sabato 27 febbraio 2016

L'INVASIONE DEGLI ALIENI



Un paio di alieni capitano nel nostro occidentale, quella parte più civilizzata formata da più nazioni ma ormai denominata Eurosia. Vengono subito identificati e accolti: sono tipi esotici, considerati un po’ come primitivi, un po’ come minus abentes. Ma rispettati. Gli alieni ringraziano e richiamano dal pianeta natale anche le loro donne, che in realtà non sono veri e propri individui ma semplicemente dei gameti separati per facilitare la riproduzione. Nascono figli, molto figli. Gli alieni si moltiplicano. Agli occidentali fanno piacere, perché in fondo sono anche utili, forniscono una manodopera a buon mercato per tanti lavori un po’ indigesti che gli europei cominciano a schifare: curare gli anziani o raccogliere pomodori. Gli alieni sono docili e molto religiosi: cinque volte al giorno si appartano per rivolgere pensieri deferenti ai loro Dei d’origine. Poi un brutto giorno un aspro conflitto sul loro pianeta spinge gli alieni a spostarsi in massa. Dai loro colleghi che vivono già in occidente hanno ricevuto notizie positive: in Eurosia c’è da mangiare e da star bene, e poi l’aria è molto buona contenendo pochissimo ossigeno che per gli alieni è come veleno. Ma scarseggiano le donne, o come dicono loro, i gameti femminili. In compenso in Eurasia i gameti femminili non vivono racchiusi dentro gli appositi involucri integrali ma si mostrano alla luce del sole, quindi sono molto più appetibili e abbordabili. Provare per credere. Gli alieni ci provano, poi si gettano in messa a violare e fecondare queste cosiddette femmine che in occidente sembrano godere di un rispetto del tutto esagerato. Il chè provoca alcune reazioni negli eurosiani.
Passano veloci gli anni, gli alieni si sono trasferiti in massa, hanno proliferato sino ad invadere il pianeta, hanno costruito i loro luoghi di culto e distrutto gli inutili residui di un passato ingombrante di cui non capiscono l’utilità. Ormai il pianeta è  loro, gli euroasiani sono rimasti in netta minoranza, prima o poi scompariranno, con le buone o con le cattive. Oppure emigreranno nel pianeta degli alieni, sempre un po’ ostile ma quasi disabitato.
Un bel raccontino, senza lieto fine, o forse un apologo. Chissà se avrò mai la voglia di scriverlo per benino !

venerdì 26 febbraio 2016

CHE BELLO DIRLO IN INGLESE !



Faccio eco a un post, trovato su FB, con cui un amico si lamenta giustamente dell’uso di termini inglesi per definire cose, fatti, situazioni per i quali esiste un perfetto corrispettivo italiano: display = schermo, meeting = riunione, fashion = moda, workshop = seminario, business = affari… E’ un vezzo neanche tanto innocente di cui fanno uso e abuso particolarmente le giovani generazioni e con cui è facile coprire la sostanziale ignoranza della nostra lingua e non solo. Chi lo pratica forse non sa o non si accorge di deglutire generici luoghi comuni rinunciando ad approfondire il senso delle parole e del loro significato. In altri termini non si rende conto di usare un modo di esprimersi “dopato”. Alcuni esempi: “gossip” indica indiscrezioni e rivelazioni pruriginose riguardanti personaggi noti, ma l’equivalente italiano, “pettegolezzo”, ha una connotazione negativa, cioè segnala il brutto difetto di diffondere particolari sciocchi, privati, inutili o inventati sul comportamento altrui, tutte cose che il termine inglese ipocritamente nasconde.
“Storytelling”-  l’ultimo strillo in fatto di termini nuovi – indica la strategia comunicabile di un’industria culturale, di un’azienda, di un personaggio, in altre parole il loro ostensibile autoritratto, quello che si deve mostrare agli altri. L’equivalente nostrano “tema” o “narrazione”, indica il contenuto, il messaggio, il racconto di una strategia, in altre parole “ciò che vogliamo far credere agli altri in modo da ottenere qualcosa  da loro”… “Slide” significa il condensato di una notizia o di una proposta in un titolo di giornale o in un annuncio telegrafico; l’equivalente italiano, “diapositiva” o “presentazione” indica di più  e di meno. “Selfie” significa autocelebrarsi immortalando in una foto col telefonino un incontro, un momento, la nostra presenza a un accadimento. L’equivalente italiano “autoscatto” o autoritratto di gruppo comporta un’attenzione meno banale ed episodica al momento che vogliamo immortalate ed alle persone raggruppate intorno a noi. “Biopic” significa biografia televisiva elaborata secondo i canoni statunitensi di un seriale o di un film, il termine “biografia televisiva” indica il racconto in termini televisivi di una storia personale, il racconto, più o meno documentato, di una vita. E così via. Spesso l’uso di una parola straniera raccattata dalla tv, da un giornale, dalla conferenza di un esperto ci sottrae alla fatica di chiarire ciò di cui vogliamo parlare, il senso delle cose che diciamo.
 

