Quando negli anni Sessanta incontrai la televisione ero molto giovane ma la tv era più giovane di me, proprio una bambina! Per strada feci molte esperienze, imparai molte cose, ma altre a mia volta ne insegnai a quella bambina ancora ingenua, aperta alla vita e desiderosa di imparare.
Il mio contributo personale all’evoluzione del linguaggio televisivo e delle sue formule
Ho iniziato con i documentari, o meglio con le inchieste, due generi che impiegano in parte gli stessi materiali ma con finalità diverse. Il documentario “documenta” (si può dire nasca dal cinema), l’inchiesta indaga (nasce dal giornalismo), propone, fornisce pezze d’appoggio alla scoperta di un fatto o per verificare un’ipotesi.
Agli inizi degli anni Sessanta esistevano solo due modi di far “documentario” alla tv. Il primo riprendeva la tecnica dello stagionato documentario cinematografico nostrano (scarsi mediometraggi e soprattutto cortometraggi), applicando una grammatica tassativa o quasi. Si apriva con un gran totale “in campo lungo”, di un paesaggio o di una città, a generica collocazione geografica di quanto sarebbe seguito, poi si passava a un campo medio, a un campo ancor più ravvicinato o ad una panoramica estenuantemente lenta (da destra a sinistra o dal basso in alto), mentre la “voce fuori campo” declamava un testo pseudo-poetico che andava per conto suo. L’ultima immagine era quasi sempre un tramonto, più o meno suggestivo.
Il secondo modo di far documentario era quello introdotto dai cosiddetti esordienti telecronisti, spesso di fresca novità e di modesta esperienza, che avevano scoperto un modo più vivace di effettuare le riprese (usando la pellicola “invertibile” in 16 mm.), ma soprattutto spezzando la vecchia grammatica grazie all’introduzione delle interviste a esperti o semplici testimoni di un evento o di una situazione di vita, quasi sempre dopo aver stilato e messo a punto un testo e iterando più volte la ripresa alla ricerca della versione più lineare e senza pause, con buona pace della spontaneità o “verità” che dir si voglia, inoltre avendo cura di nascondere in vario modo il microfono. Con la debita eccezione di alcuni “stili” personali: Carlo Alberto Chiesa aveva vinto il primo Prix Italia della Sezione Documentario con una “finta” diretta sulla mattanza di tonni in Sicilia, in realtà realizzata in più tempi e montata a più mani; qualche anno dopo, nel 1960, Ugo Gregoretti aveva bissato il Premio con un divertente racconto fra poesia e umorismo sulla “Sicilia del Gattopardo”, un’inchiesta o un racconto d’autore?
I miei non sarebbero stati documentari e neppure cronache di telegiornalismo. Intanto innovavo la vecchia grammatica stantia, disprezzando i “campi lunghi” a favore del primo piano e del dettaglio, prendendo atto della necessità di abbandonare le statiche immagini, cosiddette “poetiche” (panorami, albe e tramonti, scorci d'insieme eccetera) che le limitazioni della trasmissione televisiva, almeno per il momento, non favorivano o addirittura non consentivano, privilegiando il montaggio rapido, il movimento, l’effetto visivo. Poi introducevo una sorta di teaser (che allora io chiamavo “pre-titolo”) cioè una breve aggressiva premessa di un minuto, poco meno o poco più, per catturare l’attenzione dello spettatore sul tema o il quesito affrontato nel programma. Sino ad allora non ci aveva pensato nessuno.
La scoperta di un linguaggio?
