mercoledì 30 marzo 2016

VADE RETRO



Scritto il venerdì santo, giorno di riflessioni amare. Dovessi fare la classifica dei programmi più deleteri - diciamo immorali per farci capire - che sta offrendoci la Televisione italiana, nelle sue due maggiori compagini, sarei indeciso sulla graduatoria ma comunque porrei sul Podio le rubriche create e gestite dalla sacerdotessa Maria De Filippi (C’è  posta per te, Amici, Uomini e donne), le gare darwiniane di Bonolis & C. e il reality ”L’Isola dei famosi.” Alla base la promozione del medesimo ideale: un mondo sporcaccione che invita i giovani a bruciarsi e gli anziani a rinfantilirsi, un orizzonte diviso fra arrampicatori in fregola costante e perdenti con il pentimento e la lacrima facile.
La bieca speculazione sulle fragilità emotive di giovanissimi e adulti. La caccia alla crisi emozionale, al pianto, alla pubblica confessione in un clima da aggiornati autodafè. La competizione sfrenata per mettersi in mostra e guadagnarsi la gloria fasulla del “serale”. L’esibizione prezzolata di astri televisivi e star cinematografiche, reduci da comunicati commerciali, eretti a salvatori di un popolo lacrimoso quanto disperato. L’omologazione di comportamenti trasgressivi grazie a una buona dose di falso perbenismo verniciato con più mani di ipocrisia. Il gusto voyeristico di spiare lo sboccio di effimere combinazioni amoroso-sentimentali (leggi: prestazioni sessuali), mutandine, bicipiti e culi ostentati a bella posta da giovani e ragazze rantolanti su letti e divani o racchiusi nella falsa solitudine di un cosiddetto confessionale. Ed è triste vedere come le vittime preferite di queste immolazioni siano quasi sempre persone sprovvedute, ignoranti, facili ad essere  suggestionate e plagiate, ragazzine che tentano di mimetizzare, sotto un abile trucco da diva e vestitini adeguati, gesti e atteggiamenti da “coatte”. Oppure cosiddetti “famosi” in cerca di rilancio che, pur di conquistare un ultimo rimasuglio di gloria, ostentano le loro nudità (ipocritamente schermate con effetti di sfocato) e si sottopongono a “prove” fra il sadico o il repellente. E quel gusto altrettanto sadico della progressiva eliminazione, che sancisce e magnifica il pettegolezzo, la litigiosità, la competizione cattiva.
Su tutto - ripetiamo - cala una coltre di perbenismo che omologa le deviazioni rendendole “norma”, addirittura obbligatorie, a fulgido esempio per le sprovvedute generazioni che seguono la tv.
Mi accorgo di usare parole forti, giudizi apodittici, tirati giù con l’accetta,  ma non c’è altro modo, secondo me, di dire pane al pane senza nascondersi dietro il gergo dell’esperto in scienze della comunicazione. Non sono né un bacchettone né un falso  moralista. Non scappo via quando la tv ci presenta – veri o ricostruiti in una fiction - episodi sconvolgenti e drammatici come quelli che la vita ci offre ogni giorno, anche se visti nella loro crudezza e negatività. Ben vengano i nudi integrali che evidenziano – quando c’è – la bellezza del corpo umano, ma senza vederli dal buco della serratura, con la pruderie del vedo-non vedo, condannando al discredito morale e all’emarginazione sociale chi non si adegua. Ma quando si oserà fare un discorso serio sulla tv e non limitarci all’ennesimo talk show fra responsabili e falsi esperti, amministrato da un saccente tuttologo?

