Oltre il piano nobile del Palazzo la grande scala saliva ancora, ma rimpicciolendosi, sino al mezzanino, non proprio una vera soffitta, dove viveva la vedova dell’ultimo custode-amministratore dei conti Gabuccini, amorosa guardiana dei residui cimeli dell’avito casato: una scatola di reliquie, ognuna con la bolla attestante la sua autenticità, una collanina di libri sette-ottocenteschi, alcuni dei quali scritti a mano con impeccabile grafia da un letterato – tale Fulgenzio Mariotti - che aveva tradotto, direttamente dal francese, testi e romanzi d’autore non più individuabile. E poi un manoscritto: l’autografo originale di un vasto poema concepito dall’ultimo consorte dalla contessa, un gentiluomo inglese approdato a Fano dopo una vita avventurosa, in cerca di quiete e serenità, per comporre l’opera che avrebbe dovuto assicurargli l’immortalità. Due grandi libroni zeppi di correzioni e ripensamenti, l’Adelais, poema probabilmente ancora inedito di John Taaffe.
La vecchietta dell’ultimo piano viveva con una nipote, gentile, nubile e magrolina, che negli anni amari della guerra sarebbe divenuta una ragazza madre. Per la Prima Comunione mi regalò l’inesorabile libro “Cuore” di Edmondo De Amicis.
Al piano terra, in testa al corridoio che dal piccolo portone di via Rainerio 4 conduceva al nostro appartamento, c’era lo studio dello scultore Strolìn, in realtà un deposito di rilievi decorativi in gesso con i relativi stampi. Uno scorbutico vecchiaccio in papalina – o era uno zucchetto da ebreo? - che mi terrorizzava al solo vederlo. Quando morì, liberando la mia prima infanzia da angosce superflue, quello spazio venne occupato da papà che ne fece il suo studio.
A lato del portoncino d’ingresso, su via Rainerio, c’era il laboratorio da falegname di Leandro, detto Lallo, prodigo nel rifornirmi di piccoli scarti di legno ma avaro in fatto di chiodi che dovevo centellinare e riutilizzare più volte. Attrazione del locale, appeso a una trave del soffitto, era lo scheletro di un gatto con in bocca lo scheletro di un topo. La spiegazione un po’ fantascientifica era che il gatto fosse morto istantaneamente per aver addentato un topo avvelenato.
La finestra del piccolo soggiorno di casa, unico ambiente riscaldato, si affacciava sull’entrata laterale del Duomo, sempre sbarrata, da cui si accedeva direttamente al Battistero. Uno dei miei primi esercizi di lettura fu quello di compitare la lapide posta sopra l’ingresso che ricordava il battesimo di Ippolito Aldobrandini, poi Papa Clemente VIII - il Pontefice del supplizio di Giordano Bruno e della decapitazione di Beatrice Cenci - cerimonia celebrata allo stesso fonte in cui, qualche secolo dopo, sarei stato battezzato anch’io: che precedente illustre!
Piccolo “giallo” sui miei nomi di battesimo. Dunque secondo le confuse quanto approssimate memorie familiari sarei stato gratificato al battesimo da un profluvio di nomi. Leandro tanto per cominciare, appellativo incontrovertibile, garantito, il nome del nonno paterno, morto quando mio padre era bambino. E poi Anselmo, perché, come recitava mia nonna: “Il primo di dicembre è Sant’Anselmo, il due San Richiliano, il quattro Santa Barbara beata, al sette San Tomàs si vien per via e l’otto Concezion Santa Maria, al dieci la Madonna di Loreto…” e via dicendo sino al glorioso finale della filastrocca: “e il venticinque abbiam Natale Santo.” Nel martirologio ufficiale questo Anselmo al primo dicembre non c’è proprio, ma il nome dovrebbe essermi rimasto. E poi Rodolfo, fratello di mia madre e mio padrino. E poi ancora Galileo, nonno materno, morto durante l’infanzia della mamma. E per finire il beneagurale Maria in omaggio alla Madonna. Quindi la bellezza di cinque nomi! Sarà vero?
In data recente (2016) Anna Boiani, cioè Giuseppina Boiani-Tombari, attenta ricercatrice e amica di famiglia, ha risolto l’enigma: Rodolfo fu solo il padrino di battesimo accanto alla madrina che era mia nonna: cerimonia celebrata l’8 dicembre. Ma non figura fra i miei nomi. Quelli codificati sono solo gli altri quattro: comunque non posso lamentarmi!
Una trentina d’anni fa partecipai alla Commissione per i premi del Fano Film Festival: la riunione si svolgeva nella sede del quarto distretto scolastico, ospitato nel Palazzo Gabuccini, rinato dopo la distruzione della guerra in un discutibile stile “anni Sessanta”. E mi ritrovai seduto nell’esatto punto in cui, diciamo “alcuni” anni prima, ero venuto al mondo.