venerdì 22 aprile 2022

Punt.6 - Leandro Castellani - MEMORIE DI UN FABBRICANTE DI IMMAGINI

 


Oltre il piano nobile del Palazzo la grande scala saliva ancora, ma rimpicciolendosi, sino al mezzanino, non proprio una vera soffitta, dove viveva la vedova dell’ultimo custode-amministratore dei conti Gabuccini, amorosa guardiana dei residui cimeli dell’avito casato: una scatola di reliquie, ognuna con la bolla attestante la sua autenticità, una collanina di libri sette-ottocenteschi, alcuni dei quali scritti a mano con impeccabile grafia da un letterato – tale Fulgenzio Mariotti - che aveva tradotto, direttamente dal francese, testi e romanzi d’autore non più individuabile. E poi un manoscritto: l’autografo originale di un vasto poema concepito dall’ultimo consorte dalla contessa, un gentiluomo inglese approdato a Fano dopo una vita avventurosa, in cerca di quiete e serenità, per comporre l’opera che avrebbe dovuto assicurargli l’immortalità. Due grandi libroni zeppi di correzioni e ripensamenti, l’Adelais, poema probabilmente ancora inedito di John Taaffe.

La vecchietta dell’ultimo piano viveva con una nipote, gentile, nubile e magrolina, che negli anni amari della guerra sarebbe divenuta una ragazza madre. Per la Prima Comunione mi regalò l’inesorabile libro “Cuore” di Edmondo De Amicis. 

Al piano terra, in testa al corridoio che dal piccolo portone di via Rainerio 4 conduceva al nostro appartamento, c’era lo studio dello scultore Strolìn, in realtà un deposito di rilievi decorativi in gesso con i relativi stampi. Uno scorbutico vecchiaccio in papalina – o era uno zucchetto da ebreo? - che mi terrorizzava al solo vederlo. Quando morì, liberando la mia prima infanzia da angosce superflue, quello spazio venne occupato da papà che ne fece il suo studio.

A lato del portoncino d’ingresso, su via Rainerio, c’era il laboratorio da falegname di Leandro, detto Lallo, prodigo nel rifornirmi di piccoli scarti di legno ma avaro in fatto di chiodi che dovevo centellinare e riutilizzare più volte. Attrazione del locale, appeso a una trave del soffitto, era lo scheletro di un gatto con in bocca lo scheletro di un topo. La spiegazione un po’ fantascientifica era che il gatto fosse morto istantaneamente per aver addentato un topo avvelenato.

La finestra del piccolo soggiorno di casa, unico ambiente riscaldato, si affacciava sull’entrata laterale del Duomo, sempre sbarrata, da cui si accedeva direttamente al Battistero. Uno dei miei primi esercizi di lettura fu quello di compitare la lapide posta sopra l’ingresso che ricordava il battesimo di Ippolito Aldobrandini, poi Papa Clemente VIII - il Pontefice del supplizio di Giordano Bruno e della decapitazione di Beatrice Cenci - cerimonia celebrata allo stesso fonte in cui, qualche secolo dopo, sarei stato battezzato anch’io: che precedente illustre!

 

Piccolo “giallo” sui miei nomi di battesimo. Dunque secondo le confuse quanto approssimate memorie familiari sarei stato gratificato al battesimo da un profluvio di nomi. Leandro tanto per cominciare, appellativo incontrovertibile, garantito, il nome del nonno paterno, morto quando mio padre era bambino. E poi Anselmo, perché, come recitava mia nonna: “Il primo di dicembre è Sant’Anselmo, il due San Richiliano, il quattro Santa Barbara beata, al sette San Tomàs si vien per via e l’otto Concezion Santa Maria, al dieci la Madonna di Loreto…” e via dicendo sino al glorioso finale della filastrocca: “e il venticinque abbiam Natale Santo.” Nel martirologio ufficiale questo Anselmo al primo dicembre non c’è proprio, ma il nome dovrebbe essermi rimasto. E poi Rodolfo, fratello  di mia madre e mio padrino. E poi ancora Galileo, nonno materno, morto durante l’infanzia della mamma. E per finire il beneagurale Maria in omaggio alla Madonna. Quindi la bellezza di cinque nomi! Sarà vero?

In data recente (2016) Anna Boiani, cioè Giuseppina Boiani-Tombari, attenta ricercatrice e amica di famiglia, ha risolto l’enigma: Rodolfo fu solo il padrino di battesimo accanto alla madrina che era mia nonna: cerimonia celebrata l’8 dicembre. Ma non figura fra i miei nomi. Quelli codificati sono solo gli altri quattro: comunque non posso lamentarmi!

 

Una trentina d’anni fa partecipai alla Commissione per i premi del Fano Film Festival: la riunione si svolgeva nella sede del quarto distretto scolastico, ospitato nel Palazzo Gabuccini, rinato dopo la distruzione della guerra in un discutibile stile “anni Sessanta”. E mi ritrovai seduto nell’esatto punto in cui, diciamo “alcuni” anni prima, ero venuto al mondo.