giovedì 25 febbraio 2016

IL CARRETTO FANTASMA



Selma Lagerlof fu la prima donna a conquistare il Nobel per la letteratura (1909). A parte quella fiaba singolare che è il “Nils Holgerson” con il bambino  arruolato dalle cicogne per scoprire il mondo dall’alto, le sue opere sono contrassegnate da una cupezza tinta di surreale dove il suo singolare personalissimo linguaggio, diciamo la sua prosa lirica, trasforma le visioni in realtà immaginate ai confini dell’incubo, in un saga fantastica dai colori “molto nordici”, come nel suo capolavoro, “La saga di Gosta Berling”. Questo “Carretto fantasma”, scritto nel 1921, fu tradotto due anni più tardi in un film altrettanto cupo e allucinato, diretto e interpretato da Victor Sjostrom, il maestro di Ingmar Bergman.  La storia non è difficile a riassumersi: David  Holm, un vagabondo alcolizzato, è destinato a prendere il posto dell’oscuro messaggero della morte che guida il carretto alla raccolta dei defunti. Si strugge dai rimorsi e ottiene di sfuggire alla sua sorte sino a quando non salverà moglie e figlie dall’abiezione e insieme la sua anima.
Ma il libro tradisce continuamente questa succinta sinossi: l’incubo penetra nella realtà, l’uso frequente del tempo presente omologa sogni, allucinazioni e deliri: “Ciò che provocava le sue lagrime, era l’inutilità del suo ritorno in questo mondo dai lenti pensieri e dagli occhi chiusi.” I sentimenti, gli amori, i destini si confondono in un flusso continuo di “lenti pensieri ad occhi chiusi” sotto l’incubo del carretto fantasma che annuncia la morte.   

domenica 14 febbraio 2016

KAMEL DAOUD - IL CASO MEURSAULT



Basta l’incipit, cioè le prime righe, per capire che ci troviamo di fronte a un libro “diverso”: “Oggi mamma è ancora viva. Non dice  niente, ma potrebbe raccontare molte cose. Diversamente da me, che a forza di rimuginare questa storia non me la ricordo quasi più.”
Un protagonista senza nome, l’arabo”, che si confessa a uno scrittore in cerca di verità, incontrato al tavolo di un bar, fra bicchieri di vino e lunghe pause. Una confessione fatta di avanti e indietro, di pause, di remore e di autoaccuse, di domande a se stesso e al proprio passato. E pian piano emerge la vicenda, affiora dalla memoria, ma in questo modo confuso, nella ricerca di se stesso La confessione di un perdente o il vaneggiare di un mitomane? Suo fratello è stato ucciso da Meursault, come Albert Camus ha narrato ne “Lo straniero”, dove un arabo senza nome è protagonista e insieme dettaglio pleonastico di un romanzo scritto dalla parte dell’uccisore e non della vittima. Chi tenta di raccontare la storia - l’uomo del bar - è il fratello dell'ucciso, cresciuto nel ricordo di quel morto, fra le spire amorose e rancorose di una madre vissuta solo per la vendetta. Ha trascorsa la giovinezza nel tentativo di ricostruire la storia di questo ucciso, poi è riuscito a vendicarlo e ad esaudire il desiderio inconscio di sua m
adre uccidendo un francese, uno qualunque. Ed ha consumato la sua vita nell’apostasia di se stesso. Scalare un minareto per  gridare dall’alto, a tutti, “ urlare che sono libero e che Dio è una domanda, non una risposta, e che voglio incontrarlo da solo come alla nascita o alla morte”...
Il libro è anche la metafora di un popolo alla ricerca di quella misteriosa identità che si nasconde ““nel ventre delle nostre terre”. Scritto dal giornalista algerino Kamel Daoud, “Il caso Meursault”, edito in Italia da Bompiani, ha vinto il prestigioso Prix Gongourt per l’opera prima.

