Se visti e frequentati dal vero, tribunali giudici avvocati e simili sono luoghi e personaggi tutt’altro che divertenti, ma la loro rappresentazione rappresenta una delle riserve auree di cinema e tv. Cosa faremmo, noi ignari e innocenti spettatori, senza la drammatica rappresentazione dei conflitti, lotte, dibattiti e quant’altro trova ragion d’essere in quel sacro luogo deputato a dirimere tutti gli inconvenienti dell’umana convivenza? Genere inesauribile quanto fecondo. Con più o meno arte, con più o meno classe, con più o meno presenze di avvocati prestigiosi il genere giudiziario, ammannito in film e telefilm, è inesauribile, promettendo quasi sempre un intrattenimento interessante e di tutto riposo. Risparmiamoci le citazioni, da quelle illustre come ”La parola all’accusa” di Hitchock a quelle sanamente artigianali come nei film d’ispirazione Grisham, a quelle mitiche come i telefilm con Perry Mason. Tanto, ogni volta che ci capitiamo, dopo il primo accenno di disgusto – ancora un tribunale!!! – finiamo per esserne catturati. Lunga premessa per arrivare a parlare del film “La doppia verità”, che si presenta come tanti altri: un morto, un reo confesso, un processo. Il reo confesso è il giovanissimo figlio della vittima Belushi, l’avvocato difensore è Keanu Reeves, il giudice è un tale sbrigativo ma attento e serioso – come tanti altri giudici di prammatica -. E c’è anche la mamma dell’assassino che è la rediviva Renée Zellweger, quasi irriconoscibile con la nuova faccia. Dibattito serrato, ben condotto, e immancabile colpo di scena sotto finale che stavolta viene adeguatamente raddoppiato nell’estremo finale. Lungi da noi svelarli tutti e due. Sarebbe crudeltà mentale.
(L.C.)
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