Papà era segretario della locale scuola d’Avviamento professionale e Scuola tecnica “Matteo Nuti” e, in carenza di docenti, insegnava anche ragioneria e computisteria, ma aveva alle spalle un’avventura giovanile d’attore, durante i fantastici anni del cinema muto, e nutriva una genuina passione per l’agricoltura a cui dava esito occupandosi del podere della nonna, la mitica nonna Penelope, dei Bartolucci di Piobbico, discendente, per vie mica tanto traverse, dal Barone di ferro Bettino Ricasoli, della cui moglie aveva perpetuato l’inconsueto nome, un nome che odiava: “Penelope, che nome brutto, non lo mettete mai a nessuna, mi raccomando.” A Piobbico, suo paese natale, mia nonna era la “sora Penelina”.
La mamma discendeva dalla nobile famiglia Bechelloni di Cetona, con un avventuroso nonno garibaldino come leggenda familiare, ed era rimasta orfana in giovanissima età a far da mamma a un fratello e tre sorelle minori. La sua leggenda familiare parlava appunto di un “nonno Cherubini”, fuggito dal seminario alla vigilia del sacerdozio per seguire l’eroe dei due mondi, un avo che al paese natale vantava vasti possedimenti di cui aveva fatto unico erede un nipote, mio nonno Galileo, perché si prendesse cura di tutti quei beni e li tramandasse ai posteri. E mio nonno aveva dovuto rinunciare a una promettente carriera nei pubblici uffici – poteva diventare il più giovane prefetto d’Italia, ricordava la mamma - per ritirarsi nel paesello toscano, ancora non assurto a “buen retiro” degli intellettuali come in tempi recenti. Oggi del suo vasto patrimonio da tramandare ai posteri, di secolo in secolo, rimane solo una targa, a Cetona, “Via Cherubini”.
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La famiglia di mia nonna abitava un palazzo nobiliare nel paese di Piobbico, alle pendici del Monte Nerone. Una famiglia avita, circondata da generale rispetto ma un po’ inquinato da leggende vagamente torbide. Da bambino, amavo molto quella vecchia casa che mi aveva accolto per un bimestre abbondante, all’età di quattro anni circa. Per la convalescenza dalla “tosse convulsa”, durante tutto l’arco di tempo in cui potevo costituire un pericolo di contagio per la mia sorellina di pochi mesi. Nell’avito Palazzo di Piobbico facevo vita solitaria, mi aggiravo per il bel giardino, nascondendomi fra i cespugli fioriti delle aiole, ammiravo i pigri andirivieni di due tartarughe, mi affacciavo a seguire lo scorrere del Candigliano che proprio sotto l’ardito ponte a schiena d’asino, visibile dal piccolo bastione, s’incontrava con il suo collega Biscubio per correre insieme verso il Metauro.
Ma soprattutto aspettavo con ansia l’ora della merenda, che consisteva in una salsiccia secca fra due fette di pane, il tutto annaffiato da due dita di quel passito dolce e vigoroso che si chiama Vinsanto. Sì, esatto, avevo quattro anni: una precoce educazione enologica!
Il Palazzo, che allora mi sembrava immenso e di cui non sarei mai riuscito a esplorare né a contare tutte le stanze, ospitava il fratello e le sorelle di mia nonna. Lo zio Arturo, ex-ciclista bersagliere, cieco da molti anni per colpa di quel glaucoma che mio padre e mia zia avrebbero ereditato a loro volta dalla famiglia materna. La zia Nelda, piccolissima, sempre vestita di nero, la più giovane ma già molto anziana, così a me pareva, molto più vecchia di mia nonna che invece era la primogenita. L’altra sorella di mia nonna era la zia Ida, con suo marito Arezio e la figlia minore, Adele, mentre i due figlioli maschi, Sandro e Amedeo, stavano fuori casa per gli studi. E poi c’era il ricordo, ma un ricordo pesante come una coltre invernale, del defunto zio Virginio, un pittore allievo del grande Giovanni Fattori, che aveva lasciato dietro di sé una lunga scia di quadri e bozzetti a gremire tutta un’ala della casa. Paesaggi, cavalli, tipi caratteristici, ritratti di famiglia.