PAROLE PAROLE PAROLE (2)



Assente dal paese per più di una decina d’anni, il filosofo  Ernst Cassirer, rimettendo piede in Germania, fece una mirabolante scoperta: dopo l’uragano del nazismo non era più in grado di capire la sua lingua tedesca, le parole avevano assunto un significato totalmente diverso da quello originario.
Credo che in Italia, da quarant’anni a questa parte, sia successa un po’ la stessa cosa. Ecco, faccio conto di essere rimasto assente per il corso di una generazione, facciamo due, e guardate un po’ cosa mi ritrovo. 


“Amante”: mezzo secolo fa era un termine usato in una doppia accezione. La prima letterale: amante, cioè colui che ama. L’altro effettuale: due esseri di sesso differente uniti da un sentimento d’amore di durata variabile ma comunque non sancito, o non sancibile, mediante un rapporto sociale riconosciuto e documentato, leggi matrimonio. Quindi era un termine da pronunciarsi con cautela, possibilmente a mezza voce: quel tale ha un’amante, quella tale ha un amante. Oggi il termine è di fatto scomparso. Di due persone legate da un  rapporto di sesso-amore si usa dire che hanno una “relazione” (versione corretta) oppure che sono “fidanzati” (versione giornalistica), se giovanissimi o minorenni “fidanzatini” (versione televisiva), oppure che “scopano” (versione plebea). Quest’ultima espressione sostituisce di fatto quella desueta, cioè “fare l’amore” o “fare all’amore”. Oppure si può dire “fare sesso”, che è il modo più corretto ed elegante. Scomparso il vecchio termine “chiavare” molto più plebeo e volgare, ma indubbiamente espressivo, rispetto al termine “scopare”, criptico ed ermetico.
C’è una prima conclusione da trarre da queste spericolate considerazioni? Sì, il trionfo dell’ipocrisia e del perbenismo: i nuovi eufemismi, apparentemente più espliciti, conferiscono ad ogni rapporto sentimental-sessuale, per trasgressivo che possa essere, una patente di praticabilità sconfiggendo inopportuni falsi pudori.

“Omosessuale”, termine usato in tempi passati per definire una persona affetta o connotata da una “devianza sessuale” più o meno comunemente riconosciuta o addirittura esibita. Esistevano altri termini di carattere umoristico-satirico o addirittura offensivo: frocio, recchione, culattone, checca eccetera. L’omosessualità veniva definita “devianza” dai dizionari d’uso comune in quanto si riteneva “normalità” il fatto che una figura di genere maschile provasse desideri e tendenze nei confronti di una figura di genere femminile, anche in virtù della configurazione anatomico-fisiologica che aveva fornita al maschio il pene e alla femmina la vagina. Oggi il termine inglese gay (allegro, gaio) sostituisce la vecchia dizione connessa al brutto termine di devianza, conferendo pari o maggiore dignità al maschietto che ama congiungersi sessualmente e sentimentalmente ad un altro maschio. In più la scoperta della omosessualità femminile, forse esistente già da tempi remoti (Lesbo insegna) ma un tempo non ammissibile e addirittura non pronunciabile neppure sottovoce. Così come l’universo femminile cerca giustamente ai nostri giorni la piena affermazione dei propri diritti e del proprio valore, dopo secoli di colpevole sudditanza nei confronti di quello maschile, così il mondo gay vive oggi la sua rivolta civile e sta conquistandosi non solo lo spazio ma addirittura il primato nella generale considerazione. Devianti saranno gli altri, uomini e donne placidamente soddisfatti del proprio ruolo di maschi e femmine, seguendo pedissequamente la via tracciata dagli attributi forniti loro da madre natura e rinunciando a rivendicare la loro vera sessualità, forse repressa e conculcata. E poi le moderne conquiste della medicina e della chirurgia, oltre a garantirci il trapianto di organi vari, cuore fegato e altri ammennicoli, nonché il rimodellamento di altri, seni, culi, labbra, non ci consentono forse di rimodellare il nostro ruolo fisico-sessuale, forse represso? Così l’uomo è libero di scoprirsi donna, la donna è libera di scoprirsi uomo, e i fanciulli di varia natura sono liberi di meditare e programmare il loro futuro fisico-sessuale. Oggi ci pensa anche la scuola a somministrare le debite istruzioni e a fornire i dovuti imput. La sessualità si conquista, diventa un’arma, un trofeo, un gagliardetto.