Quello che sarebbe divenuto il mio modo abituale di “fare inchiesta” lo scoprii quasi per caso, anzi potrei dire “su commissione”, quando, intorno al 1963, ricevetti dal capo-servizio da cui dipendevo gerarchicamente, l’incarico di organizzare in un racconto ben strutturato una serie di interviste ai maggiori scienziati nucleari che, in base a un mio soggetto-trattamento sulla “Storia della bomba atomica” - in parte suggerito dalla lettura de “Gli apprendisti stregoni” di Robert Jungk - nonché ai successivi questionari stilati da Giuseppe Berto, erano state realizzate in giro per il mondo da altri. In particolare da Virgilio Sabel, allora direttore del settore cinematografico della RAI, che se ne era assunto l’incarico, assieme ad altre inchieste da portare avanti contemporaneamente, a cui sembra tenesse di più. In parte doppiati con voci nostrane le interviste erano state di fatto abbandonate in moviola, non sapendo bene cosa farne o come fenderle fruibili e commestibili dal generico pubblico televisivo. Mi resi conto che era troppo elementare – e noioso per me e per i fruitori – limitarmi a giustapporre interviste e materiale d’archivio a mo’ di centone, seguendo la falsariga cronologica e facendoci sopra una chiacchierata, magari “ben scritta”. Non era questa la strada giusta. Ricorrere come ovvio al materiale d’archivio, repertorio, foto o altro? Ma il materiale d’archivio doveva essere utilizzato non tanto per localizzare gli eventi nel ricordo ma soprattutto doveva servire a motivare, incalzare, “inquisire” i testimoni, cioè gli intervistati. Non dovevo limitarmi ad arricchire con alcune immagini le risposte troppo lunghe o pleonastiche. Le immagini non dovevano servire ad “alleggerire” le risposte dei testimoni intervistati – rischiando addirittura di distrarre lo spettatore - ma a motivare le domande rendendole esaustive e aggressive. E le domande dovevano essere utilizzate anche per presentare il personaggio, il suo contributo alla storia, le sue responsabilità, e tutto questo solo grazie alle immagini, senza nessun il dispersivo indisponente logorroico intervento dell’“intervistatore”. Era la voce narrante ad assumersene il compito.
Teniamo presente un altro fatto: allora non c’era la possibilità di adire a molti archivi giornalistici e cinematografici per procurarsi materiale “fresco” e quindi il materiale disponibile, più o meno consunto e già visto (LUCE, INCOM, ecc.) poteva e doveva essere “rinnovato” usandolo come cifra, come icona evocatrice, in una netta rispondenza fra immagine e commento parlato, con un montaggio serrato che seguisse più le tecniche degli “audio visual aids” che quelle del vecchio documentario di derivazione cinematografica. Non era importante cercare ogni volta immagini nuove per documentare eventi, situazioni, una battaglia, un momento della ricerca scientifica, un incontro politico, un fatto di costume o altro ma anzi era essenziale iterare le stesse immagini – in parte già viste e conosciute - assumendole come simbolo, come promemoria, come riproposta di un volto, insomma come una sorta di sigla di un fatto o di un personaggio, spesso isolandole dal loro contesto originale, dallo spezzone da cinegiornale.
Si trattava di costruire una sorta di "sceneggiatura a posteriori", per riuscire a comporre, basandomi su documenti filmati e materiali iconografici nonchè sulle interviste girate, non tanto un resoconto piattamente oggettivo sulla “costruzione” dell’atomica quanto un'indagine che chiamasse in causa gli stessi protagonisti: una sorta di "giallo" in 5/6 puntate. Fu un lavoro molto complesso, svolto prevalentemente alla moviola, da cui uscì un tipo di costruzione nuova, che non era nè un'inchiesta giornalistica nè un mero resoconto storico. Accostando fra loro, come in un puzzle, le diverse "pezze d'appoggio" costituite dalle testimonianze-intervista invitavo il telespettatore a mettersi anche lui alla ricerca dei fatti e dei dibattiti che avevano determinato il lancio dell'atomica su Hiroshima. L'inchiesta diventava anche e soprattutto riflessione morale.
Il commento parlato
L’operazione andava di pari passo con quella del commento parlato, reso strutturalmente più povero, frasi brevi, nomi propri ripetuti al posto dei pronomi, ritmo e scansioni agevoli per la lettura dello speaker, senza elucubrati tentativi di variazioni “giornalistiche” né tanto meno tentazioni letterarie. Ma icastico, martellante, incisivo. Anche qui senza paura di usare gli stessi termini, di iterare ogni volta i nomi, inseguendo soprattutto la chiarezza.
