Incipit
Perché acquistare una valigia a Hiroshima? Non è che ne avessi proprio bisogno. Ma era lì, esposta in quel negozio, fiorito come tanti altri nella nuova Hiroshima rinata dopo la catastrofe del 6 agosto 1945. Una valigetta metallica, lucida, leggera ma robusta. Probabilmente di alluminio. Poteva sempre tornarmi utile. E poi che inconsueto souvenir da portarsi dietro dalla città dell’atomica!
Quel mattino avevo ultimato le mie riprese. Il grande arco-tunnel nel Parco della pace, un monumento-tomba per centomila morti, con i giapponesi in preghiera, chini dinanzi agli omaggi floreali. E poi l’incontro con Kikkawa, la cosiddetta prima vittima, miracolosamente sopravvissuto alla catastrofe. Miracolosamente per chi crede ai miracoli. La schiena piagata, mostrata con una sorta d’orgoglio. La piccola moglie trotterellante attorno a lui, l’uomo reso celebre dalla sciagura.
E poi le riprese del monumento a Sadako Sasaki, la tredicenne uccisa dal “male atomico”, con la bella leggenda della mille gru di carta pronte a spiccare il volo per salvarla dalla morte. Se si fanno volare mille gru, non si può morire. Ma Sadako, pur ingegnandosi a costruirle con le sue piccole mani piagate, non era riuscita a tanto. Ed ora le fanciulle di tutto il Giappone intrecciavano gru di carta per farne ghirlande con cui adornare il suo monumentino. Gru da spedire come memento ai grandi della terra.
Mi ero fatto portare dall’elicottero a venti metri sopra la famosa cupola squarciata e contorta, lasciata così a mo’ di perenne ricordo. Mi trovavo proprio nel punto in cui quel fiore di morte si era dischiuso. Da quella altezza la veduta delle verdi colline, della città rinata e del dolce fiume che l’attraversava. La visita al museo degli orrori mi aveva colpito molto meno di quella visione a perpendicolo.
Mi sarebbe rimasto come souvenir quella valigetta di alluminio?
Continuai a fare le mie compere, che potevo incamerare via via dentro il nuovo involucro lucente. A sera, sul letto dell’albergo, ripassai, con rito da turista, ciò che avevo acquistato nel corso della giornata: le immaginette del tempio, i ricordi del museo fra cui l’immancabile libro fotografico sugli orrori.
E poi… E poi mi capitò fra le mani un libriccino che certo non avevo acquistato a Hiroshima e che dubitavo mi fossi portato dietro dall’Italia. La mia guida-breve di “Fanun Fortunae”, tempio della Fortuna, nome originario della mia città natale. Lo conoscevo quel libretto, stilato da un erudito locale, Cesare Selvelli, intorno agli anni Trenta. A lui si doveva il merito o il demerito di aver trasformato una cittadina d’impronta urbanistica settecentesca, ma stravagante palinsesto di epoche precedenti - dalla romana alla medioevale, alla rinascimentale - in una sorta di medioevo stile Giacosa: “perché, paggio Fernando, mi guardi e non favelli?” Paggio Fernando non favellava perché aveva visto abbattere mura, demolire Porte, aprire squarci, agghindare edifici con merli e tetti “d’invenzione” in stile “Partita a scacchi”, riaffiorare sotto la singolare facciata settecentesca del Duomo una sorta di romanico di sapore vagamente posticcio, con tanto di bacili arabi a colori.
Ma com’era finito quel libretto fra i miei acquisti recenti? Credevo di possederne almeno tre copie nella mia biblioteca ma sicuramente non aveva senso che me ne fossi portata dietro una, proprio in Giappone.
La memoria fa brutti scherzi, o forse ci salva. Mescola passato e presente, temporali e pioggerelline. Tutto là dentro, alla rinfusa, nella valigia di Hiroshima.
(6 agosto 2015: settant’anni da Hiroshima)
I
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