giovedì 24 marzo 2016

VOGLIA DI SCRIVERE



Voglia di scrivere a ottant’anni suonati. Ma scrivere cosa? Nel mio piccolo credo di aver esplorato tutti i campi. Evitando accuratamente le Editrici maggiori, che, come prevedibile, sarebbero diventate una Editrice Unica. Evitate perché?  Per snob, per incapacità di raggiungerle, per malfiducia, per ineduatezza dei miei scritti? In tutta coscienza posso rispondere no a tutte le ipotesi. Le cosiddette Edizioni maggiori, si sono ridotte, e non da ora, a macchinette distributrici di opere già anticipatamente promosse e collocate in prima linea dal mercato internazionale, inoltre alla smaccata diffusione di opere sortite dalla penna di attori, divi e divetti della tv, comici da prestazioni di tre minuti - e scritte da chi per loro – tutti cosiddetti autori che le opere se le promuovono e pubblicizzano da soli. Restano un numero esiguo di romanzi di amici, di amici degli amici, di promesse suggerite di qualche agenzia accreditata, tutte opere utili a crearsi un alibi per concorrere alla spartizione dei premi letterari. Quest’ultima porzione di opere-alibi realizzerà molto vendite – grazie alle fascette dei Premi conseguiti – ma sarà destinata ad accrescere i depositi delle bancarelle di libri usati o le librerie dei salotti. Tranne le debite eccezioni, beninteso.
Scartata la pletora dei cosiddetti Editori a pagamento sono ripiegato su alcune Editrici “cosiddette minori” ma di grande prestigio, soprattutto per quanto riguarda la saggistica, nonché su alcuni Editori volonterosi e coraggiosi per gli altri generi. Ecco qua. Inoltre da qualche anno, grazie ai suggerimenti di mio figlio, ho scoperto Amazon e gli ebook.
A proposito di Grandi Editrice miopi e distratte, vorrei ricordare che le voci più autentiche della nostra narrativa – almeno secondo me - sono state scoperte, dopo ripetuti ostinati rifiuti,  molto in ritardo o addirittura postume. Mi riverisco a Guido Morselli, a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a Dolores Prato. Recentemente Alessandro Rigi Luperti ha pubblicato con una benemerita Editrice “minore” un’opera giovanile che è la cosa più importante delle ultime stagioni letterarie, e non solo. La mia giovane concittadina Francesca Tombari ha pubblicata opere molto valide con una casa indipendente, e chissà quante altre opere importanti vengono sottratte al potenziale lettore per distrazione colpevole dei cosiddetti critici.
Dunque, dicevo, ho scritto di tutto, dalla saggistica collegata e non al mio lavoro di autore televisivo, al costume, alla narrativa, all’umorismo “in rima”. Mi resta da esplorare la Poesia e la narrativa “di genere”.  Ma ho un numero di inediti sufficienti a colmare la lacuna. Dunque cosa scrivere? Ho un voluminoso quanto inedito libro di memorie, dall’infanzia a Fano ai miei pellegrinaggi per il mondo, al mio lavoro di regista-autore, che giace inquieto in continua gestazione ma che voglio pubblicare direttamente, senza intermediari, per consegnarlo alla storia della tv e dello spettacolo ma soprattutto agli amici e ai miei concittadini. A ottant’anni credo di essere maturo per un incompleto inventario, sia pure in progress. Su Facebook, il social network che ha rinverdito e moltiplicato la schiera dei miei amici scovando persone perse di vista o mai conosciute, “posto” quasi quotidianamente una serie di noterelle che rievocano infanzia, luoghi frequentati ed esperienze vissute. Andrò avanti così fino a quando “l’ispirasion” – per dirla col mio amico-poeta Gabbianelli, ahimè scomparso -  mi suggerirà qualcosa di nuovo e di diverso.