Un’inchiesta su fatti e personaggi della storia non doveva essere un programma “di nicchia” ma, al contrario, fruibile anche da un pubblico non particolarmente acculturato.
Fu un esperimento nuovo a cui corrispose un esito estremamente positivo, coronato dalla vittoria al Prix Italia di quell’anno (“Storia della Bomba atomica”, 1965, che le croniche “ufficiali” della Rai continuano a definire “Un programma di Valerio Sabel” )
Avevo inventato un “genere”?
Avrei adottato sostanzialmente la stessa formula e lo stesso linguaggio anche nelle mie inchieste degli anni Sessanta-Settanta: “Il caso Rajk”, “L’assassinio di Trotsky”, “Operazione Alsos”, “Jean Jaurès apostolo del pacifismo”, “Marsiglia 1934” ecc. (i testi raccolti nel volume “Giallo storia”, anche se rivisti e adattati per la pubblicazione, possono suggerirne un’idea).
Al di là delle etichette volta a volta impiegate (“Documenti di cronaca e storia” eccetera) forse sì’. Altra innovazione: il ripudio – per quanto riguardava la colonna sonora - di un commento di tipo… “pastorale”, vagamente sinfonico, insomma di stampo classico, cosiddetto “d’epoca” – adottato di solito in programmi del genere ed ereditato dalla vecchia tradizione documentaristica - in favore di un commento musicale decisamente moderno: anche stavolta la ricerca di coloriture musicali non avulse dal connubio parola-immagine. Decisi che il commento musicale non doveva essere necessariamente coevo alle immagini usate ma rispondere alle sottolineature emotive volute dall’autore.
Dal Prix Italia (1965) al mio “secondo passo”
Eccolo il secondo passo: con alcuni “scarti” delle interviste raccolte per la “Storia della bomba atomica”, arricchiti da materiali d’archivio ma anche da cose nuove, realizzo “L’enigma Oppenheimer”, forse a tutt’oggi l’inchiesta più premiata della televisione italiana (“Leone d’oro” al Festival di Venezia 1964 - e fu la prima volta che una produzione RAI vinse il Gran Premio per un documentario – e inoltre “Premio Guglielmo Marconi”, “Gran Premio della critica internazionale” al Festival della TV di Montecarlo, ecc.)
Julius Robert Oppenheimer, “Mister Atomo”: nutrivo grande curiosità per questo personaggio enigmatico, che aveva diretto il programma atomico americano e caldeggiato il lancio della bomba su Hiroshima. Accusato di spionaggio e sottoposto a procedimento inquisitorio, nel clima maccartista della “caccia alle streghe”, si era successivamente dichiarato contrario alla costruzione della bomba all’idrogeno, convertendosi, in certo senso, al pacifismo.
Decisi di esplorare il personaggio utilizzando pochi elementi: le testimonianze dirette e i resoconti stenografici, da poco pubblicati, dell'inchiesta che lo aveva visto principale accusato. Inoltre realizzai due nuove interviste: la prima a Boris Pash, capo del controspionaggio a Los Alamos e suo principale accusatore; la seconda ad Haakon Chevalier, che riuscii a rintracciare a Parigi, l'uomo che Oppie aveva ingiustamente accusato di spionaggio per stornare da sé i sospetti e “salvarsi la pelle”.
Ma nel corso del lavoro avverto l’esigenza di citare testualmente alcune pagine del resoconto stenografico dell'inchiesta maccartista del 1954. Come fare? Possiedo soltanto un metro di pellicola d’archivio: il "primo piano" di Oppenheimer davanti alla Commissione d’inchiesta. Ne estraggo una serie di fotografie, che poi "giro" in truka e “monto” seguendo il ritmo emotivo e logico delle battute, fatte recitare da due attori. Insomma una sorta di "animazione per immagini fotografiche". L'impatto sullo spettatore di questo espediente narrativo, abbastanza elementare, va oltre il prevedibile. Forse ho inventato, senza saperlo, un modo nuovo per drammatizzare un documento citandolo testualmente: ne prenderò coscienza più tardi e farò il passo ulteriore ideando “Teatro Inchiesta”.
