Assente
dal paese per più di una decina d’anni, il filosofo Ernst Cassirer, rimettendo piede in Germania,
fece una mirabolante scoperta: dopo l’uragano del nazismo non era più in grado
di capire la sua lingua tedesca, le parole avevano assunto un significato
totalmente diverso da quello originario.
Credo
che in Italia, da quarant’anni a questa parte, sia successa un po’ la stessa
cosa. Ecco, faccio conto di essere rimasto assente per il corso di una
generazione, facciamo due, e guardate un po’ cosa mi ritrovo.
“Amante”:
mezzo secolo fa era un termine usato in una doppia accezione. La prima
letterale: amante, cioè colui che ama. L’altro effettuale: due esseri di sesso differente
uniti da un sentimento d’amore di durata variabile ma comunque non sancito, o
non sancibile, mediante un rapporto sociale riconosciuto e documentato, leggi
matrimonio. Quindi era un termine da pronunciarsi con cautela, possibilmente a
mezza voce: quel tale ha un’amante, quella tale ha un amante. Oggi il termine è
di fatto scomparso. Di due persone legate da un rapporto di sesso-amore si usa dire che hanno
una “relazione” (versione corretta) oppure che sono “fidanzati” (versione
giornalistica), se giovanissimi o minorenni “fidanzatini” (versione televisiva),
oppure che “scopano” (versione plebea). Quest’ultima espressione sostituisce di
fatto quella desueta, cioè “fare l’amore” o “fare all’amore”. Oppure si può
dire “fare sesso”, che è il modo più corretto ed elegante. Scomparso il vecchio
termine “chiavare” molto più plebeo e volgare, ma indubbiamente espressivo, rispetto
al termine “scopare”, criptico ed ermetico.
C’è
una prima conclusione da trarre da queste spericolate considerazioni? Sì, il
trionfo dell’ipocrisia e del perbenismo: i nuovi eufemismi, apparentemente più
espliciti, conferiscono ad ogni rapporto sentimental-sessuale, per trasgressivo
che possa essere, una patente di praticabilità sconfiggendo inopportuni falsi
pudori.
“Omosessuale”,
termine usato in tempi passati per definire una persona affetta o connotata da
una “devianza sessuale” più o meno comunemente riconosciuta o addirittura
esibita. Esistevano altri termini di carattere umoristico-satirico o
addirittura offensivo: frocio, recchione, culattone, checca eccetera. L’omosessualità
veniva definita “devianza” dai dizionari d’uso comune in quanto si riteneva
“normalità” il fatto che una figura di genere maschile provasse desideri e
tendenze nei confronti di una figura di genere femminile, anche in virtù della
configurazione anatomico-fisiologica che aveva fornita al maschio il pene e
alla femmina la vagina. Oggi il termine inglese gay (allegro, gaio) sostituisce
la vecchia dizione connessa al brutto termine di devianza, conferendo pari o
maggiore dignità al maschietto che ama congiungersi sessualmente e
sentimentalmente ad un altro maschio. In più la scoperta della omosessualità femminile,
forse esistente già da tempi remoti (Lesbo insegna) ma un tempo non ammissibile
e addirittura non pronunciabile neppure sottovoce. Così come l’universo
femminile cerca giustamente ai nostri giorni la piena affermazione dei propri
diritti e del proprio valore, dopo secoli di colpevole sudditanza nei confronti
di quello maschile, così il mondo gay vive oggi la sua rivolta civile e sta
conquistandosi non solo lo spazio ma addirittura il primato nella generale
considerazione. Devianti saranno gli altri, uomini e donne placidamente soddisfatti
del proprio ruolo di maschi e femmine, seguendo pedissequamente la via
tracciata dagli attributi forniti loro da madre natura e rinunciando a rivendicare
la loro vera sessualità, forse repressa e conculcata. E poi le moderne
conquiste della medicina e della chirurgia, oltre a garantirci il trapianto di
organi vari, cuore fegato e altri ammennicoli, nonché il rimodellamento di
altri, seni, culi, labbra, non ci consentono forse di rimodellare il nostro
ruolo fisico-sessuale, forse represso? Così l’uomo è libero di scoprirsi donna,
la donna è libera di scoprirsi uomo, e i fanciulli di varia natura sono liberi
di meditare e programmare il loro futuro fisico-sessuale. Oggi ci pensa anche
la scuola a somministrare le debite istruzioni e a fornire i dovuti imput. La
sessualità si conquista, diventa un’arma, un trofeo, un gagliardetto.