sabato 19 marzo 2016

DELITTI DA FICTION



Facciamo conto che sia obbligato a fare il “compito a casa”, cioè un’imposizione. Quanti ne ho fatti di compiti, durante gli anni di scuola e dopo la scuola, nel lavoro: testi da scrivere e da riscrivere, programmi da montare o da rimontare, cioè da salvare, lavori da ghost whriter che rinomati giornalisti avrebbero firmato – bontà loro ! - senza un attimo di scrupolo. Quindi posso ben assegnarmi un compito da solo, senza imposizioni esterne.
Andiamo a capo. Svolgere questo compito: scrivere il soggetto per una fiction ambientata nel contesto che hai frequentato, quindi con tutte le stimmate della realtà, ma inserendovi uno svolgimento giallo, un morto o due, meglio ancora una morta o due, come quelli di cui parla la cronaca giornaliera che poi vengono enfatizzati dalle rubriche pomeridiane e serali.
A capo un’altra volta. Un bel mattino, a troupe convocata per le abituali riprese del serial di successo, non si trova il direttore della fotografia. Lo cercano al bar, telefonano a casa, niente: di Giuseppe nessuna notizia. Anche la sua compagna comincia a preoccuparsi: non è che starà ancora appresso alla solita attricetta un po’ mignotta? Telefonata d’ufficio all’attricetta: Giuseppe, ma quando mai! Allo Studio la lavorazione è ferma, una barca di soldi che se ne va. Il direttore di produzione intima: bisogna cominciare. Il regista si arrende. Ci si rivolge al primo cameraman: pensaci tu. Sul set si accendono le luci: orrore! Il direttore della fotografia è lì che penzola da una fune. Un suicidio? Vi piace come inizio? A me, no! Eppoi i suicidi non vanno più di moda.
A capo di nuovo. Mancano solo tre giorni alla fine delle riprese del film, quando alla protagonista la trovano morta nel suo camper: sgozzata, con il sangue comincia a fuoruscire dall’uscio. Il produttore allibisce: e mo’ come si fa? Sono rovinato. Fermi tutti! Fortunatamente a scoprire il cadavere sono state solo tre persone, la sua segretaria particolare, il produttore e il regista. Congiura del silenzio: teniamo segreta la cosa e terminiamo le ultime tre scene con una sosia ripresa di spalle, di profilo, di culo... Ma quel sangue colato per terra ha già fatto danno. L’addetto alla sicurezza della Studio ha telefonato ai Carabinieri che quando arrivano non trovano più nessun cadavere. E il lavoro è ripreso come sempre, la macchina si è rimessa in  moto. Ma da dove provengono quelle gocce di sangue?  Perchè Giovanna non si fa più vedere, dov’è finita? Chi ha nascosto il cadavere? Le riprese terminano alla meno peggio: anzi può darsi che il regista abbia inventato un nuovo stile, con la protagonista che si vede solo di spalle e di culo. Mescolate alle scene girate precedentemente non se ne accorgerà nessuno. Il materiale è già al montaggio. Ma adesso produttore e regista sono nei guai. Quanto alla segretaria della diva, è improvvisamente scomparsa. La ripescheranno a fiume, anzi in quel torrentaccio, quasi un canale scoperto, che transita non troppo lontano dagli studi. E siamo a due cadaveri...
Con un po’ di buona volontà posso far venire l’infarto al produttore, far cadere un macchinista dal carro-ponte, introdurre un maniaco, una sorta di fantasma dell’opera come ha fatto Brian De Palma, per far fuori altra gente, il protagonista, la sarta, il macchinista stritolato dal carrello. Insomma un’ecatombe. 

giovedì 17 marzo 2016

MAL DE VIVRE



Maria Grazia, che sarebbe diventata mia moglie,  l’aveva conosciuta durante la sua breve frequentazione di un importante collegio fiorentino per fanciulle bene. Ed erano diventare subito amiche, legate da una comune sensibilità, una sintonia di sentire, un feeling, pur provenienti da ambienti diversi. Separate dalla vita erano rimaste saltuariamente in contatto. Poi O. era convolata a nozze con il giovane rampollo di una famiglia borghese, col qual si era precocemente fidanzata. Un giovane brillante con un avvenire assicurato. E qualche anno più tardi Maria Grazia era diventata mia moglie. Ma il legame non si era interrotto. O. e marito vivevano a Milano. Avevo avuto modo di conoscerli: una coppia simpatica, cortese, di quelle che un  tempo si usava chiamare del bel mondo. Lui importante broker, per eredità familiare, lei buona frequentatrice della bella società, due deliziose figlie. Vita dorata: frequentatori di tennis e palestre, vacanze in isole alla moda, amicizie importanti. Ma non avevano nessuno di quegli atteggiamenti boriosi e supponenti, di immeritata superiorità, che si è soliti attribuire alla gente di quel mondo. Li conobbi meglio durante una vacanza romana e feci loro da cicerone nel giro dei ristoranti tipici della capitale. Li rivedemmo al matrimonio di una delle figlie. Un matrimonio gestito secondo la moda incipiente nella società come un party o una festa danzante. Lei sempre gentile, di quella raffinata educazione che non si improvvisa, lui rimasto sempre un robusto giovanotto milanese, disponibile ai piccoli piaceri della vita, consegnato a un’esistenza soddisfatta e indubbiamente gratificante. Ancora giovane aveva deciso di cedere la sua attività a un importante istituto bancario per dedicarsi - con tutto comodo – a una proficua quanto ridotta attività in proprio. Feste, vacanze esotiche e tennis continuavano ad essere punti fermi della sua esistenza apparentemente dorata. Poi un  giorno di non molti anni fa una telefonata di lei: sai, F. si è ucciso. Sconcerto: ucciso lui, l’uomo più pacifico e soddisfatto fra quanti ne conoscessi? E’ una domanda che da allora continua a perseguitarmi. Perché? Relazioni segrete non ne aveva: nel breve bigliettino che aveva lasciato ribadiva l’amore per sua moglie. Problemi familiari? Le sue figlie non avevano avuto matrimoni altrettanto felici del suo, ma alla cosa si era anche troppo facilmente assuefatto. Problemi finanziari? Assolutamente no, le vacanze e il tono di vita non avevano subito interruzioni. E allora? Come vorrei saperlo per tentare di spiegare l’inesplicabile, il mistero. Mal de vivre, direbbero i francesi?