Dunque “L'enigma Oppenheimer” sviluppa ulteriormente le soluzioni adottate per la “Storia della bomba atomica”. Scompare la linea di demarcazione fra racconto e testimonianza diretta. Il racconto della vita dello scienziato coincide con il tentativo di recuperarne la biografia per approssimazioni successive, mediante documenti e testimonianze che, a loro volta, costituiscono punti d'appoggio per proporre nuove ipotesi, lumeggiare aspetti ignorati, aprire nuovi interrogativi. In breve, fare della "ricostruzione" di un personaggio più un "problema" che un "dato di fatto". Il programma, grazie alla sua partecipazione al Festival di Montecarlo, dove otterrà il Premio della Critica, supera i confini nazionali, viene visto in Europa, ottiene il plauso di critici e giornalisti stranieri. Influenza, suggerisce o segue di poco il testo teatrale “Sul caso J.Robert Oppenheimer” del drammaturgo tedesco Heinar Kipphardt, rappresentato con vivo successo in molti paesi. Dovevano passare sessant’anni prima che il personaggio Oppenheimer venisse di nuovo scoperto e proposto nel libro dI Kai Bird e Martin J.Sherwin e nel film di Christopher Nolan.
La mia “invenzione” più originale, quella di un nuovo “format”, il “Teatro-Inchiesta”.
Nel 1967 creo e metto a punto un nuovo “format”, ma a quel tempo la parola “format” non esisteva e – debbo dire purtroppo - nemmeno il copyright per certificare il diritto d’autore. Quando quel primo ciclo ebbe successo ci fu la corsa per assicurarsene la paternità: dal funzionario tv che l’aveva “adottata” all’allora Direttore di Rete: tutti padri e creatori!
Teatro-Inchiesta (1967): la battezzai così. Una formula – un format? - per raccontare alcuni momenti della cronaca passata e della storia recente basandomi sui documenti testuali da proporre “tal quali” più che da sceneggiare. L'elemento "teatro" - inteso come ricostruzione con attori, introdotta per drammatizzare e raccontare tali documenti, non già per ridurli a pretesto per un generico "sceneggiato": il programma doveva restare fondamentalmente un'inchiesta, costruita sulla dialettica serrata fra indagine televisiva e ricostruzione.
Qualche anno più tardi mi accorsi di aver inventato il docu-drama o docu-fiction che dir si voglia. Prima, dopo oppure contemporaneamente ai francesi e agli americani? Vallo a sapere! Sono primogeniture difficili da stabilire. Io naturalmente sostengo la mia.
Nel “pianeta RAI” la mia invenzione aveva un atro vantaggio. La formula avrebbe aperto nuovi imprevisti spazi di drammaturgia televisiva scavalcando le regole dei compartimenti-stagno, rigidamente invalicabili, dato che vigevano ancora nell’Azienda, severe e tassative divisioni fra i vari Servizi (documentari, “prosa”, rivista e così via), altrettante pastoie per chi volesse fare, non già prosa, cinema, documentario, ma quel pastiche di generi che si chiama appunto “televisione”. Teatro-inchiesta rompeva questi opinabili equilibri. Era un’idea semplice: il documento testuale può fornire spunto per un’azione drammatica basata su fatti storicamente verificati, l’azione drammatica può costituire una predella, una pezza d’appoggio per proseguire l’inchiesta con altri strumenti: l’intervista, la ripresa documentaristica, l’iconografia.
