mercoledì 29 giugno 2016

RACCONTINO STUPIDO



Un raccontino stupido, quello dell’uomo-telefonino che non reggeva la carica. Si scaricava troppo presto e bisognava attaccarlo tempestivamente a una presa di corrente. Allora i suoi occhi che via via si erano fatti stanchi per poi arrossarsi, nel giro di qualche ora tornavano a schiarirsi e poi a splendere di una lucetta azzurrina e l’uomo ripartiva in quarta. Ripartivano gli entusiasmi, la voglia di fare, di progettare. Quante ne pensava! Intraprendere un nuovo lavoro, cambiar casa e città. Mettere a posto le sue cose, ordinare i suoi cassetti, quel lavoretti noiosi sempre rimandati. E poi? E poi la luce azzurrina si spegneva troppo presto, con i progetti a mezza strada, il trasloco iniziato, i mobili lasciati lì per le scale, i cassetti svuotati: la carica si era esaurita un’altra volta e bisognava rimetterlo in carica. Ci pensava sua moglie, oppure la portiera, l’amico che abitava al piano di sopra che, vedendolo afflosciato sulla poltrona riusciva a sollevarlo e a trascinarlo, volente o nolente, sino alla presa di corrente: ecco aveva fatto anche la rima. Ma questo estenuante lavoro di sopperire costantemente alle sue crisi energetiche esauriva e spossava tutti quelli che gli stavano vicino. Come fare per trovargli una carica che avesse una più lunga durata? Accumulatori di entusiasmo? Pile a lunga durata di serenità? Inoltre c’era il pesante inconveniente dei periodi di obsolescenza, quando per qualche guasto alla centrale l’energia veniva sospesa per ventiquattro, quarantotto ore e anche più. Ne approfittava per andare in vacanza, una vacanza stupida, senza energia, fatta di lunghi riposi che trascorreva a letto, appena un residuo di forze per consumare una scatoletta o bere mezzo bicchier d’acqua. Fortunatamente i guasti alla centrale di solito corrispondevano ai weekend e interferivano con qualche festività civile o religiosa che fosse, quando gli addetti ai lavori e alle riparazioni se la prendevano comoda o erano irreperibili. L’inconveniente grave, tale da mettere in crisi il sistema, si verificò un bel giorno quando il collegamento improprio con una spina difettosa provocò un corto circuito all’impianto di casa. L’uomo ebbe un sobbalzo, un esubero improvviso di energia, una scarica potente, fece fuoco e fiamme, se la prese con i suoi, moglie e figli, fece volare schiaffi, pentole e vasi da fiori, poi si abbattè esaurito, spento,  forse per sempre? Cercarono di rianimarlo con il defibrillatore a batterie, ma inutilmente. Allora pensarono di sostituirlo definitivamente con un congiunto di nuovo modello, uno di quelli ricaricabili a pedali, pedalando all’occorrenza su una specie di bicicletta. Faticoso ma comodo. E la famiglia riprese a funzionare. 
(Leandro Castellani)

martedì 21 giugno 2016

JOHN GRISHAM IN E.BOOK



Un racconto dedicato all’avvocato canaglia Sebastian Budd e riservato esclusivamente ai lettori di e.book. John Grisham, se non può dirsi l’inventore, è certamente lo scrittore che ha contribuito in modo determinante alla fortuna del genere “legal thriller” con una serie di abilissimi romanzi che hanno esplorato i vari protagonisti e comprimari della grande avventura legale: accusatori e difensori, giudici e giurati, procacciatori di cause e ricercatori, nonché testimoni e accusati. Un numero esorbitante di edizioni e di vendite (stimate in duecentottanta milioni di copie) e un’autentica pacchia per il cinema che ha abbondantemente attinto dai suoi romanzi quasi sempre con ottimi risultati, anche se la prima trascrizione cinematografica nel lontano 1993 è rimasta forse la migliore, “Il rapporto Pelican”. Nella sua carriera di scrittore, tutt’altro che conclusa, Grisham non si è fatto mancare mai nulla, sia pure con risultati più modesti rispetto ai suoi exploit legali: romanzi tout-cour, libri per ragazzi eccetera. Alla esclusiva distribuzione su e.book è riservato un racconto della sua recente impresa, dedicata alle avventure di un ”avvocato canaglia”, e cioè un racconto frettoloso che parte da un incipit pasticciato, ben lontano dai fulgori delle sue precedenti avventure: storia e personaggi trascritti velocemente e di scarso interesse. Ma quando, qualche passo dopo, Grisham passa a descrivere “in diretta” le fasi processuali ecco che la consueta bravura si fa largo e le pagine diventano trascinanti. Sembrano la porzione di romanzo non sviluppato, per il quale l’autore non abbia trovato materia sufficiente né un valido motivo centrale. Un racconto che finisce lì e rende agli e.book un omaggio fragile quanto inconsistente. (Leandro Castellani) 

