Anche questo è un racconto per modo
di dire. Piuttosto un ricordo incompleto, frammentario che, col passare del
tempo, potrebbe essere spacciato per una storia. E forse posso spacciarlo per
tale. Ecco, facciamo il caso che siamo
negli anni dell’immediato dopoguerra, o degli anni Cinquanta se preferite. La
povertà è assoluta, non somiglia minimamente a quella degli odierni campi
d’accoglienza che ci mostra la tivù. I poveri non ostentano giacconi di
plastica, riciclati o di fabbricazione cinese, ma sono vestiti di stracci,
stracci ben lavati e mimetizzati da toppe e rammendi più o meno sapienti,
mangiano quello che riescono a mettere insieme, un pezzo di pane, una minestra.
Il lavoro, quando c’è, precario e mal pagato.
Uno dei metodi per supplire alla
fame, nelle generazioni precedenti, diciamo nei primi vent’anni del secolo, è
stata l’emigrazione. Sono partiti con la
valigia di cartone e, dall’altra parte del pianeta, hanno fatto tutti i
mestieri, molti sono tornati sconfitti ma molti sono riusciti a conquistarsi
una piccola tranquillità. Qualcuno è riuscito a sfondare.
Memorie del passato anche se
prossimo. Stiamo divagando. Nel secondo
dopoguerra le cose sono cambiate, anche se “la povertà dei poveri”, quelli non
convolti nell’imminente benessere che poi verrà chiamato il boom, e rimasta
pressoché immutata. Specie nelle famiglie numerose, dove i figlioli non vedono
molte prospettive, perché non ne hanno. E qui si inserisce la favola che vorrei
narrare, l’avventura delle spose povere. Un emigrato ormai più o meno
sistemato, che ha messo assieme, con un lavoro stabile, quanto gli basta per
vivere o magari un po’ di più, sente la solitudine, il peso del paese diverso,
quello che lo ha accolto ma che non diventerà mai il suo, e cerca una sposa,
una moglie delle sue parti, onesta, illibata e con la voglia di metter su
famiglia, fare figli e lavorare. E si affida al parroco del paese natale,
l’unico a cui possa far giungere la sua richiesta un po’ azzardata, messa su
carta da lettere, in modo decente, da un compagno di lavoro che può spiegare le
cose per benino. O forse riesce a scriverla da solo quella letterina disperata.
Una ragazza che non abbia paura del futuro e dell’imprevisto - perché lui
invece ne ha sempre più paura -, che voglia sfuggire al destino grigio e senza
orizzonte a cui sarebbe condannata: fare la monaca di casa, la serva a una
schiera di fratelli sempre più esigenti, e affamati, e arrabbiati. Lei così
docile e remissiva, con la cosiddetta “bellezza dell’asino”, quella degli anni
giovani, forse destinata a sfiorire anche prima del previsto. E invece… Un
sogno, una prospettiva nuova, diversa, garantita da una lettera-proposta, con
l’avallo di un sacerdote affidabile… Deve rifletterci su. Uno scambio di foto,
qualche attestazione di conferma da parte di compagni di lavoro, magari dal
padrone che, dall’altra parte dell’oceano, gestisce l’impegno di quell’operaio
onesto e bravo, che non beve troppo e non spreca il suo salario, forse non va
neanche a puttane. E il contratto si stipula, il matrimonio si celebra per
procura, che è come dire per posta, a scatola chiusa, e la ragazza parte,
fiduciosa e speranzosa. Il film di Zampa con Sordi e la Cardinale ha narrato
una storia analoga ma ovviamente prendendosi le dovute libertà. Ma io sono
testimone diretto di alcune di queste vicende.
Un mio compagno dei giochi della
domenica in parrocchia, ricco di una famiglia povera quanto numerosa. Un bel
giorno non vidi più la sua sorella più grande. Dov’era finita? Forse il mio
amico si vergognava un po’ di confessarmi che la ragazza si era sposata in gran
segreto e si era imbarcata per il Sudamerica.
Qualche anno più tardi mia moglie mi
raccontò della sua madrina di Cresima. Ragazza di paese che faceva la magliaia
a cottimo, diligente e laboriosa, amata dalla famiglia e dagli amici. Ma senza
prospettive per una vita già disegnata e prevedibile. Un bel giorno aveva
salutato con le lacrime agli occhi la sua piccola figlioccia, perché partiva
per l’Argentina, sposa a un paesano mai conosciuto. Più tardi si scrissero con
la mia futura moglie, si scambiarono foto. E diversi anni più tardi si
rividero, madrina e figlioccia, durante un viaggio spericolato ma compiuto a
ritroso, accanto al suo sposo: ma sì, stava bene, era felice. Le confessò: il
momento più difficile, anzi terribile, era stato il suo arrivo, l’impatto con
quell’uomo sconosciuto, tutt’altro che bello: o ci vado a letto subito e non ne
avrò più il coraggio. Formarono una famiglia serena, tornarono in visita al
paese più volte negli anni successivi, ebbero un figlio americano. Tutto bene.
Vorrei raccontare, magari un po’
inventando, la storia segreta di queste spose povere, volontariamente costrette
a un incontro con un uomo intravisto solo in una fotografia da studio, col
vestito buono delle feste, i capelli ribelli stirati e domati dalla brillantina
acquistata per l’occasione, e il volto spaurito, come nel novanta per cento
delle foto da studio, quando ci imponevano: Sta fermo e non ti muovere, e
passavano dieci eterni secondi prima che si udisse quel clic liberatorio. E lei
aveva contraccambiato inviandogli la foto colta al volo da un amico di famiglia
durante la processione del Corpus Domini, con il fazzolettone ricamato sul capo
e il vestito a modino. O l’altra, intenta al pesante telaio meccanico.
Quante storie d’amore, nate per
sbaglio o per necessità, e divenute autentiche grazie al rispetto, all’affetto,
a un sentimento cresciuto giorno per giorno, quante passioni, quanti drammi
segreti e inespressi nati da questi incontri volontariamente accettati, forse
subiti!
Una sorta di autarchica e onorevole
tratta delle spose, anche se gestita e garantita nel migliore dei modi. Storie
povere, di una miseria che – nonostante quanto indichino le statistiche – oggi
non esiste più. Non c’erano coperte in soprannumero da distribuire e lasciare
in giro, giacconi finto-cinesi, cappucci finto-svedesi acquistabili a poche
lire o distribuiti da associazioni benefiche. La miseria era miseria, ma
camuffata e accuratamente celata dietro il decoro e la dignità, l’unica
ricchezza a cui non si poteva o doveva rinunciare.
stupendo
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