domenica 13 marzo 2016

L'EVASIONE



Appendice alla nota sulla “Cronaca nera”. Evitiamo di chiamarla amorfa cronaca nera. E’ cronaca e basta, con tanto di quotidiani approfondimenti e aggiornamenti. In questo frangente mi è venuta un’idea che cercherò di mettere in pratica nei prossimi giorni: prendere lo spunto da un fatto, anzi da un fattaccio, di cronaca nera per abbozzare un raccontino di semifantasia in trenta righe, una paginetta appena. Vediamo che succede!  
Cinquantenne, un po’ avvizzita e nemmeno piacente anche da giovane, Una vita già disegnata da tempo: fare scuola, tentare di fare amare la nostra lingua e letteratura a una trentina di giovani che se ne fregano, che hanno già un preciso disegno della propria vita, o almeno pensano di averlo. Le feste comandate che non  passano mai, accanto a genitori anziani, a tentar di divertirsi con un romanzetto o di distrarsi con un rotocalco illustrato trovato nell’anticamera del dentista. Niente saloni di bellezza, niente parrucchiere: spenta, occhialuta e bruttina. Poi il prodigio, inaspettato come tutti i prodigi. Quel suo studente la guarda con sfrontata insistenza, le sorride, più tardi le racconta i suoi sogni, le aspirazioni, le confessa la sua indifferenza per le coetanee, volgarotte, facili a concedersi, e invece lui sogna una comunione di anime, di pensieri, di sentire, con la compagna dei suoi giorni, una comunione che sa fare a meno della bellezza, della giovinezza. La professoressa ne è colpita: strano, quasi impossibile che un giovane pensi e sogni così. E se l’età, la bellezza, la consistenza economica e culturale non contassero nulla? Come sarebbe bello! Bello e impossibile. Di giorno in giorno quel sogno si consolida e si arricchisce: sancire quel meraviglioso incontro d’anime fuggendo dal mondo, dai parenti, dagli amici, rifugiandosi in un’altra nazione dove i commenti non suonino giudizio, condanna. La prof si fa stregare – oppure è lei a stregare il ragazzo con quel suo eccesso di fantasia - ritira i suoi risparmi dal conto corrente. Progettano insieme. Lei rifiorisce, si tinge i capelli, compra un paio di camicette a colori. Un bel giorno la prof scompare. I suoi l’attendono invano, la cercano nei suoi luoghi risaputi, poi si mettono in sospetto quando vedono che il suo conto in banca è stato prosciugato. Ma allora è fuggita! Fuggita dove? E con chi? Quel suo studente? Impossibile: potrebbe essere suo figlio!
Passano i giorni, vanno a vuoto gli appelli alla tv, le ricerche. Le congetture si moltiplicano: la prof non si rivede, è fuggita in Francia, è stata derubata da quel giovanottino bizzarro, nessuna traccia nè di lei né di lui. E’ stata derubata e uccisa? O vive felice qualche giorno di serenità in un piccolo paese sperduto, per poi ricomparire esaurito il gruzzolo?
Il mio raccontino si ispira a una realtà che si sarebbe rivelata ben diversa: un bieco seduttore, corrotto nel cervello e nel cuore, un omicidio meditato, messo in atto con l’aiuto del compare che è anche il suo amante. Quant’era più bella la mia fantasia!  