“Bontà”, altro termine desueto. Al suo posto si può usare il termine “buonismo”, cioè una bontà impastata di luoghi comuni che ci prescrivono di essere compiacenti verso i ladri che certo lo fanno per bisogno, verso gli assassini che sono vittima di turbe mentali, verso gli stupratori vittime delle diversità culturali, mentre ci invitano a reprimere ogni atteggiamento che potrebbe sonare offesa a sentimenti e tradizioni di ospiti non collimanti con la nostra cultura: dunque via il crocefisso dalle scuole, via il presepe dalle case, via Babbo Natale dai supermercati, via il vino dalle bevande ufficiali, via i porcellini dalle giostre, via i professori che danno brutti voti, via le forze dell’ordine che se la prendono con i manifestanti armati di bastoni e altri corpi  contundenti. Inoltre vanno sostituiti gradevoli eufemismi a termini che potrebbero risultare irriguardosi e irritanti: non vedenti al posto di ciechi, diversamente abili al posto di inabili, escort al posto di prostitute o meretrici, migranti al posto di clandestini, sinti e rom al posto di zingari... Attenzione spasmodica verso il mondo dei minori: precoci assatanate adolescenti con culo e tette al vento vanno tutelate occultando il loro volto con appositi effetti e sfocature nelle immagini della televisione. Stesso trattamento per neonati e pargoletti un tempo ostentati con orgoglio fra le braccia delle relative madri. Inoltre il buonismo coltiva e ostenta sentimenti di odio e di ribrezzo verso chi non è d’accordo, nonché verso i nuovi “diversi”, cioè coloro ancora legati a termini desueti quanto offensivi come madri e padri, in luogo di genitore uno e due, unico criterio valido per coppie gay. Anche circa l’uso del termine “terrorista” bisognebbe starci attenti: forse sono figli di una diversa cultura, forse reagiscono ai maltrattamenti subiti nei rispettivi d’origine, forse rivendicano diritti conculcati nei loro confronti ieri, l’altro-ieri o magari sei-settecento anni fa: insomma tutta colpa delle crociate.       
Disprezzo e intolleranza per coloro che non professano il verbo animalista e considerano gli animali simpatici buoni affettuosi quanto si vuole ma un gradino più giù degli esseri umani, riprovazione verso coloro che amano il circo, la corrida, i cani ammaestrati o il Palio di Siena. Insomma il buonismo è anche sinonimo di “santa” intolleranza.

“Privacy” cioè culto e rispetto della riservatezza. Nel secolo della pubblicità ad oltranza, del disvelamento parossistico e costante di uomini e fatti (vulgo: sputtanamento), degli scandali commentati in piazza ed esibiti in vetrina, nasce e si afferma la conclamata “privacy”, che spesso – almeno per l’utente - si riduce e si traduce di fatto nella noiosa incombenza di dover firmare una serie di moduli al momento di un acquisto a rate, di un mutuo, di un impegno qualsiasi, moduli che autorizzano o non autorizzano a mettere in giro notizie su di noi, il nostro indirizzo, la nostra professione e così via. Come se non ci pensassero già in tanti, dal codice fiscale alla tessera sanitaria, dall’anagrafe dell’Agenzia delle Entrate ad Equitalia, ai social network, alle mailing post ad eternare il nostro nome, cognome, colore dei capelli, predilezioni sessuali, hobbies e così via. Il culto della privacy è il grande alibi nel secolo della falsa trasparenza. Somiglia a quella curiosa dichiarazione che i rappresentanti delle ditte invitate a pubblici incarichi e appalti devono sottoscrivere per affermare la loro completa estraneità da qualsivoglia congrega e pratica mafiosa. Altro alibi per conferire una patente di verginità a imprese chiacchierate. Ci pensano poi le rubriche televisive pomeridiane a eternare vita morte e miracoli di totali o parziali delinquenti, perseguitati e vittime, congiunti di vittime e familiari di assassini, passanti per luoghi del delitto, vicini di casa, conoscenti, ex-fidanzati, compagni di scuola, clienti di supermercati e così via, con il prezioso ausilio di fotoreporter, macchine fotografiche, telefonini, microfoni nascosti ed altri marchingegni. Il tutto col pretesto di far concorrenza alle forze di polizia e alle autorità giudiziarie che, secondo la comune opinione, non sarebbero in grado di scoprire nessuna turpe magagna o nessun recondito peccatuccio senza il fondamentale apporto delle conversatrici televisive pomeridiane, validamente suffragate dal parere degli esperti appartenenti alla  compagnia stabile delle “teleospitate”: ex-soubrette, ex-divi e dive in pensione, direttori e direttrici di settimanali rosa, criminologici e psicologi, tuttologi e tuttologhe.  