 

Punt.5 - Leandro Castellani - MEMORIE DI UN FABBRICANTE DI IMMAGINI

 

3. La casa natale


Andando a ritroso nella memoria, il più antico ricordo della mia infanzia è quello di una seggiola di paglia di Vienna su cui andavo disponendo dei bicchierini da rosolio tirati fuori da non so quale sportello del buffet. Esperimento di precoce equilibrismo trepidamente interrotto da mamma o da nonna. Mia statura presumibile – stando alla misurazione di analoga sedia – non superiore ai cinquanta centimetri, dunque età presumibile non superiore ai due-tre anni.

Il secondo ricordo: mi nascondo dietro un pianoforte verticale messo ad angolo nel salotto buono, quello tappezzato con carta da parati damascata in rosso cupo. Quindi dovevo essere alto sessanta, massimo settanta centimetri.

La casa che abitavamo costituiva una porzione limitata dell’ala nobile del sei-settecentesco Palazzo Gabuccini, che un angusto corridoio collegava a una parte delle ex-stanze di servizio. Al nostro composito appartamento si accedeva dunque sia dalla scala d’onore, che introduceva a un grande ambiente da noi chiamato “camera degli armadi”, come dalla più angusta scala di servizio collegata alla cucina, quella che usavamo abitualmente. Stanze imponenti, dai soffitti altissimi, ridimensionate dai modesti ma solidi arredi borghesi della famiglia paterna o fatti arrivare dalla Toscana, dalla casa dei miei nonni materni.

Ricordo che, nelle sere d’inverno, mia sorella ed io dovevamo abbandonare ben coperti il piccolo soggiorno riscaldato da una stufa Becchi, dove si svolgeva ampia parte della nostra vita, per raggiungere l’ala notte, attraversando il salotto buono, quello col pianoforte e i due ritratti a olio degli antenati firmati da Giuseppe Ceccarini, l’ingresso nobile adibito a grande stanza degli armadi e la camera dei genitori. Tutti ambienti non riscaldati, gelidi. I nostri letti erano stiepiditi dal “prete”, struttura di legno che conteneva la “monaca”, recipiente di coccio dentro il quale la brace aveva vita breve. Ma riuscivo a rannicchiarmi sfruttando quel residuo di calore in attesa dell’altro, fornito dal mio corpo, che avrebbe invaso una porzione più ampia di lenzuolo.

All’ora della nanna, la mamma ci spogliava nel piccolo soggiorno riscaldato per rivestirci col pigiamino, poi ci faceva indossare una specie di vestaglia – la mia l’aveva ricavata dalla giacca da ufficiale di papà nella prima guerra mondiale – per compiere quella che lei chiamava, con il suo consueto umorismo ottimistico, “la traversata della Siberia”, cioè l’attraversamento delle stanze glaciali.

Il mio lettino era posto di traverso ai piedi del lettone matrimoniale mentre la sorellina albergava nella culla posta al lato materno. Sopra la camera matrimoniale c’era una terrazza non facente parte del nostro appartamento che fungeva da lavanderia e stenditoio per un’altra famiglia, con tale frequenza che una bella notte l’intonaco del soffitto crollò, risparmiando solo l’area occupata dai tre letti con annessa culla. Per un certo periodo, sino a quando l’incannucciata del solaio non venne ricostruita, ci trasferimmo in un’altra camera di solito inutilizzata, in alcuni casi addirittura affittata a qualche coscritto della locale Scuola Allievi Ufficiali, vanto della nostra città.

Attiguo alla stanza da letto c’era un locale misterioso a cui si accedeva tramite una porticina seminascosta nel parato. Un locale dal soffitto altissimo, che arrivava sino al cielo: lo chiamavamo il camerin-alto e serviva da ripostiglio e da soffitta. Mio padre ricordava di esservi stato rinchiuso qualche volta, da bambino, come punizione per le sue marachelle. Ed era così piccino – rammentava – da nascondersi dentro il “prete” per sentirsi al sicuro e vincere la paura. Molto tempo dopo, messi in fila e razionalizzati i ricordi, avrei compreso che il camerin-alto doveva essere l’antica cappella privata del Palazzo Gabuccini, ormai spogliata dei quadri e dei marmi. Restavano solo le cornici di stucco, sbrecciate qua e là, e un abbozzo di altare, cioè l’anima di mattoni che un tempo aveva sostenuto i rivestimenti marmorei.

Nel corridoio di passaggio fra le stanze “nobili” e quelle “di servizio” era stato ricavato un piccolo vano senza finestre tramite una parete di tela verniciata, come quella dei quadri a olio: era la “camera scura”, rifugio privilegiato di mia nonna. Vi teneva i suoi ricordi e anche un piccolo letto spesso preferito a quello più grande e comodo nell’ampia stanza accanto al soggiorno, la stanza dove si era trasferita mia mamma in preda alle doglie e dove ero nato io.