domenica 6 marzo 2016

TERRENO MINATO



So che sto introducendomi in un terreno minato, data l’assoluta mancanza di tolleranza nell’odierno comune sentire. Ci si professa difensori dei diritti universali ma in realtà appena uno si discosta un poco dall’ideologia dominante piovono gli ostracismi. Tutti tolleranti ma fra di noi.
Metto dunque le mani avanti prima di affrontare l’argomento pudore. Pudore? Che vuol dire?
Un passo indietro. In una recente celebrazione liturgica Papa Francesco rivolgeva queste parole, cito a memoria: “se c’è qualcuna che deve allattare il proprio bambino lo faccia pure qui, non c’è problema.” E infatti il problema non c’è: cosa c’è di più bello, sublime, di una mamma che allatta al seno la propria creatura? Solo che un tempo la donna che doveva svolgere quella sacrosanta e necessaria funzione si ritraeva da un lato e magari si copriva il seno con un velo. Solo per pudore, cioè per rispetto degli altri ma, prima ancora, della propria riservatezza.
Analoga considerazione dicasi per le estreme, plateali, esibizioni di affetto in pubblico. Baci abbracci, contorsioni corporee. Tutte cose bellissime, viva l’amore, etero o mono che sia. Ma il pudore, la privacy? Non confondiamo il diritto all’amore con il dovere dell’esibizionismo ad ogni costo.
A questo punto trovo disdicevole chi si scandalizza per qualche turista che orina in pubblico mettendo in mostra le proprie pubenda: che c’è di male, non sono funzione normali, costitutive dell’essere umano? E il pudore? E la riservatezza, diciamolo in inglese che suona meglio, la privacy?
Cerchiamo di essere più autenticamente tolleranti: viva l’affermazione dei propri diritti, il riconoscimento più ampio e incondizionato degli stessi. Viva le manifestazioni civili di chi ci sta e quelle di chi non ci sta. Ma certi gesti lasciamoli al Carnevale o, se del caso, alle pubbliche latrine.


mercoledì 2 marzo 2016

IGINIO UGO TARCHETTI - FOSCA



Ci sono etichette utili per incasellare gli avvenimenti della storia e/o della letteratura: Rinascimento, Romanticismo, Verismo ecc. E ci sono etichette che rischiano di riassumere e talvolta omologare temperamenti diversi e differenti valori. Per quella sorta di “riassunto tipo Bignami” che ognuno di noi ha in testa Scapigliatura vuol dire una sorta di Romanticismo a oltranza, il margine estremo per bohémiens parigini made in Milano e il nome  che si cita è quello di Arrigo Boito. Eppure quanti scrittori dotati di una propria individualità e forse in attesa di adeguata riscoperta, da Antonio Ghislanzoni a Iginio Ugo Tarchetti, entrambi prolifici autori e di opere insospettabili, a volte decisamente trasgressive. Ghislanzoni con i suoi imprevedibili e rocamboleschi romanzi d’avventure nonché i libretti d’opera per Verdi e Ponchielli,  Tarchetti scrittore poeta e giornalista con i suoi racconti fantastici e umoristici, dove si scoprono, ma rivissuti in modo originale, echi di E.T.A. Hoffmann e Edgar Allan Poe,
Di Iginio Ugo Tarchetti abbiamo riletto quello che viene considerato il suo capolavoro, cioè “Fosca”, pubblicato postumo e concluso dalla penna dell’amico Salvatore Farina, storia di tre destini legati da un amour fou, quello di Giorgio per Clara, bellissima, e quello di Fosca, non gradevole d’aspetto ma in grado di esercitare un fascino perverso, per Giorgio. Amore intriso di nevrosi e di isterismo, amore che distrugge e si autodistrugge. Giorgio è appunto stretto tra i due fuochi rappresentati dalle due donne amate e dai loro caratteri antitetici, sottolineati allusivamente dai loro nomi. Il romanzo è un capolavoro nell’analisi sottile e spietata dei sentimenti, uno studio raffinato di psicologie morbose e contorte che, in un certo senso, sembra preludere al decadentismo dannunziano. Un romanzo che va riletto al di fuori delle etichette e degli anni, in questo caso trascorsi invano, data la sua corrosiva modernità.