venerdì 22 aprile 2022

Punt.5 - Leandro Castellani - MEMORIE DI UN FABBRICANTE DI IMMAGINI

 

3. La casa natale


Andando a ritroso nella memoria, il più antico ricordo della mia infanzia è quello di una seggiola di paglia di Vienna su cui andavo disponendo dei bicchierini da rosolio tirati fuori da non so quale sportello del buffet. Esperimento di precoce equilibrismo trepidamente interrotto da mamma o da nonna. Mia statura presumibile – stando alla misurazione di analoga sedia – non superiore ai cinquanta centimetri, dunque età presumibile non superiore ai due-tre anni.

Il secondo ricordo: mi nascondo dietro un pianoforte verticale messo ad angolo nel salotto buono, quello tappezzato con carta da parati damascata in rosso cupo. Quindi dovevo essere alto sessanta, massimo settanta centimetri.

La casa che abitavamo costituiva una porzione limitata dell’ala nobile del sei-settecentesco Palazzo Gabuccini, che un angusto corridoio collegava a una parte delle ex-stanze di servizio. Al nostro composito appartamento si accedeva dunque sia dalla scala d’onore, che introduceva a un grande ambiente da noi chiamato “camera degli armadi”, come dalla più angusta scala di servizio collegata alla cucina, quella che usavamo abitualmente. Stanze imponenti, dai soffitti altissimi, ridimensionate dai modesti ma solidi arredi borghesi della famiglia paterna o fatti arrivare dalla Toscana, dalla casa dei miei nonni materni.

Ricordo che, nelle sere d’inverno, mia sorella ed io dovevamo abbandonare ben coperti il piccolo soggiorno riscaldato da una stufa Becchi, dove si svolgeva ampia parte della nostra vita, per raggiungere l’ala notte, attraversando il salotto buono, quello col pianoforte e i due ritratti a olio degli antenati firmati da Giuseppe Ceccarini, l’ingresso nobile adibito a grande stanza degli armadi e la camera dei genitori. Tutti ambienti non riscaldati, gelidi. I nostri letti erano stiepiditi dal “prete”, struttura di legno che conteneva la “monaca”, recipiente di coccio dentro il quale la brace aveva vita breve. Ma riuscivo a rannicchiarmi sfruttando quel residuo di calore in attesa dell’altro, fornito dal mio corpo, che avrebbe invaso una porzione più ampia di lenzuolo.

All’ora della nanna, la mamma ci spogliava nel piccolo soggiorno riscaldato per rivestirci col pigiamino, poi ci faceva indossare una specie di vestaglia – la mia l’aveva ricavata dalla giacca da ufficiale di papà nella prima guerra mondiale – per compiere quella che lei chiamava, con il suo consueto umorismo ottimistico, “la traversata della Siberia”, cioè l’attraversamento delle stanze glaciali.

Il mio lettino era posto di traverso ai piedi del lettone matrimoniale mentre la sorellina albergava nella culla posta al lato materno. Sopra la camera matrimoniale c’era una terrazza non facente parte del nostro appartamento che fungeva da lavanderia e stenditoio per un’altra famiglia, con tale frequenza che una bella notte l’intonaco del soffitto crollò, risparmiando solo l’area occupata dai tre letti con annessa culla. Per un certo periodo, sino a quando l’incannucciata del solaio non venne ricostruita, ci trasferimmo in un’altra camera di solito inutilizzata, in alcuni casi addirittura affittata a qualche coscritto della locale Scuola Allievi Ufficiali, vanto della nostra città.

Attiguo alla stanza da letto c’era un locale misterioso a cui si accedeva tramite una porticina seminascosta nel parato. Un locale dal soffitto altissimo, che arrivava sino al cielo: lo chiamavamo il camerin-alto e serviva da ripostiglio e da soffitta. Mio padre ricordava di esservi stato rinchiuso qualche volta, da bambino, come punizione per le sue marachelle. Ed era così piccino – rammentava – da nascondersi dentro il “prete” per sentirsi al sicuro e vincere la paura. Molto tempo dopo, messi in fila e razionalizzati i ricordi, avrei compreso che il camerin-alto doveva essere l’antica cappella privata del Palazzo Gabuccini, ormai spogliata dei quadri e dei marmi. Restavano solo le cornici di stucco, sbrecciate qua e là, e un abbozzo di altare, cioè l’anima di mattoni che un tempo aveva sostenuto i rivestimenti marmorei.

Nel corridoio di passaggio fra le stanze “nobili” e quelle “di servizio” era stato ricavato un piccolo vano senza finestre tramite una parete di tela verniciata, come quella dei quadri a olio: era la “camera scura”, rifugio privilegiato di mia nonna. Vi teneva i suoi ricordi e anche un piccolo letto spesso preferito a quello più grande e comodo nell’ampia stanza accanto al soggiorno, la stanza dove si era trasferita mia mamma in preda alle doglie e dove ero nato io.

La “camera scura” mi attraeva e insieme mi faceva un po’ paura. C’era una grande cassapanca dove la nonna conservava vecchi numeri del “Corriere dei piccoli”, forse appartenuti ai suoi primi nipotini – i figli di sua figlia Dolores -, giornaletti che qualche volta mi permetteva di sfogliare ma con cautela e moderazione, e un quadretto della “Madonna del Soccorso” dove era raffigurato un bimbo che veniva sottratto, grazie all’intervento della Santa Vergine armata di randello, alle mire di un diavolo con le corna, gli arti villosi e gli zoccoli caprini: uno spauracchio che mi attraeva e terrorizzava insieme. 

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