Naturalmente “Teatro-inchiesta” era una formula duttile che si avvaleva di volta in volta della tecnica elettronica (prevalentemente) o di quella cinematografica e utilizzava differenti sceneggiatori e registi, ognuno dei quali finiva per interpretarla in modo personale, anche perché la RAI aveva accuratamente evitato di garantirmene la supervisione. In alcuni casi si riduceva a uno "sceneggiato storico" con inserti documentaristici, in altri casi c'era un dialogo autentico e serrato fra l’elemento teatro e l’elemento inchiesta, come ne “L’affare Slansky” che volli scrivere e dirigere personalmente. In cicli successivi e con varie collocazioni la formula sopravvisse sino al 1973.
Con un nuovo format, “I giorni della storia”, ho varato la realizzazione di sceneggiati storici “tout court”
Forse un modo nuovo di concepire e realizzare uno “sceneggiato storico”. Gli unici precedenti per quanto riguarda questo tipo di sceneggiati erano quelli legati a visioni “tradizionalmente” patriottiche come “Ottocento” di Anton Giulio Majano tratto da Salvator Gotta, o i cicli de “I grandi camaleonti” sulla Rivoluzione francese. Con le “Cinque giornate di Milano” (1971) proposi una lettura del tutto inedita del nostro episodio risorgimentale, al di fuori della retorica patriottarda: la visione federalista ed europeista di Cattaneo, il gattopardismo conservatore dei filosabaudi (Casati & C.), l’estremismo rivoluzionario dei guerriglieri urbani “ante litteram” (Bernuschi). Guerriglia urbana contro esercito austro-ungarico. Una visione del tutto inedita ma trascritta nei moduli del romanzo popolare, quello che occupava il prime time esclusivo della domenica, con il dovuto spazio riservato all’immancabile “storia d’amore”. C’è una storia d’amore anche nelle mie “Giornate”, ma strettamente collegata alla vicenda politica e basata su inediti quanto ineccepibili documenti storici.
Tutto questo per quanto riguarda il “contenuto”. Inoltre mi permisi un’incursione sul terreno del “teatro-inchiesta” proponendo, nella quinta ed ultima puntata, la rievocazione dell’episodio di Porta Tosa non già in termini di rappresentazione “oggettiva” ma attraverso le pagine dell’archivio di Cattaneo, lette dagli attori “in borghese” che successivamente si calavano nei personaggi della ricostruzione-finzione (un espediente “brechtiano” che userò anche nel “Tommaso d’Aquino”, 1975). Uso totale ed esclusivo della cinepresa 16mm per le scene di guerriglia e di azione. Il materiale ripreso con tecnica elettronica (gli interni) trascritto anch’esso sul pellicola: il tutto me lo montai da solo nella mia moviola di Roma. Una tecnica che adotterò anche per lo sceneggiato “Orfeo in paradiso”, dal romanzo di Luigi Santucci. Anche dal punto di vista formale questo lungo film televisivo prende il largo dai tradizionali confini dello sceneggiato, pur avendo l’ambizione di catturare lo stesso vasto pubblico del prime time. Pesanti critiche da parte dei cosiddetti “puristi dell’immagine”, dato che la trascrizione su pellicola negativa 16 mm. dell’immagine elettronica, il cosiddetto “trascriver”, comportava un deterioramento talvolta più o meno evidente dell’immagine ripresa tramite telecamere. Ma l’innegabile inconveniente favoriva ben più sostanziale vantaggi, tipo la facilità di montaggio, il ritmo della narrazione, la soppressione dei “tempi morti” e così via.
I miei numerosi sceneggiati e film-tv, legati sia personaggi storici che a momento della storia (remota o recente), corrono dunque su questo binario, agli antipodi della cosiddetta biopic basata sulle formule standard della sceneggiatura “all’americana” (i tre atti, la scansione dei plot e così via) che informerà le “biografie storiche” degli anni Duemila. La mia proposta di lettura continua ad essere, per qualche verso, quella dell’inchiesta: mi muovo alla ricerca dei motivi dialettici dentro e oltre l’episodio messo al centro, l’interesse scaturisce dai fatti e dalle motivazioni, non nella ricrcata drammatizzazione di avvenimenti e fatti che drammatici già lo sono di per sé.