La “camera scura” mi attraeva e insieme mi faceva un po’ paura. C’era una grande cassapanca dove la nonna conservava vecchi numeri del “Corriere dei piccoli”, forse appartenuti ai suoi primi nipotini – i figli di sua figlia Dolores -, giornaletti che qualche volta mi permetteva di sfogliare ma con cautela e moderazione, e un quadretto della “Madonna del Soccorso” dove era raffigurato un bimbo che veniva sottratto, grazie all’intervento della Santa Vergine armata di randello, alle mire di un diavolo con le corna, gli arti villosi e gli zoccoli caprini: uno spauracchio che mi attraeva e terrorizzava insieme. 

domenica 17 aprile 2022

Punt.4 - Leandro Castellani - MEMORIE DI UN FABBRICANTE DI IMMAGINI

 


2. Altre leggende familiari

Ci sono storie, ascoltate da bambino, circa lontani parenti mai conosciuti, storie a un passo dalla leggenda che non è facile rievocare. In esse la fantasia si mescola alla memoria. Cosa ricordiamo, cosa abbiamo frainteso e cosa abbiamo inventato strada facendo?

I Buzzoni – ma si chiamavano così? – erano una famiglia venuta da lontano, forse dal Nord, che a Pesaro aveva impiantato il primo laboratorio per lavorare il vetro. A questa famiglia credo appartenesse la mamma di mia nonna, cioè la mia bisnonna, i cui fratelli avevano probabilmente dato origine ad altre schiatte di strani ma poco frequentati parenti. Fra loro un paio di eccellenti musicisti. Cugini di papà? Lola – la ricordo, piccola, tracagnotta e baffuta - suonava l’arpa nei grandi teatri lirici - la Fenice, la Scala? - e a sentire mia nonna dava il meglio di sé nel famoso “a solo” d’arpa per la serenata di Turiddo nella “Cavalleria rusticana”: oh Lola che di latte hai la camisa, si bianca e rossa comme ‘na cerasa… Applausi a scena aperta. E suo fratello, che si chiamava Aldo come mio padre, suonava il contrabbasso. Uno strumento ostico: nelle orchestrine romagnole lo chiamano il porcòn per quel suono pesante e sgradevole. Ma bisognava sentirlo!  - diceva ammirato papà – Suonato da lui sembra un violino…

Ma la specialità della famiglia era… la follia, in altre parole gli scherzi atroci di cui si facevano olimpici inventori. Un giorno, da ragazzina, Lola si era finta cieca: così, camminando a tentoni e annaspando con le braccia tese davanti a sé, si era messa a urtare e rovesciare uno dopo l’altro tutti i secchi con il beverone che i fiaccherai di Firenze avevano predisposto per i loro cavalli, ai margini del viale delle Cascine. Adiratissimi i vetturini stavano per reagire ma poi: poerina, gli è cieha!!!

Ma dei loro scherzi più atroci era vittima un fantomatico “zì Carlinìn” -  fratello dei musicisti, zio di mio padre o forse di mia nonna? – scherzi che venivano rievocati dalla mia ava con un certo imbarazzo. Probabilmente si trattava di un figlio un po’ “minus habens” a cui i fratelli riservavano un trattamento a dir poco sadico: “questa sera quattro soldi a chi salta la cena”, e Carlinìn digiunava. Al mattino dopo: “chi vuol fare la colazione deve pagare quattro soldi”, e Carlinìn, affamato, restituiva i quattro soldi.  E ancora: “stasera a letto senza cena tanto non c’è niente da mangiare.” E Carlinìn se ne andava a dormire. Al mattino dopo, commenti divertiti dei fratelli: “le brasciòl ch’avén magnèt ier sera, el grass ce’l tirémi un sa cl’elter!”

Mio padre sosteneva, in base a questi e analoghi racconti, che zì Carlinìn fosse il meno matto della famiglia! Famiglia che, stando a queste burle a base di digiuni, non doveva nuotare nell’abbondanza, almeno sino all’ascesa sociale e professionale dei due musicisti!

 

L’unica rappresentante della strampalata schiatta, intima dei miei, era l’Egizia Bazigaluppi, una professoressa di disegno che aveva sposato il generale Enrico Bargossi, di lei molto più anziano, ma da lei amato e curato con straordinaria dedizione. Egizia era un’artista geniale: realizzava piatti di ceramica su disegni classici, nell’illustre tradizione dei ceramisti pesaresi. E inoltre fu lei a inventare di sana pianta l’arte, cosiddetta “tradizionale”, dei tessuti rustici, tappeti, tovaglie eccetera, disegnando i bozzetti nonché ideando e realizzando gli stessi telai, a Pesaro come a Novilara. In questo ameno paese sulle colline possedeva una casetta dove trascorreva l’estate col suo generale. Morendo, l’Egizia lasciò casetta, disegni e materiali al Pio Sodalizio “Artigiane Cristiane”. Una persona arguta, divertente, intelligentissima. Quando ero un giovinetto, già di belle speranze, mi aveva promesso: un giorno ti racconterò tutta la storia dei Buzzoni e tu la scriverai. Ma non tenne fede alla parola data, o forse fui io a tradirla. Valgano queste rare imprecise note.