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sabato 13 febbraio 2016

SANREMO OVVERO LA PASQUA LAICA



E’ quasi triste dirlo. Ma l’unica Pasqua laica che la televisione italiana abbia offerto alla pubblica celebrazione nei sessant’anni della sua esistenza è il  Festival di Sanremo. Nato quasi per sbaglio come diversivo per gli annoiati frequentatori di quella stazione di soggiorno, coinvolgendo la Radio con la sua orchestra stabile e i suoi due o tre cantanti ufficiali, è divenuta con gli anni, un evento che ha seguito da vicino l’evolversi della civiltà nostrana celebrandone puntualmente i fasti e i nefasti. Ne ho narrato per sommi capi la storia nel mio “La TV dall’anno zero” e non sto a ripetermi. Anche io, sia pur con la scusante dell’età giovanile, sono stato a suo tempo coinvolto nel rito, come spettatore e neofita, ne ho seguito gli alti e bassi, le crisi da contestazione e le resurrezioni. Da diversi anni mi sono guarito diventando un sano miscredente. Ma ignorarlo non si può: gli sponsor, lo tsunami pubblicitario, le enfatizzazioni giornalistiche non te lo permettono, non te lo fanno proprio fare. Scorro velocemente qualche immagine riportata dai tg e dai commenti sparsi qua e là nei vari programmi. Ascolti abissali che, “incredibile dictu”, hanno riguardato soprattutto quelle masse giovanili che – a rigor di logica - avrebbero dovuto starne lontano. Adesioni favorite non tanto – ritengo – dalle luci abbacinanti dell’impianto scenografico e dal solito rituale da missa solemnis, quanto dalla resa ai temi e diciamo pure alle ipocrisie del momento. Anche Samremo è diventata buonista, o forse lo è stato un po’ sempre, ma il buonismo si è puntualmente aggiornato: si è parlato di adozioni omosessuali, di disabili, di povertà, di accoglienza, di migranti, rendendo il doveroso omaggio alle forze dell’ordine, ai militari in missione, il tutto con accostamenti molto discutibili ma con eccellenti, famosi e toccanti testimonial. Insomma un ennesimo anche se aggiornato spettacolo consolatorio “politically correct”, nel pieno rispetto della odierna mitologia sociale. Penso che in mezzo a tanto bailamme, officiato da un perfetto clone del vecchio Pippo, le canzoni - come sempre del resto – si siano sperse, confuse, eseguite più o meno bene da emozionati avventizi e da cantanti di lungo corso. In breve, prendendo a prestito il titolo di un vecchio spettacolo che avevamo messo su in parrocchia da ragazzini, Sanremo 2016 ovvero “Sprizzi, spruzzi e sprazzi!!!”
E qui mi fermo, mi basti aver offerto qualche spunto di riflessione su questa Pasqua laica che sembra aver toccato il record degli ascolti, per la gioia dei numerosi sponsor che hanno officiato il loro interessatissimo sacrificio rituale su tanto altare. E anche quest’anno ‘sto Sanremo ce lo semo levati da le p…