Così anche nel mio racconto dell’epopea dell’Ossola (“Quaranta giorni di libertà”) rifiuterò il consueto bandierone resistenziale per descrivere in termini volutamente didascalici una Resistenza composita, a più facce, mirando non tanto alla generazione dei “nostalgici”, per un’operazione alla “come eravamo”, ma alla generazione successiva, la mia, che di fatto non ha conosciuto e vissuto la temperie resistenziale
In definitiva credo che, anche nel campo dello sceneggiato, il mio apporto sia stato abbastanza rivoluzionario, nelle tecniche e nei contenuti. Osservo con una certa perplessità le recenti peraltro sporadiche realizzazioni di sceneggiati di tipo storico o biografico, realizzati mettendo a frutto gli sviluppi della moderna tecnica digitale che da alcuni anni ha unificato almeno di fatto cinema e tv. Politici, industriali, vittime o vincitori sceneggiati sul tardivo esempio della “biopic” o biografia romanzata di stampo pos-hollywoodiano, in cui interrogativi, quesiti, opinioni e problemi dibattiti sono riassunti e inverati nella patinata versione “da cinema-tv” degli Anni Trenta-Quaranta. Che tristezza!
I lavori di mia produzione
Già, siamo arrivati a una nuova svolta. Stanco dei laccetti e imposizioni che, nonostante la sostanziale libertà di cui godevo, pesava sulle produzioni realizzate direttamente nelle strutture della RAI, cercai di seguire la nuova tendenza che favoriva la realizzazione dei lavori – specialmente quelli importanti, contesi fra vecchie e nuove sigle di produttori ex.-cinema – assumendomi in proprio il compito e la responsabilità di produrre le mie cose, con la premessa del cosiddetto “basso costo”. Si trattava soprattutto di film per la tv, in una o più puntate come nel caso dei “Quarata giorni di libertà” e della “Gatta”.
Al di là dei singoli temi e dei singoli risultati mi sembra particolarmente importante sottolineare la novità della formula produttiva, il cui merito debbo ampiamente condividere con mia moglie, Maria Grazia Giovanelli: un sistema produttivo agile, funzionale, svincolato dalle gerarchie e liturgie del cinema e della televisione, che anticipava la pratica dei film-makers, cioè dei realizzatori-produttori, anche se all’epoca la tecnologia non facilitava certo il compito. Negli anni Settanta-Ottanta si facevano ancora film televisivi seguendo metodi cinematografici vecchio stampo, con la pleonastica suddivisione e moltiplicazione dei ruoli, legati alle necessità di una tecnologia già desueta, con relativa levitazione dei tempi e dei costi. Adottammo un sistema diverso: troupe ridotta ma qualificata e… agguerrita, tempi contingentati grazie all’assenza di intemperanze e bizze registiche, riprese realizzate quanto più possibile in location esterne, di solito concentrate in un territorio limitato, possibilmente fuori Roma. In questo precedemmo di un paio di decenni l’istituzione delle varie Film Commission.
Esperienza che le televisioni si sarebbero affrettate a cancellare, consapevoli che il contenimento e quindi l’abbattimento dei costi potesse mettere in crisi nuove operazioni finanziarie e speculative.
Il mio metodo di lavoro, frutto della mia esperienza televisiva, purtroppo non fece scuola. La pilotata levitazione dei prezzi portò alla eliminazione delle produzioni “a basso costo”, come la mia, a favore delle fauci dei cinematografari tardivamente convertiti al nuovo medium.
Debbo constatare purtroppo che, mentre il cinema si è venuto aggiornando via via nei modi e nelle tecnologie, sino alla recente rivoluzione digitale che ha determinato la morte definitiva della pellicola, i metodi odierni della produzione televisiva italiana sono rimasti ancora quelli faraonici di un cinema ormai scomparso…
Il mio teatro in tv
Il mio contributo più rilevante fu la riscrittura tutta televisiva di un testo come il “Faust” di Christopher Marlowe. Un modo nuovo di concepire e realizzare un testo teatrale per la tv.
