mercoledì 6 dicembre 2023

LEANDRO CASTELLANI - MEMORIE DI UN FABBRICANTE DIIMMAGINI -- n.3

 


Nel corridoio di passaggio fra le stanze “nobili” di Palazzo Gabuccini e quelle “di servizio” era stato ricavato un piccolo vano senza finestre tramite una parete di tela verniciata, come quella dei quadri a olio: era la “camera scura”, rifugio privilegiato di mia nonna. Vi teneva i suoi ricordi e anche un piccolo letto spesso preferito a quello più grande e comodo nell’ampia stanza accanto al soggiorno, la stanza dove si era trasferita mia mamma in preda alle doglie e dove ero nato io.

La “camera scura” mi attraeva e insieme mi faceva un po’ paura. C’era una grande cassapanca dove la nonna conservava vecchi numeri del “Corriere dei piccoli”, forse appartenuti ai suoi primi nipotini – i figli di sua figlia Dolores -, giornaletti che qualche volta mi permetteva di sfogliare ma con cautela e moderazione, e un quadretto della “Madonna del Soccorso” dove era raffigurato un bimbo che veniva sottratto, grazie all’intervento della Santa Vergine armata di randello, alle mire di un diavolo con le corna, gli arti villosi e gli zoccoli caprini: uno spauracchio che mi attraeva e terrorizzava insieme. 

Oltre il piano nobile del Palazzo la grande scala saliva ancora, ma rimpicciolendosi, sino al mezzanino, non proprio una vera soffitta, dove viveva la vedova dell’ultimo custode-amministratore dei conti Gabuccini, amorosa guardiana dei residui cimeli dell’avito casato: una scatola di reliquie, ognuna con la bolla attestante la sua autenticità, una collanina di libri sette-ottocenteschi, alcuni dei quali scritti a mano con impeccabile grafia da un letterato – tale Fulgenzio Mariotti - che aveva tradotto, direttamente dal francese, testi e romanzi d’autore non più individuabile. E poi un manoscritto: l’autografo originale di un vasto poema concepito dall’ultimo consorte dalla contessa, un gentiluomo inglese approdato a Fano dopo una vita avventurosa, in cerca di quiete e serenità, per comporre l’opera che avrebbe dovuto assicurargli l’immortalità. Due grandi libroni zeppi di correzioni e ripensamenti, l’Adelais, poema probabilmente ancora inedito di John Taaffe.

La vecchietta dell’ultimo piano viveva con una nipote, gentile, nubile e magrolina, che negli anni amari della guerra sarebbe divenuta una ragazza madre. Per la Prima Comunione mi regalò l’inesorabile libro “Cuore” di Edmondo De Amicis. 

Al piano terra, in testa al corridoio che dal piccolo portone di via Rainerio 4 conduceva al nostro appartamento, c’era lo studio dello scultore Strolìn, in realtà un deposito di rilievi decorativi in gesso con i relativi stampi. Uno scorbutico vecchiaccio in papalina – o era uno zucchetto da ebreo? - che mi terrorizzava al solo vederlo. Quando morì, liberando la mia prima infanzia da angosce superflue, quello spazio venne occupato da papà che ne fece il suo studio.

A lato del portoncino d’ingresso, su via Rainerio, c’era il laboratorio da falegname di Leandro, detto Lallo, prodigo nel rifornirmi di piccoli scarti di legno ma avaro in fatto di chiodi che dovevo centellinare e riutilizzare più volte. Attrazione del locale, appeso a una trave del soffitto, era lo scheletro di un gatto con in bocca lo scheletro di un topo. La spiegazione un po’ fantascientifica era che il gatto fosse morto istantaneamente per aver addentato un topo avvelenato.


La finestra del piccolo soggiorno di casa, unico ambiente riscaldato, si affacciava sull’entrata laterale del Duomo, sempre sbarrata, da cui si accedeva direttamente al Battistero. Uno dei miei primi esercizi di lettura fu quello di compitare la lapide posta sopra l’ingresso che ricordava il battesimo di Ippolito Aldobrandini, poi Papa Clemente VIII - il Pontefice del supplizio di Giordano Bruno e della decapitazione di Beatrice Cenci - cerimonia celebrata allo stesso fonte in cui, qualche secolo dopo, sarei stato battezzato anch’io: che precedente illustre!

 (da ”La valigia di Hiroshima, memorie di un fabbricante di immagini”, Amazon)


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