JAVIER CERCAS - L'IMPOSTORE



Nel 2005, poco prima che venisse celebrato il sessantesimo anniversario della liberazione dei campi di sterminio nell'ex campo di Mauthausen, Enric Marco venne smascherato pubblicamente da uno storico, Benito Bermejo, che scoprì come il sedicente sopravvissuto non fosse mai stato internato a Flossenbürg. Un vero e proprio scoop che sconvolse l'opinione pubblica e il mondo intero. 
La vicenda può apparirci un po’ lontana, riguardando un novantenne che ha vissuto le vicende della Spagna franchista, della guerra e dell’età di transizione verso la democrazia, ma Javier Cercas, professore di letteratura spagnola e saggista, tratteggia in modo esemplare la figura di questo “splendido” impostore” che deve la sua credibilità e fama al fatto di essere un sopravvissuto ai campi di sterminio nazista ma che, una volta scoperta la menzogna, cade nel generale discredito nonostante continui disperatamente a tentar di  accreditarsi quale anarchico della prim’ora, antifranchista, deportato, sindacalista… insomma quale eroe. Ma l’interesse precipuo delle quattrocento pagine de “L’impostore”, edito da Guanda, consiste nella sua particolare struttura. Il libro è scandito in varie parti, nelle quali ricostruzione, analisi, discussione e dibattito si alternano e interferiscono. Cercas parla a lungo delle sue esitazioni e remore prima di votarsi a un’impresa del genere - ricostruire la storia di un’impostura - ma alla fine intraprende la ricerca con la diffidenza e la minuziosità di un archeologo: l’incontro con Enric Marco, la pedissequa ricostruzione della sua vita pubblica e privata, poi la disamina dei documenti, l’impegno per comprendere e forse giustificare quella splendida menzogna. Incombe sull’autore lo lezione di Cervantes con il suo “Don Chisciotte”, storia di un buonuomo che a cinquant’anni suonati decide di intraprendere la via del sogno per inventarsi nuovo e diverso. Un mitomane? Affascinato suo malgrado dal personaggio di questo novantenne, efficace e imprevedibile affabulatore, vittima e un po’ stregato dalla vasta eco ottenuta sui media, l’autore non si perita di porre continuamente in crisi il personaggio e la sua stessa ricerca. Così il libro torna ad essere la storia di un’indagine, una vita ricostruita per via di ipotesi. Cercas ci conduce lungo questo impervio cammino, districandosi fra i suoi dubbi e i suoi incontri, verso una conclusione aperta: “la realtà uccide e la finzione salva”.

venerdì 12 febbraio 2016

GREGG HURWITZ - IL PROSSIMO SARAI TU



Due amici d’infanzia di analoga sorte ma di diverso destino. Una famigliola tranquilla. La crisi di coscienza di un imprenditore onesto. Una persecuzione immotivata ad opera di ignoti. Pedinamenti inquietanti, sequestro di minori, sparatorie e morti. Pericoli e nemici occulti. Affetti minacciati. Sadismo moderatamente truculento. Difesa disperata con mezzi leciti e illeciti. Strane e remote discendenze. Inquietanti segreti che tornano a galla. Questo e molto altro nel thriller “Il prossimo sarai tu” di Gregg Hurwitz,  edito in Italia da Giunti. Quarantaduenne, ultimo – si fa per dire – della ricchissima covata degli autori di thriller statunitensi, un “Batman cavaliere oscuro” fra i suoi peccati giovanili, Hurwitz si dimostra uno scrittore di classe, meno meccanico e più sbrigliato di altri connazionali nell’amalgamare, con sapienza da estroso alchimista, elementi prevedibili e spunti al limite del paradosso in una trama coinvolgente che lascia più volte con il fiato sospeso. Non sono particolarmente succube dei thriller montati come da ricetta della premiata ditta Connelly-Cussler-Iles-Koontz & C… Ma questa volta faccio eccezione: se gioco dev’essere questo è un gioco nel quale imprevedibilità e un pizzico di fantasia si combinano in  maniera  raffinata e coinvolgente.

ELISABETTA CAMETTI - IL REGISTA



29 ore per non morire. Numero uno di una serie annunciata che dovrebbe comporsi di vicende allucinate e allucinanti racchiuse nel giro di 29 ore, insomma una sorta di sconvolgente “conto alla rovescia” verso la nemesi della novantanovesima ora. Non conoscendo la prolifica quanto giovane autrice il nostro primo pensiero di lettore era che si trattasse di un thriller americano puntualmente tradotto. Poi ci siamo resi conto che l’operazione era inversa: thriller di autrice italiana ma ambientato a New York e costruito pedissequamente sulla falsariga degli autori statunitensi di successo. Insomma un’opera esportabile negli USA per essere re-importata in Italia per quelli che amano il thriller statunitense. Scusate il gioco di parole. Il romanzo è scritto con quella progressione drammatica, carica di suspense, che caratterizza le opere del genere. Anche lo stile e il moduli del racconto sono immediatamente riconducibili a quelli USA. Non si risparmiano particolari d’obbligo come le mutilazioni e le torture, i serial killer psicopatici, gli hacker tuttofare, i talk show, i poliziotti disinvolti. Tutto ruota attorno a due figure femminili, una fotoreporter d’assalto e una profiler della Polizia, abbastanza simili fra loro: donne decisioniste e un po’ mascoline. Cosa dire di questo thriller? Non si può dirne male perché assolve in modo egregio il compito di fornire una lettura suggestiva e intrigante, non se ne può dire troppo bene perché questo clone di un modello americano conserva, nonostante le soluzioni impreviste, qualcosa di scontato, un deja-vue per citare una delle chiavi della storia.