Sino a quel momento la cosiddetta “prosa televisiva” correva lungo due direttrici: la ripresa di uno spettacolo di prosa “da un teatro” usando due o tre telecamere: metodo valido per documentare gli exploit di grandi attori e registi ma legnoso e scarsamente fruibile come proposta televisiva. Un po’ come “fare la foto animata” di una realizzazione teatrale. Seconda direttrice: l’adattamento “in studio” di un testo teatrale, adottando un tipo di recitazione un po’ più destrutturata e l’articolazione in due o più ambienti, insomma una spruzzata di tv sul testo teatrale.
Per il Faust adottai un sistema del tutto diverso: proposta integrale del testo (nella traduzione moderna di Rodolfo Wilcock), ambientazione in location dal vero ma sostanzialmente in un contesto unitario: la cripta e la chiesa di San Vincenzo al Furlo, i paesaggi e gli ambienti di Piobbico e Urbania. Il tutto filmato in presa diretta, avendo cura di non frantumare – in fase di ripresa - ogni singola scena in una serie di brevi inquadrature, favorendo così la concentrazione e la resa degli attori. Inoltre avevo cercato di tradurre l’immaginario elisabettiano in un immaginario italiano: streghe al posto dei maghi, folletti e sparizioni a vista, mamuthones al posto dei diavoli, insomma un grottesco fra farsa e tragedia. Indici di ascolto e gradimento alle stelle. Era l’indicazione di un nuovo stile (o di un nuovo format?) per far teatro in tv. Ma non ebbe seguito. E pensare che avevo già sceneggiato e definito un mio secondo altrettanto spericolato tentativo prevedendo la proposta in due serate successive di due testi di ispirazione così diversa: il pecoreccio “Bertoldo” di Giulio Cesare Croce e il borghese-aristocratico “Bertoldino” di Carlo Goldoni.
Il mio “peccato”: troppi generi diversi.
Credo di aver saggiato e sperimentato, sempre con intenti innovativi, le più svariate formule di racconto televisivo, dalla rubrica, al programma didascalico a quello musicale, all’intervista di strada, al programma seriale, allo sceneggiato, ecc. Perché a sedurmi è stata sempre la possibilità di saggiare e mettere in pratica sempre nuovi modi ed esperimenti di linguaggio.
A questo periodo di sospensione “sabbatica” dagli impegni cosiddetti “più seri e importanti” si deve il varo della saga folklorica “Vai col liscio!” che all’origine sarebbe dovuta essere una delle tante incursione nelle periodiche vetrine musicali promosse dalla RAI, si deve inoltre la serie di conversazioni gradevole e civili su “Il trono delle convivenza” assieme a Fortunato Pasqualino, si debbono esperimenti singolari come quello di raccontare la nascita della “Costituzione” usando dei burattini, o il “passio quaresimale” rivissuto nei luoghi francescani, o il ritrattino di città e paesi cosiddetti minori, con la collaborazione di mio figlio bambino, e tanti altri programmi e programmini che mi è addirittura difficile ricordare e raccontare. Quindi un “periodo sabbatico” ma sino a un certo punto.
Al termine di queste ed altre esperienze di lavoro, forse potrei qualificarmi un antesignano della continua commistione o ibridazione fra generi diversi - sceneggiati e telefilm a soggetto, documentari, interviste, dibattiti ecc. - tutte formule ormai legate a un’era “pre-televisiva” ma che, negli anni Sessanta, continuavano a resistere. La mia predilezione per la tv come nuovo linguaggio perderà progressivamente terreno negli anni della neo-tv e della tv commerciale dove, anche per ottemperare a esigenze mercantili, assisterò a uno spento rifiorire dei “generi standard” quali la fiction, il talk show, l’inchiesta con interviste, i commenti dei brani filmati da studio, ecc. mentre l’innovazione passerà ai cosiddetti “format”, formule “a scatola chiusa” coperte da copyright, fondamentalmente iterativi e monotoni.
