Al tempo di mio nonno s'andava dal barbiere non solo per farsi radere le guance o tagliare i capelli ma anche e soprattutto per le chiacchiere da uomini: teatro, sport, politica...
I barbieri erano appassionati di belcanto e liberi pensatori. Rastrellavano filosofia dai clienti e, dopo apposita cernita, la rimettevano in circolo.
Durante la stagione lirica, al pari di altri artigiani, i barbieri salivano sul palcoscenico del Teatro della Fortuna a fare i coristi: "Oh Signor che dal tetto natio...". Falegnami, fabbri e calzolai preferivano il "Trovatore" per via di quel "Dagli, martella!", ma tutti erano uniti nell'inconfessata aspirazione a intonare "La donna è mobile” o "Ecco ridente in cielo".
Eccezionalmente a un corista spettava il ruolo di Marullo, uno dei tanti "cortigiani vil razza dannata" con cui se la piglia lo sventurato Rigoletto, ma sottratto all'anonimato grazie al procace risalto di barba e baffi posticci.
"Marullo, signore, tu ch'hai l'alma gentil come il core, dimmi tu dove l'hanno nascosta?" supplica il baritono in costume da jolly. Marullo deve restare impassibile e volgere imbarazzato il capo, sottraendo la manica all'insistente abbrancata del giullare, tutto come ha deciso Verdi. Anche se, in cuor suo, sarebbe tentato di confessare a Rigoletto che l'avvenente figliola dalla voce di soprano, l'ormai deflorata Gilda, è là dietro, appena fuor di quinta, ancora alla mercè del Duca. Quasi gli avesse letto nel pensiero il buffone incalza."E' là, non è vero? E' là, non è vero? E' là, non è vero?" Come negare l'evidenza?
In platea e in loggione i compaesani si danno di gomito: hai riconosciuto chi fa Marullo? E’ la consacrazione popolare, l’atteso quarto d'ora di celebrità.
In fondo cosa divide un corista dal tenore protagonista? Che differenza c'è, in termini di vocazione e passione, fra l'esagitato Duca di Mantova e l'imperturbabile Marullo? Voce, presenza, applicazione? Forse soltanto un po' di fortuna.
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A un lato della Piazza c’era una grande fontana in pietra d’Istria, o forse tagliata dalle vicine cave del Furlo. Ai lati della fontana quattro leoni rosati dall’aria sorniona sputavano acqua in continuazione. Al centro la statua di una giovinetta ignuda, la Dea Fortuna, toponimo della città, ostentava al passante un corpo adolescenziale, seducente e impudico. Più che una Dea, una giovinetta un po’ sfrontata che non ispirava cattivi pensieri se non ai fattori e ai sensali che il sabato mattina gremivano la piazza per discutere di buoi e di raccolti. Reduci dal foro boario dove le loro robuste strette di mano, ripetute per tre volte, come una trina benedizione, avevano sancito in maniera indissolubile compere e vendite di animali.
Su un lato della piazza c’era il Teatro, il cuore della città, un tempio profano, parzialmente cristianizzato dal bassorilievo scolpito in alto, a metà facciata, dei tre santi protettori: Fortunato, Eusebio e Orso, tre vescovi antichi le cui gesta si erano perdute nei meandri della storia o della leggenda.
Era il cuore della città quella piazza, volta a volta mercato e bordello, chiesa e arengo. Nel giorno di San Paterniano, il più venerato e venerabile dei patroni, dal balcone del palazzo delle Poste si annunciavano i numeri della Tombola. Il popolo stava in ascolto, con la bocca aperta e la cartella in mano. Poi era tutto un risuonare di grida, di minacce, di imprecazioni e di giubilo. E’ uscito il 69? E giù ad ammiccare malizioso. E il 90? La paura, commentava qualcuno.
(da ”La valigia di Hiroshima, memorie di un fabbricante di immagini”, Amazon)
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