domenica 19 giugno 2016

GUERRA DEI MONDI



Ci vuole un certo coraggio a rileggere oggi le opere di H.G.Wells (1866-1946). Si ha l’impressione di leggere un libro già letto venti volte o di rivedere un film già visto venti volte. E invece no, tutto il contrario. La prima visione – o lettura – assoluta è proprio questa. 1987: era la prima volta che uno scrittore visionario immaginava il futuro, aprendo i cammini dell’avventura anticipatrice, della fantascienza, dell’ingegneria genetica, della psicosi atomica... H.G.Wells o “della prima volta”, una visione anticipatrice che oggi ci appare ovvia, raccontata da tanti altri e in modo ancor più suggestivo: la macchina del tempo, l’uomo bionico, l’uomo invisibile, l’isola popolata di esseri mostruosi frutto di contaminazioni genetiche e di spericolati innesti chirurgici, e così via. Torniamo a “La guerra dei mondi”. Nella placida provincia inglese, si abbatte uno strano oggetto venuto dagli spazi, scavando una grande buca, una depressione nel terreno. Un meteorite? No, quando cadono le scorie raccattate lungo il suo viaggio nell’atmosfera, l’oggetto si rivela un cilindro d’acciaio infuocato, che andrà lentamente raffreddandosi, mentre, fra lo stupore dei casuali presenti, il suo culmine comincia a svitarsi dall’interno. Ne fuoriescono strani esseri, “i marziani”, che però sembrano non farcela ad abbandonare la depressione, perché l’atmosfera terrestre ne rende più faticosi i movimenti. Ma superato il varco un fuoco distruttore comincia a creare il terrore. I marziani creano un enorme tripode metallico, come una sorta di loro prolungamento meccanico, che semina la distruzione: “cervelli che governavano enormi corpi meccanici e che potevano spostarsi rapidamente da un punto all’altro e colpire...”:  Wells ha inventato i transformers ?  Poi pioverà sulla terra una seconda nave-cilindro e poi una terza... Sono i primi capitoli di una nuova avventura letteraria che negli anni Cinquanta conquisterà il cinema per poi espandersi in sempre nuovi spazi. Ma tutto nasce da queste pagine: “Mai, nella storia del mondo, una simile massa di esseri umani aveva emigrato e sofferto.” Wells racconta e descrive in modo singolare, come un pedante giornalista di cronaca, evita voli pindarici, rappresenta “i fatti” minutamente e con distacco, come nel più minuzioso e meticoloso reportage, conferendo alle sue spericolate e anticipatrici invenzioni una parvenza di assoluta verità. Non dimentichiamoci l'adattamento radiofonico di  Orson Welles (1938), celebre per aver scatenato il panico nelle città della costa orientale degli Stati Uniti quando molti ascoltatori non si accorsero trattarsi di una finzione e credettero che la Terra stesse realmente subendo l’assalto o di bellicose astronavi marziane. Ma ogni romanzo del prolifico H.G.Wells si basava anche sulla convinzione – o la speranza - la scienza dovesse essere funzionale a un progresso effettivamente benefico e che l'uomo dovesse essere sempre e comunque in grado di controllare le forze da lui create.
(Leandro Castellani)

giovedì 16 giugno 2016

DIABOLICO DUMAS !