Mio merito – o forse difetto – non aver mai voluto ricoprire o rincorso cercato o rincorso la figura-stampella del conduttore, del mediatore “in campo”, spesso rivelatasi – buon per loro – un mezzo per promuovere al ruolo di indispensabili comunicatori dei modesti quanto grigi funzionari-giornalisti. A me aveva insegnato a suo tempo il mio maestro di tv, Pier Emilio Gennarini, che l’autore deve mettersi sempre tra parentesi, ossia “fuori campo”, evitando sciocche esibizioni personali.
Il mio peccato originale
Quanti maggiori consensi, plausi e sostegni avrei ottenuto se avesse gratificato attraverso il mio lavoro opinionisti, giornalisti, presenzialisti tuttofare. E invece per le mie inchieste preferivo protagonisti, personalità straniere, voci importanti quanto ignorati dalla nostra stampa. Preferivo presentare la testimonianza diretta dei maggiori interessati piuttosto che farmela riassumere e commentare dai postillatori nostrani. Il tutto sia detto a mio disdoro, data la mia personale ignoranza dei più elementari quanto proficui sistemi per procacciarsi la visibilità.
Non ho mai curato la promozione di me stesso anche se – modestia a parte – forse ne avrei avuto tutti i numeri. Ho cercato invece che le cose, i fatti, il linguaggio delle immagini e delle parole parlasse da solo e fosse in grado di catturare lo spettatore in virtù della sua chiarezza, incisività, aggressività forse. Linguaggio delle parole e delle immagini insomma e non passerella dell’autore.
Meta-televisione
Un’unica eccezione: Leandro Castellani commentatore in campo e voce del commento nelle sei parti di un ambizioso tentativo di meta-televisione, cioè la tv che riflette sui propri contenuti utilizzando il suo stesso patrimonio di immagini, divenuto ormai “storicizzato”. Il programma si chiama “Prima e dopo la bomba” ed è un reportage in sei parti, realizzato in un periodo in cui la tensione tra gli USA e l'Unione Sovietica è tornata a salire bruscamente e viene trasmesso tra il 2 ottobre e il 6 novembre 1984, su Raiuno, poi replicato in anni più recenti. In questo programma utilizzo e sottopongo a verifica il materiale raccolto in anni precedenti, dal 1963 al 1972, in qualche senso già storicizzato, interrogando a distanza gli stessi personaggi, scienziati in massima parte, sottoponendo al loro giudizio testimonianze raccolte venti o trent’anni prima. In questi programmi, riassuntivi in certo senso della mia battaglia antinucleare e pacifista, mi sono preso la libertà di comparire “in campo” come conduttore sui generis e di usare la mia voce per i “fuori campo”. Ancora un altro “genere”?
Per concludere
E poi la storia è lunga, ma l’essenziale credo di averlo già detto. E poi ci sono le mie incursioni nel cinema, nello sceneggiato radiofonico, nello spettacolo musicale. E poi la partecipazione al serial, i miei contributi teorici alla massmediologia, la mia opera di docente, i miei conati di scrittura. Nonché tutto quello che ho in animo di fare e che farò…
Certo non sarò ricordato come un pioniere della tv, all’altezza di Pippo Baudo o delle sorelle Kessler, ma il mio deciso, fattivo e forse indispensabile contributo al linguaggio televisivo credo di averlo dato. Servano questi sommari appunti a qualche volonteroso futuro saggista e, perché no, a qualche operatore della tv desideroso di sapere da dove spuntino certe acquisizioni poi divenute terreno comune.
Se e quando si scriverà una “vera” storia della televisione – cioè mai – forse il mio apporto sarà più seriamente rivisto e valutato. Per il momento dobbiamo accontentarci di un mio libriccino, edito da Studium nel 1995 e poi di nuovo nel 2002, “La Tv dall’anno zero” oppure del mio più recente “Il pianeta tv” (Caravaggio ed. 2017) o in estrema istanza di questo saggio-memoria di uno dei pionieri della nostra televisione.
(dicembre 2023)