“Bontà”,
altro termine desueto. Al suo posto si può usare il termine “buonismo”, cioè
una bontà impastata di luoghi comuni che ci prescrivono di essere compiacenti
verso i ladri che certo lo fanno per bisogno, verso gli assassini che sono
vittima di turbe mentali, verso gli stupratori vittime delle diversità culturali,
mentre ci invitano a reprimere ogni atteggiamento che potrebbe sonare offesa a
sentimenti e tradizioni di ospiti non collimanti con la nostra cultura: dunque via
il crocefisso dalle scuole, via il presepe dalle case, via Babbo Natale dai
supermercati, via il vino dalle bevande ufficiali, via i porcellini dalle
giostre, via i professori che danno brutti voti, via le forze dell’ordine che
se la prendono con i manifestanti armati di bastoni e altri corpi contundenti. Inoltre vanno sostituiti gradevoli
eufemismi a termini che potrebbero risultare irriguardosi e irritanti: non
vedenti al posto di ciechi, diversamente abili al posto di inabili, escort al
posto di prostitute o meretrici, migranti al posto di clandestini, sinti e rom
al posto di zingari... Attenzione spasmodica verso il mondo dei minori: precoci
assatanate adolescenti con culo e tette al vento vanno tutelate occultando il
loro volto con appositi effetti e sfocature nelle immagini della televisione. Stesso
trattamento per neonati e pargoletti un tempo ostentati con orgoglio fra le
braccia delle relative madri. Inoltre il buonismo coltiva e ostenta sentimenti
di odio e di ribrezzo verso chi non è d’accordo, nonché verso i nuovi
“diversi”, cioè coloro ancora legati a termini desueti quanto offensivi come
madri e padri, in luogo di genitore uno e due, unico criterio valido per coppie
gay. Anche circa l’uso del termine “terrorista” bisognebbe starci attenti:
forse sono figli di una diversa cultura, forse reagiscono ai maltrattamenti
subiti nei rispettivi d’origine, forse rivendicano diritti conculcati nei loro
confronti ieri, l’altro-ieri o magari sei-settecento anni fa: insomma tutta
colpa delle crociate.
Disprezzo
e intolleranza per coloro che non professano il verbo animalista e considerano
gli animali simpatici buoni affettuosi quanto si vuole ma un gradino più giù
degli esseri umani, riprovazione verso coloro che amano il circo, la corrida, i
cani ammaestrati o il Palio di Siena. Insomma il buonismo è anche sinonimo di
“santa” intolleranza.
“Privacy”
cioè culto e rispetto della riservatezza. Nel secolo della pubblicità ad
oltranza, del disvelamento parossistico e costante di uomini e fatti (vulgo:
sputtanamento), degli scandali commentati in piazza ed esibiti in vetrina, nasce
e si afferma la conclamata “privacy”, che spesso – almeno per l’utente - si
riduce e si traduce di fatto nella noiosa incombenza di dover firmare una serie
di moduli al momento di un acquisto a rate, di un mutuo, di un impegno qualsiasi,
moduli che autorizzano o non autorizzano a mettere in giro notizie su di noi,
il nostro indirizzo, la nostra professione e così via. Come se non ci
pensassero già in tanti, dal codice fiscale alla tessera sanitaria, dall’anagrafe
dell’Agenzia delle Entrate ad Equitalia, ai social network, alle mailing post
ad eternare il nostro nome, cognome, colore dei capelli, predilezioni sessuali,
hobbies e così via. Il culto della privacy è il grande alibi nel secolo della falsa
trasparenza. Somiglia a quella curiosa dichiarazione che i rappresentanti delle
ditte invitate a pubblici incarichi e appalti devono sottoscrivere per
affermare la loro completa estraneità da qualsivoglia congrega e pratica
mafiosa. Altro alibi per conferire una patente di verginità a imprese
chiacchierate. Ci pensano poi le rubriche televisive pomeridiane a eternare vita
morte e miracoli di totali o parziali delinquenti, perseguitati e vittime,
congiunti di vittime e familiari di assassini, passanti per luoghi del delitto,
vicini di casa, conoscenti, ex-fidanzati, compagni di scuola, clienti di
supermercati e così via, con il prezioso ausilio di fotoreporter, macchine
fotografiche, telefonini, microfoni nascosti ed altri marchingegni. Il tutto
col pretesto di far concorrenza alle forze di polizia e alle autorità giudiziarie
che, secondo la comune opinione, non sarebbero in grado di scoprire nessuna
turpe magagna o nessun recondito peccatuccio senza il fondamentale apporto delle
conversatrici televisive pomeridiane, validamente suffragate dal parere degli
esperti appartenenti alla compagnia
stabile delle “teleospitate”: ex-soubrette, ex-divi e dive in pensione, direttori
e direttrici di settimanali rosa, criminologici e psicologi, tuttologi e
tuttologhe.
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