continuamente questa succinta sinossi: l’incubo penetra nella
realtà, l’uso frequente del tempo presente omologa sogni, allucinazioni e
deliri: “Ciò che provocava le sue lagrime, era l’inutilità del suo ritorno in
questo mondo dai lenti pensieri e dagli occhi chiusi.” I sentimenti, gli amori,
i destini si confondono in un flusso continuo di “lenti pensieri ad occhi
chiusi” sotto l’incubo del carretto fantasma che annuncia la morte.
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