La famiglia di mia nonna abitava un palazzo nobiliare nel paese di Piobbico, alle pendici del Monte Nerone. Una famiglia avita, circondata da generale rispetto ma un po’ inquinato da leggende vagamente torbide. Da bambino, amavo molto quella vecchia casa che mi aveva accolto per un bimestre abbondante, all’età di quattro anni circa. Per la convalescenza dalla “tosse convulsa”, durante tutto l’arco di tempo in cui potevo costituire un pericolo di contagio per la mia sorellina di pochi mesi. Nell’avito Palazzo di Piobbico facevo vita solitaria, mi aggiravo per il bel giardino, nascondendomi fra i cespugli fioriti delle aiole, ammiravo i pigri andirivieni di due tartarughe, mi affacciavo a seguire lo scorrere del Candigliano che proprio sotto l’ardito ponte a schiena d’asino, visibile dal piccolo bastione, s’incontrava con il suo collega Biscubio per correre insieme verso il Metauro.
Ma soprattutto aspettavo con ansia l’ora della merenda, che consisteva in una salsiccia secca fra due fette di pane, il tutto annaffiato da due dita di quel passito dolce e vigoroso che si chiama Vinsanto. Sì, esatto, avevo quattro anni: una precoce educazione enologica!
Il Palazzo, che allora mi sembrava immenso e di cui non sarei mai riuscito a esplorare né a contare tutte le stanze, ospitava il fratello e le sorelle di mia nonna. Lo zio Arturo, ex-ciclista bersagliere, cieco da molti anni per colpa di quel glaucoma che mio padre e mia zia avrebbero ereditato a loro volta dalla famiglia materna. La zia Nelda, piccolissima, sempre vestita di nero, la più giovane ma già molto anziana, così a me pareva, molto più vecchia di mia nonna che invece era la primogenita. L’altra sorella di mia nonna era la zia Ida, con suo marito Arezio e la figlia minore, Adele, mentre i due figlioli maschi, Sandro e Amedeo, stavano fuori casa per gli studi. E poi c’era il ricordo, ma un ricordo pesante come una coltre invernale, del defunto zio Virginio, un pittore allievo del grande Giovanni Fattori, che aveva lasciato dietro di sé una lunga scia di quadri e bozzetti a gremire tutta un’ala della casa. Paesaggi, cavalli, tipi caratteristici, ritratti di famiglia.
L’altro ricordo era quello di una zia Ines, morta giovane in odore di santità: dopo la sua precoce dipartita, si era scoperto che aveva indossato un cilicio, forse da lunghi anni, per scontare le sue colpe, anzi la sua unica colpa. In gioventù, quasi adolescente, quella fanciulla, segregata nell’austero palazzo di Piobbico, aveva vissuto una “storia” segreta, ed era nata una bambina, Alba. Chi ne era il padre? Dov’era finita la piccola? Non venivano certo a dirlo a me, fanciullo ingenuo e sprovveduto: quella volta ai bambini non si diceva nulla. Un brandello di verità lo avrei scoperto col passare degli anni, ma la cosiddetta “verità vera” la ignoro ancora e forse resterà per sempre sepolta, dato che tutti i testimoni diretti non sono più in vita.
Ines era bella, anzi bellissima, stando alle rare fotografie che la ritraggono. Piccola e minuta ma dalle forme perfette, con quell’aria aristocratica e severa che era anche di mia nonna, a contrasto con un viso dolcissimo. La sua bambina, fatta donna, l’avrei vista qualche volta a casa mia, ormai grandicello, ma senza sapere chi fosse. E’ venuta l’Alba, annunciava la mamma. Una donna già fatta, a me sembrava addirittura anziana, con gli occhi severi e le fattezze aristocratiche di mia nonna, ma quasi celate sotto un grande fazzoletto contadino. I miei erano molto gentili con lei, direi affettuosi. Restava a pranzo, mi sembra le venissero offerti anche dei doni. Poi l’Alba ripartiva a sera per il paesetto dove abitava, a mezza strada fra Piobbico e Acqualagna. Molti anni più tardi il marito della cugina di papà, Delio Bischi, erede dei ricordi familiari della magione piobbichese, mi rivelò che a casa Bartolucci si diceva che il padre della bimba fosse mio nonno Leandro, in quanto era uno dei pochi ammessi a frequentare, da congiunto sopportato ma non amato, il loro chiuso palazzo. Sopportato ma non amato perché nonno Leandro era un tipo ribelle, ricco d’iniziative e d’inventiva ma cattivo amministratore di se stesso. L’attribuzione non mi sembra plausibile, soprattutto perché, al contrario dei fratelli, mia nonna aveva sempre mostrato per l’Alba un’aperta affabilità, troppo sincera per essere legata a un ricordo imbarazzante.
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