Data la contiguità - il Duomo, come già detto, proprio davanti Palazzo Gabvuccini -, il Duomo fu un po’ la succursale di casa mia. Bambino seguivo mia nonna quando c’erano le solenni, interminabili prediche quaresimali, affidate a qualche oratore importante, portandomi uno sgabellino da casa perché sulle panche, data l’affluenza oggi inconcepibile, non c’era posto. Un particolare architettonico che mi aveva sempre colpito da piccolo era quel grande pilone non intonacato come gli altri ma lasciato lì, come a lavoro incompiuto: naturalmente si trattava della base del pilastro romanico, a futura memoria del vecchio Duomo. Il campanile di Mastro Rainerio, con relative campane, dominava e scandiva le giornate. E il Duomo sarebbe stato il teatro della mia Cresima e Comunione, poi del mio Matrimonio.
Ma Fano pullulava di Chiese, alcune distrutte dagli uomini prima ancora che vi avesse provveduto la guerra: la chiesetta di San Vito, la chiesa fuori porta della Colonna, la chiesetta dei cipressi su via Roma, meta delle mie passeggiate da ragazzo, quando quei due cipressini che svettavano dai pilastri laterali dell’antica costruzione li credevo una sorta di miracolo.
Poi c’erano quattro conventi, equamente suddivisi fra monache e frati: quelli dei frati a San Paterniano e Santa Maria Nuova e quelli delle monache a Santa Teresa e San Domenico. Quest’ultimo invalicabile, con la grande Chiesa non officiata, ma sbarrata (anche se mio padre la ricordava aperta, quand’era ragazzo, per la cerimonia pre-pasquale del “Cristo morto”).
Al Convento di clausura di San Domenico mia nonna faceva una visita pressochè annuale per incontrare la Madre badessa che era di Piobbico come lei. E al di qua e al di là della grata le due donne si scambiavano notizie sulla gente e sui fatti del paese che entrambe avevano abbandonato. Accompagnavo la nonna non perché mi interessassero queste ricognizioni piobbichesi ma perché, alla fine dell’incontro, la Suora mi faceva pervenire, attraverso la ruota, un cartoccino di ritagli irregolari, avanzati dalla fabbricazione delle ostie affidata alle autorecluse, per me un’autentica ghiottoneria.
Sul viale verso il mare, c’era la Chiesa del Porto. Ci passavo davanti ogni volta che da bambino andavo a fare il bagno. Sopra il portone un cartello a caratteri cubitali, che peraltro compariva solo mei mesi estivi, recitava: “Riparazione perpetua”, o qualcosa di simile, intendendo riparazione a base di preghiere per i cosiddetti scandali che avvenivano poco lontano, fra le nudità della spiaggia. Qualcuno ironizzava un po’ su quel cartello che omologava la chiesa a una sorta di officina di riparazioni spirituali.
(da ”La valigia di Hiroshima, memorie di un fabbricante di immagini”, Amazon)
Nessun commento:
Posta un commento