Diabolico Dumas, questo scrittore un po’ mulatto (sua nonna era una “schiava” africana di Haiti) ma più francese dei francesi, facile ad essere catturato dalle imprese straordinarie sino a farsi cronista fuori ordinanza di un splendido avventuriero come il nostro Garibaldi, a cui fornisce armi munizioni e camicie rosse per la sua spedizione, impagabile creatore di avventure che inventa e scrive senza temere di mettere al lavoro un piccolo esercito di familiari, Ghost writers ante litteram. Innumerevoli i personaggi che hanno varcato le sue pagine per scavalcare gli anni e diventare eroi del cinema e più tardi della televisione, catturando adulti e bambini. Non so se i critici rigorosi, i letterati doc, con l’eccezione di Giorgio Manganelli e Umberto Eco,  continuino ancora a storcere il naso di fronte ai suoi romanzi, ma so che, grazie anche ai media, le sue invenzioni hanno conquistato quell’immortalità abbastanza ostica da espugnare da parte di scrittori che hanno il grave demerito di piacere a tutti. Fra la vasta schiera delle sue creazioni, due tengono il primato in fatto di ristampe e adattamenti in immagini, “I tre moschettieri” e “Il conte di Montecristo”. Il primo narra una storia, abbastanza pasticciata e inverosimile, accaduta ai tempi di Luigi XIII, quando il grande Richelieu la fa da padrone e la bella regina Anna si mostra un po’ troppo compiacente con un nobile inglese, per cui al pasticcio debbono porvi riparo i tre audaci e fedelissimi moschettieri che, a loro volta, passano in subordine rispetto al quarto intruso, l’immortale D’Artagnan, un miles gloriosus che non vive di millantato credito ma ci sa fare davvero. Ma se possibile il fascino di D’Artagnan passa in seconda linea rispetto a quello di Edmond Dantès, futuro Conte di Montecristo, giovane marinaio annientato dai nemici e beffato dalla sorte. E il momento topico, la scena madre,  quella del recluso nel cartello d’If raggiunto da un altro recluso che...  ha sbagliato percorso e anziché scavarsi una via d’uscita è finito nella cella altrui. Parlo del misterioso abate Faria, il personaggio più singolare della narrativa d’avventura, mentore e pedagogo del giovane marinaio piuttosto ignorantello che trasformerà in un erudito signore, pronto ad affrontare, una volta sfuggito dal carcere, sia il destino che i rivali. Anticipando l’espediente di Papillon, Dantès ci riesce. Per inciso dirò che è stato questo romanzo, letto quand’ero poco più che un bambino, a conquistato per primo la mia fantasia, soprattutto nella prima parte, sino alla conquista del tesoro dell’isola di Montecristo, che permetterà al marinaio di trasformarsi in un Conte e architettare tutta una serie di arzigogolate vendette. Grande Dumas, macchina prodigiosa di immagini e di avventure!

martedì 14 giugno 2016

LEMMY CAUTION



Ho abbordato il giallo “Pericolo pubblico”, protagonista Lemmy Caution, spinto dal ricordo di questo rozzo e singolare personaggio che, negli anni Cinquanta, era stato affidato a un interprete dalla faccia butterata, Eddie Constantine, viveur, cantante e attore sui generis, statunitense per nascita ma francese d’adozione, promosso, dopo una nutrita serie di Lemmy, anche al cinema di serie A da un singolare film di Jean Luc Godard, “Alphaville”. E mi sono ritrovato immerso nelle pagine di un libro hard boiler, di quelli scritti con uno stile volutamente trasandato e un po’ gergale. Autore Peter Chaney, un ex-poliziotto divenuto fra gli anni Trenta e Cinquanta un prolifico creatore di gialli – o noir se preferite -: inglese di nascita ma si era prefisso di scrivere come un americano hard boiler, alla Dashiell Hammett o meglio ancora alla Raymond Chandler. Ci   riuscì benissimo: uomini duri, donne bellissime e infide – “più di una signora s’è servita di quei gingilli rivestiti di madreperla che ammazzano la gente quando si preme il grilletto” - violenza a suon di cazzotti, rivoltelle che sparano troppo in fretta, gioco d’azzardo, gangster con poca o troppa fantasia. E in mezzo a questo guazzabuglio Lemmy, “uno sporco sbirro”, G-Man in incognito, poliziotto sotto tripla-copertura con super-licenza di uccidere, mascalzone adorabile, donnaiolo impenitente, più sbrigativo e disinvolto, rispetto al tenebroso Marlowe del caposcuola del “genere”. Se dovessimo cercargli un corrispettivo nostrano non potremmo che citare il compianto Fred Buscaglione che, sulle tracce del poliziotto spaccone e rubacuori – ma solo a parole -, con le sue pupe e i suoi whisky facili, creò un indimenticabile personaggio. E del resto i testi spiritosi di Leo Chiosso non imitavano l’hard boiler facendone la gustosa parodia?

