giovedì 19 dicembre 2019

LE SPOSE POVERE



Anche questo è un racconto per modo di dire. Piuttosto un ricordo incompleto, frammentario che, col passare del tempo, potrebbe essere spacciato per una storia. E forse posso spacciarlo per tale.  Ecco, facciamo il caso che siamo negli anni dell’immediato dopoguerra, o degli anni Cinquanta se preferite. La povertà è assoluta, non somiglia minimamente a quella degli odierni campi d’accoglienza che ci mostra la tivù. I poveri non ostentano giacconi di plastica, riciclati o di fabbricazione cinese, ma sono vestiti di stracci, stracci ben lavati e mimetizzati da toppe e rammendi più o meno sapienti, mangiano quello che riescono a mettere insieme, un pezzo di pane, una minestra. Il lavoro, quando c’è, precario e mal pagato.
Uno dei metodi per supplire alla fame, nelle generazioni precedenti, diciamo nei primi vent’anni del secolo, è stata l’emigrazione.  Sono partiti con la valigia di cartone e, dall’altra parte del pianeta, hanno fatto tutti i mestieri, molti sono tornati sconfitti ma molti sono riusciti a conquistarsi una piccola tranquillità. Qualcuno è riuscito a sfondare.
Memorie del passato anche se prossimo. Stiamo divagando. Nel   secondo dopoguerra le cose sono cambiate, anche se “la povertà dei poveri”, quelli non convolti nell’imminente benessere che poi verrà chiamato il boom, e rimasta pressoché immutata. Specie nelle famiglie numerose, dove i figlioli non vedono molte prospettive, perché non ne hanno. E qui si inserisce la favola che vorrei narrare, l’avventura delle spose povere. Un emigrato ormai più o meno sistemato, che ha messo assieme, con un lavoro stabile, quanto gli basta per vivere o magari un po’ di più, sente la solitudine, il peso del paese diverso, quello che lo ha accolto ma che non diventerà mai il suo, e cerca una sposa, una moglie delle sue parti, onesta, illibata e con la voglia di metter su famiglia, fare figli e lavorare. E si affida al parroco del paese natale, l’unico a cui possa far giungere la sua richiesta un po’ azzardata, messa su carta da lettere, in modo decente, da un compagno di lavoro che può spiegare le cose per benino. O forse riesce a scriverla da solo quella letterina disperata. Una ragazza che non abbia paura del futuro e dell’imprevisto - perché lui invece ne ha sempre più paura -, che voglia sfuggire al destino grigio e senza orizzonte a cui sarebbe condannata: fare la monaca di casa, la serva a una schiera di fratelli sempre più esigenti, e affamati, e arrabbiati. Lei così docile e remissiva, con la cosiddetta “bellezza dell’asino”, quella degli anni giovani, forse destinata a sfiorire anche prima del previsto. E invece… Un sogno, una prospettiva nuova, diversa, garantita da una lettera-proposta, con l’avallo di un sacerdote affidabile… Deve rifletterci su. Uno scambio di foto, qualche attestazione di conferma da parte di compagni di lavoro, magari dal padrone che, dall’altra parte dell’oceano, gestisce l’impegno di quell’operaio onesto e bravo, che non beve troppo e non spreca il suo salario, forse non va neanche a puttane. E il contratto si stipula, il matrimonio si celebra per procura, che è come dire per posta, a scatola chiusa, e la ragazza parte, fiduciosa e speranzosa. Il film di Zampa con Sordi e la Cardinale ha narrato una storia analoga ma ovviamente prendendosi le dovute libertà. Ma io sono testimone diretto di alcune di queste vicende.
Un mio compagno dei giochi della domenica in parrocchia, ricco di una famiglia povera quanto numerosa. Un bel giorno non vidi più la sua sorella più grande. Dov’era finita? Forse il mio amico si vergognava un po’ di confessarmi che la ragazza si era sposata in gran segreto e si era imbarcata per il Sudamerica.
Qualche anno più tardi mia moglie mi raccontò della sua madrina di Cresima. Ragazza di paese che faceva la magliaia a cottimo, diligente e laboriosa, amata dalla famiglia e dagli amici. Ma senza prospettive per una vita già disegnata e prevedibile. Un bel giorno aveva salutato con le lacrime agli occhi la sua piccola figlioccia, perché partiva per l’Argentina, sposa a un paesano mai conosciuto. Più tardi si scrissero con la mia futura moglie, si scambiarono foto. E diversi anni più tardi si rividero, madrina e figlioccia, durante un viaggio spericolato ma compiuto a ritroso, accanto al suo sposo: ma sì, stava bene, era felice. Le confessò: il momento più difficile, anzi terribile, era stato il suo arrivo, l’impatto con quell’uomo sconosciuto, tutt’altro che bello: o ci vado a letto subito e non ne avrò più il coraggio. Formarono una famiglia serena, tornarono in visita al paese più volte negli anni successivi, ebbero un figlio americano. Tutto bene.
Vorrei raccontare, magari un po’ inventando, la storia segreta di queste spose povere, volontariamente costrette a un incontro con un uomo intravisto solo in una fotografia da studio, col vestito buono delle feste, i capelli ribelli stirati e domati dalla brillantina acquistata per l’occasione, e il volto spaurito, come nel novanta per cento delle foto da studio, quando ci imponevano: Sta fermo e non ti muovere, e passavano dieci eterni secondi prima che si udisse quel clic liberatorio. E lei aveva contraccambiato inviandogli la foto colta al volo da un amico di famiglia durante la processione del Corpus Domini, con il fazzolettone ricamato sul capo e il vestito a modino. O l’altra, intenta al pesante telaio meccanico.
Quante storie d’amore, nate per sbaglio o per necessità, e divenute autentiche grazie al rispetto, all’affetto, a un sentimento cresciuto giorno per giorno, quante passioni, quanti drammi segreti e inespressi nati da questi incontri volontariamente accettati, forse subiti!
Una sorta di autarchica e onorevole tratta delle spose, anche se gestita e garantita nel migliore dei modi. Storie povere, di una miseria che – nonostante quanto indichino le statistiche – oggi non esiste più. Non c’erano coperte in soprannumero da distribuire e lasciare in giro, giacconi finto-cinesi, cappucci finto-svedesi acquistabili a poche lire o distribuiti da associazioni benefiche. La miseria era miseria, ma camuffata e accuratamente celata dietro il decoro e la dignità, l’unica ricchezza a cui non si poteva o doveva rinunciare.


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