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La casa che abitavamo costituiva una porzione limitata dell’ala nobile del sei-settecentesco Palazzo Gabuccini, che un angusto corridoio collegava a una parte delle ex-stanze di servizio. Al nostro composito appartamento si accedeva dunque sia dalla scala d’onore, che introduceva a un grande ambiente da noi chiamato “camera degli armadi”, come dalla più angusta scala di servizio collegata alla cucina, quella che usavamo abitualmente. Stanze imponenti, dai soffitti altissimi, ridimensionate dai modesti ma solidi arredi borghesi della famiglia paterna o fatti arrivare dalla Toscana, dalla casa dei miei nonni materni.
Ricordo che, nelle sere d’inverno, mia sorella ed io dovevamo abbandonare ben coperti il piccolo soggiorno riscaldato da una stufa Becchi, dove si svolgeva ampia parte della nostra vita, per raggiungere l’ala notte, attraversando il salotto buono, quello col pianoforte e i due ritratti a olio degli antenati firmati da Giuseppe Ceccarini, l’ingresso nobile adibito a grande stanza degli armadi e la camera dei genitori. Tutti ambienti non riscaldati, gelidi. I nostri letti erano stiepiditi dal “prete”, struttura di legno che conteneva la “monaca”, recipiente di coccio dentro il quale la brace aveva vita breve. Ma riuscivo a rannicchiarmi sfruttando quel residuo di calore in attesa dell’altro, fornito dal mio corpo, che avrebbe invaso una porzione più ampia di lenzuolo.
All’ora
della nanna, la mamma ci spogliava nel piccolo soggiorno riscaldato per
rivestirci col pigiamino, poi ci faceva indossare una specie di vestaglia – la
mia l’aveva ricavata dalla giacca da ufficiale di papà nella prima guerra
mondiale – per compiere quella che lei chiamava, con il suo consueto umorismo
ottimistico, “la traversata della Siberia”, cioè l’attraversamento delle stanze
glaciali.
Il mio lettino era posto di traverso ai piedi del lettone matrimoniale mentre la sorellina albergava nella culla posta al lato materno. Sopra la camera matrimoniale c’era una terrazza non facente parte del nostro appartamento che fungeva da lavanderia e stenditoio per un’altra famiglia, con tale frequenza che una bella notte l’intonaco del soffitto crollò, risparmiando solo l’area occupata dai tre letti con annessa culla. Per un certo periodo, sino a quando l’incannucciata del solaio non venne ricostruita, ci trasferimmo in un’altra camera di solito inutilizzata, in alcuni casi addirittura affittata a qualche coscritto della locale Scuola Allievi Ufficiali, vanto della nostra città.
Attiguo alla stanza da letto c’era un locale misterioso a cui si accedeva tramite una porticina seminascosta nel parato. Un locale dal soffitto altissimo, che arrivava sino al cielo: lo chiamavamo il camerin-alto e serviva da ripostiglio e da soffitta. Mio padre ricordava di esservi stato rinchiuso qualche volta, da bambino, come punizione per le sue marachelle. Ed era così piccino – rammentava – da nascondersi dentro il “prete” per sentirsi al sicuro e vincere la paura. Molto tempo dopo, messi in fila e razionalizzati i ricordi, avrei compreso che il camerin-alto doveva essere l’antica cappella privata del Palazzo Gabuccini, ormai spogliata dei quadri e dei marmi. Restavano solo le cornici di stucco, sbrecciate qua e là, e un abbozzo di altare, cioè l’anima di mattoni che un tempo aveva sostenuto i rivestimenti marmorei.
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