lunedì 13 giugno 2016

ONE MAN SHOW



Vanno di moda. Un tempo gli spettacoli consistenti nell’esibizione di un solo eclettico artista erano riservati a personalità con la lettera maiuscola, specie a quelli che potevano puntare su diverse abilità: insieme attori, cantanti, danzatori eccetera. Ricordo l’one-man-show di Yves Montand, visto all’Olympia di  Parigi. Ma poi, in carenza di “mostri” tuttofare, hanno ritrovato spazio anche i monologhi del tempo che fu, come quelli scritti da esimi autori, come Cecov (Fa male il tabacco) o Pirandello (L’uomo dal fiore in bocca). In sintesi, un tale si presenta sul palco e per un’ora circa intrattiene i convenuti raccontando loro i fatti suoi. Non solo fatti che fanno - o dovrebbero - far ridere o piangere, ma anche storie d’amore, di delitti, di passioni. Particolare successo hanno le concioni politiche, dove si critica o si lusinga il governo, si proclamano facili rivoluzioni e si svendono le idee correnti sfondando le rituali porte aperte. Artisti, ma anche opinionisti, giornalisti, polemisti, moralisti ed altri “isti” assortiti si esibiscono su un palco, grande e modesto che sia, traendone il dovuto o più spesso immeritato successo. La moda del monologo ha proliferato e prolifera soprattutto nei piccoli e microscopici teatri dell’off-off nostrano, perché rappresenta anche una comoda soluzione per risolvere uno spettacolo con un minimo di spesa nonché per evitare gli inevitabili contrasti fra compagni d’arte. Nascono compagnie formate da quattro-sei persone, che poi si riducono a due, che poi si riducono a un monologo. La morte del teatro? Ma il pubblico ci sta, nasconde la noia dietro scuse plausibili come la moda, l’impegno sociale, la condivisione politica, l’ansia palingenetica. Intendiamoci: ho visto fior di spettacoli-monologhi di prim’ordine, avvincenti quanto intriganti.
Ma sono l’eccezione.
Ma gli affabulatori autorizzati, quelli di professione – attori autentici o “isti” sedicenti tali – non raggiungono mai il livello di capacità affabulatoria, extra-palcoscenico, dei cosiddetti “sola”, per usare un’espressione tipicamente romana, cioè degli imbonitori privati, venditori di fumo con le loro mirabolanti offerte di vendite a prezzi stracciati, di acquisizione di rare fortune, di occasioni uniche, di salvataggi da precarie situazione di difficoltà, accreditandosi come plenipotenziari di qualche politico nostrano o magari di qualche magnate cinese. Quanti ne ho incontrati e ne incontro tutt’ora! La capacità affabulatoria dei “sola” non è soltanto uno strumento per accaparrarsi qualche provento, per “combinare l’affare”, ma è un’opera di seduzione, un modo di esibirsi fine a se stesso, un’offerta gratuita e gratificante, liberatoria. L’invenzione, la panzana, l’avventura personale narrata per il solo gusto di piacere, per il bisogno irresistibile di inventarsi una personalità, un ruolo, uno spessore sociale che non esistono. Nelle mie pubblicande memorie ho dedicato loro tutto un capitolo, ma uno solo non bastava e ho dovuto scinderli in due.

domenica 12 giugno 2016

AVREI DOVUTO RESTARE A CASA



“Avrei dovuto restare a casa” è un lungo racconto-confessione dello scrittore-sceneggiatore Horace McCoy (1897-1955), la storia di sapore autobiografico di uno spaesato provinciale che capita nella Hollywood degli anni d’oro, la rinomata fabbrica delle illusioni, un mondo estraneo, fatto di avventurieri, debosciati, opportunisti, ninfomani, fra divi e pseudodive, ricche e spiantate, “comparse” che nutrono l’impossibile illusione di farsi strada in virtù di un inatteso miracolo. E il sogno dorato si trasforma in un incubo di compromessi anche degradanti, furti, prostituzione, suicidio. Temi e figure che la narrativa e il cinema avrebbero ampiamente ripreso negli anni successivi.
McCoy è uno specialità nel narrare il retroscena amaro delle scalate al successo, grande o minuscolo che sia. Il suo primo romanzo, “Non si uccidono così anche i cavalli” (1935), col racconto di quella stremante maratona di ballo che si trasforma via via in una corsa pazza verso la sopravvivenza delle proprie illusioni, ha fruttato anche un bel film.
Narrato con una scrittura nervosa e con il gusto disincantato e un po’ macabro di distruggere le proprie e altrui illusioni, questo libro, scritto nel 1938, è stato un apripista che oggi si legge come un deja vu. Ma forse mai come in queste rapide pagine il dramma delle illusioni viene narrato con tanta dolce tristezza. Un romanzo coraggioso e malinconico che anticipa “Gli ultimi fuochi” di Scott Fitzgerald, e insieme demolisce uno dei miti immarcescibili del Sogno americano.
(Leandro Castellani)